giovedì 29 agosto 2013

La sottile linea che unisce le conversazioni


Qualche giorno fa ho avuto una bella discussione su Google+ (sì, avvengono anche lì, la trovate qui) sulle conversazioni e su come alcuni social network, che teoricamente dovrebbero facilitarle, di fatto non le rendono così semplici da iniziare e seguire. Un esempio significativo di questo era Twitter: ottimo per fare tante cose ma non per conversare, con botta e risposta slegati tra loro e difficili da seguire sulla propria timeline. Bene, Twitter ha ascoltato noi e tanti altri e ha annunciato un update molto importante sia delle app mobili che di Twitter.com proprio per semplificare la vita agli utenti e permettere loro di "vedere" le conversazioni che fanno loro e le persone che seguono. Il tutto è già operativo: se aprite Twitter trovate una sottile linea colorata (rossa, grigia o altro, le differenze cromatiche sono uno dei misteri non risolti) che collega, anche visivamente, vari tweet.

Era ora, come dice Massimo Cavazzini (aka Max Kava) e altri. Devono avere lavorato un bel po' dentro Twitter per trovare questa soluzione, il che è positivo perché dimostra che ascoltano i loro utenti su questioni non secondarie. I mercati sono conversazioni dice un vecchio e sempre attuale mantra e questi devono essere alimentati. Certo, come sottolinea bene Vincenzo Cosenza questo porterà anche delle conseguenze piuttosto complesse: saranno molto più visibili anche le conversazioni che includono critiche o segnalazioni non proprio positive. Penso sia uno stimolo in più a conoscere meglio lo strumento da parte di chi lo usa per motivi di business, penso a nuove policy definite e a tempistiche di risposta certe. E non sono cattive notizie.

Non esprimo pareri sommari, voglio vedere come mi trovo con questa nuova modalità. Però una cosa mi fa piacere: quando si replica ad un tweet, la conversazione viene spinta in alto nella timeline. Una soluzione che alimenta naturalmente lo scambio dialettico e che era una delle prerogative principali di un vecchio social network il cui sistema è servito a sviluppare Facebook. Tra il serio e il faceto, sostengo da tempo che possa essere un possibile modello di riferimento per i social network del futuro. Una piccola conferma c'è, nella forma di una sottile linea rossa (o grigia). 



martedì 27 agosto 2013

L'elmo lasciamolo a Scipione


Ci sono immagini che segnano una carriera, quasi una vita. La sconfitta di Dukakis nel 1988 alle Presidenziali americane contro Bush Senior, una vera e propria catastrofe elettorale, è identificata con una foto simbolica: il candidato democratico alla guida di un tank con un elmetto troppo grande, un giubbettino posticcio e una posa talmente sgraziata da sembrare photoshoppata (digitate "Dukakis" su Google e appare subito la foto qui sotto, autentica). Ai repubblicani non parve vero e ci fecero una pubblicità irridente. Da quel momento nelle 10 regole da seguire nella comunicazione politica, valide per ogni spin doctor che si rispetti a livello mondiale, c'è "mai, mai ma proprio mai fare fotografie al capo con elmetto in testa". Perché inevitabilmente apparirà ridicolo e darà un'immagine che, per motivi diversi ma abbastanza chiari, non piacerà a nessuno.


Ebbene, non tutti i consulenti hanno evidentemente buona memoria: il nostro premier è apparso con elmetto e giubbetto antiproiettile sopra al completo con giacca e cravatta durante la visita a Kabul. Immagine ufficiale, non scatto rubato da un corrispondente.


Un'immagine strana, inverosimile, che presta il fianco a battute facili e, soprattutto, evitabili. Non rafforza per nulla l'immagine di Letta, anzi lo fa vedere come un pesce fuor d'acqua in un contesto dove non può permetterselo, visto che lì vicino stanno avvenendo conflitti a fuoco, crisi umanitarie e difficili ricostruzioni. Avete mai visto Obama con un elmetto in testa? Mai, solo con il casco da bicicletta (immagine positiva, rassicurante, da buon padre di famiglia). E Tony Blair? Mai (al contrario di Gordon Brown). Neanche George W Bush, nel suo famoso discorso della "missione compiuta" sopra la portaerei Lincoln, indossava il casco da pilota ma lo teneva in mano. Non è un caso. Certo ci sono eccezioni, come la Thatcher sul tank, ma stiamo parlando di un'eccezione bella grossa. Anzi, per essere precisi, "the iron lady" non ha un casco ma un look studiatissimo e la Union Jack al proprio fianco. Qui vedete una carrellata di foto di leader con l'elmetto, ditemi quale ne esce bene. Nessuno.

L'abito non fa il monaco, per cui lasciamo gli elmetti a chi li deve usare per salvarsi la vita. La leadership, la sicurezza, la fermezza le vedi da altre cose. Non dall'elmo di Scipio.

venerdì 9 agosto 2013

Le storie d'azienda che dovremmo raccontare di più

Vi racconto una storia.

Nel 1918, alla fine della Grande Guerra, in un paesino del ferrarese, in the middle of nowhere, apre una piccola bottega artigiana. Sono in tre, il fondatore Vezio Bertoni e due operai, specializzati nel riparare i pochi autoveicoli che circolano. Si pensa che saranno sempre di più. Nel 1930 sono già in trenta e riparano anche mezzi agricoli, oltre a fare pezzi di ricambio. Entra un nuovo socio, perché si intuiscono le potenzialità dell'impresa: nasce il primo stabilimento, si iniziano a produrre macchine utensili e si crea il marchio, con una lince perché è l'animale preferito del fondatore.



Nel 1940 i dipendenti sono 600, l'azienda è grossa e vende all'estero (nel 1940, eh). Lo scoppio della guerra costringe il fondatore a portare tutti i macchinari, tra mille difficoltà, in Trentino, una zona più sicura. Alla fine delle ostilità, l'azienda torna a casa e riparte, con lo stesso piglio. In pochi anni ricomincia a vendere in Italia e all'estero, come prima.

I primi anni '60 segnano l'inizio della fine del miracolo economico italiano. E l'azienda, coraggiosamente, cambia il proprio core business: si butta nel settore emergente dei sottocarro, ossia quell'insieme di componenti che permettono a un mezzo cingolato di funzionare, e nell'export.



I risultati arrivano presto, l'azienda diventa quasi un sinonimo del prodotto che realizza. Per questo, inizia a far gola all'estero (come altre aziende nazionali molto prestigiose) e alla fine degli anni '70 entra un'importante azionista tedesco, che ne prende il 50%. A metà degli anni '80 la quota della società tedesca diventa il 100%. La società, con un nuovo Amministratore Delegato italiano e omonimo del fondatore, continua a crescere. Nel 1994 produce 100mila tonnellate di prodotto finito, che diventano 150mila solo tre anni dopo. Ormai ha tre stabilimenti produttivi in Italia e un marchio conosciuto ovunque.

Dopo il 2000 vengono aperte filiali in Europa, Stati Uniti, Cina e India. Vende i suoi prodotti in quasi 100 Paesi nel mondo. Ma l'azienda rimane parte integrante del paesino di 17mila abitanti che ne ospita la sede principale, la sua sirena decreta il passaggio del tempo molto più dei campanili. Una società che riconoscevi subito quando la vedevi a una fiera: stand grandi e curatissimi, un merchandising di altissimo livello che ricordava quello della Ferrari (e non per caso), una cultura comunicativa molto più elevata rispetto a quella delle aziende del suo settore. Un gioiellino insomma, con cui anni fa ho avuto il piacere di collaborare direttamente, contribuendo a scrivere comunicati stampa e case history.

Di questa storia non ne avete sentito parlare probabilmente. Questa società si chiama Berco ed è andata su tutti i media italiani nei giorni scorsi perché rischiava di lasciare a casa 611 dipendenti, rischio per ora scongiurato. Questa storia quasi centennale invece può insegnare tanto sulle vite delle imprese, sulle startup che non sono state inventate ora e su cosa si può fare in Italia, nonostante tutto e tutti. Non basta parlarne quando vanno male. Dovremmo raccontarcene di più di storie così, c'è l'imbarazzo della scelta.

Buone ferie.

giovedì 8 agosto 2013

Non trascurare mai le belle idee (a volte ritornano)


Bologna, anno 2008 o giù di lì, lavoravo ancora in agenzia. Avevamo un cliente, un ente pubblico, che ci chiedeva un progetto per la realizzazione di una guida della città e del suo territorio un po' diversa dal solito. Doveva offrire dei percorsi che partissero da temi meno battuti come l'architettura, la musica (compresa quella contemporanea), gli eventi, la gastronomia e l'industria. Facendo vedere una città viva e immersa nel presente, non solo chiese e monumenti. Ci venne un'idea. Era il periodo di esplosione del fenomeno mp3, di eMule e di iPod sempre più evoluti: perché non dare delle tracce audio che permettessero alle persone di avere un'audioguida sempre con loro? Qualcosa di gratuito, che potevi usare o meno e con temi che potevi scegliere, che si integrava con mappe reali e virtuali. I limiti però erano tanti, in primis quello di basarsi su un supporto non tradizionale e, diciamocelo, che sapeva un po' di illegale. Il progetto non ebbe un seguito e il tutto portò a una (bella) guida su carta con DVD.

A distanza di anni, scopro che un'idea del genere è diventata feelvenice, un'applicazione per iPhone per scoprire Venezia. Da quasi veneziano, la cosa mi fa ancora più piacere. Soprattutto, mi piace che sia stata realizzata da un amico come Gilberto Dallan (con la collaborazione di Silvia Pittarello e di una software house veneta). La tecnologia è diventata più matura in questi anni per sviluppare concretamente un'idea del genere: lo smartphone è l'immancabile compagno di viaggio e conoscere le città attraverso il suo schermo, con immagini e audio, è ormai cosa normale per tutti. Tuttavia il fatto che avessimo avuto quell'idea mi piace, sicuramente non eravamo né i primi né i più bravi ma era nato tutto da un semplice brainstorming nella sala riunioni. E questo resta agli atti. Non so se l'applicazione sarà un successo, certamente Gilberto se lo merita. Quel che so è che non bisogna mai trascurare le idee che riteniamo belle. Perché possono diventare belle davvero, magari anni dopo.

martedì 6 agosto 2013

Il caso Washington Post: la sopravvivenza non basta


Se volete saperne di più su come e perché Jeff Bezos si è comprato il Washington Post per 250 milioni di dollari, basta leggere un articolo. Questo, proprio del Washington Post stesso (per il bellissimo titolo c'è anche questo). Mi limito a elencare solo 4 punti, per me i più interessanti:

  • Il Washington Post, il secondo più autorevole quotidiano d'America dopo il New York Times, era in vendita. Perché, semplicemente, era in perdita costante. Non è che Bezos ha fatto una proposta indecente che ha fatto decidere per la vendita, è stato solo scelto quale migliore opzione possibile. La differenza è sostanziale.
  • “The Post could have survived under the company’s ownership and been profitable for the foreseeable future. But we wanted to do more than survive. I’m not saying this guarantees success, but it gives us a much greater chance of success.” Il Post poteva sopravvivere anche senza Bezos ma coloro che ne detenevano la proprietà da 80 anni, la famiglia Graham, volevano di più. In soldoni, il secondo quotidiano americano, e uno dei più autorevoli al mondo, non aveva un modello di business preciso di medio/lungo periodo. Non una bella notizia.
  • Bezos si compra il quotidiano per sé, rimarrà il solo proprietario e questo non avrà nulla a che fare con il modello Amazon. In più, sottolineano, non dovrà rendere conto ad azionisti e investitori dei risultati trimestrali. Questo significa che potrà darsi obiettivi di medio/lungo periodo senza patemi di breve periodo, per cercare un modello di business che dovrà essere, per forza di cose, nuovo.
  • Bezos non ha nessuna esperienza da editore nella gestione di mass media e quotidiani. Se guardiamo alla sua storia, ha rivoluzionato il modo di comprare e vendere libri con un modello di business totalmente nuovo, che ha spiazzato le case editrici tradizionali. Il tutto partendo, come vuole la leggenda, dal garage e da un prestito dei suoi genitori. Ma Amazon, sottolineo con l'evidenziatore giallo, ha fatto profitti 9 anni dopo essere nata. Nove anni.  
Quali possibilità ci sono che un imprenditore geniale ma senza alcuna esperienza come editore di giornali trovi un modello di business profittevole per un quotidiano di quel peso e di quella storia? A mio parere, forse la questione sta tutta qui. Forse serve proprio qualcuno che abbia idee nuove, senza preconcetti, per trovare una nuova via. Vero, il New York Times e il Wall Street Journal sembra che la loro l'abbiano trovata ma, come dico da sempre, sono casi molto diversi e unici, forse non replicabili.

Un'ultima cosa, leggete i commenti dei lettori. "Meno opinionisti, più giornalisti investigativi e fact checker". Sottoscrivo.

giovedì 1 agosto 2013

Startup: tifo per chi si butta, diffido di chi ne parla


Premessa: non sono un imprenditore e quando ho aperto la partita IVA l'ho fatto per assoluta necessità, non per scelta né per vocazione. Lo stesso nome di questo blog testimonia quanto poco mi sentissi libero professionista. Da sempre sono aziendalista, mi piace il gioco di squadra all'interno di un'impresa che però non ho fondato io. Per questo, quando qui sotto inizio a parlare di fare impresa, startup e fare rete lo farò analizzando la comunicazione che riguarda questi temi, non i temi in quanto tali.

Come qualsiasi utilizzatore di Internet e di strumenti di comunicazione "sociali", sento spessissimo parlare di startup, di fare Rete e di stanziamenti. Leggi cose come queste e, oltre a ritrovare l'ottimismo, sei contento per loro, sinceramente. Perché, personalmente, la fiducia nell'Italia non l'ho mai persa: da sempre vedo al lavoro tante PMI che, nonostante tutto, progettano, inventano e vendono tanto. Sono loro che tengono su il Paese, quel 93% di imprese italiane che ha meno di 10 dipendenti. Altro che Fiat. Quelle che sono state startup ante litteram e che sono cresciute, nonostante tasse inique e una burocrazia spaventosa. Un miracolo italiano, vero, che dura da trent'anni e che ora sta subendo una crisi grossa perché ci si è messa pure l'economia ad andar male da 4 anni. Allora mi chiedo: perché si parla pochissimo delle imprese esistenti e molto di quelle potenziali che nascono, o dovrebbero, sulle basi di idee strabilianti? 

La risposta, per me, è molto semplice. Perché parlare di futuro, e non di presente, rende di più se lo devi comunicare, se ne devi parlare ai convegni, se devi prefigurare una facile prospettiva dove il culo, alla fine, è quello di un altro. Dire che sopravvive una startup su dodici non è bello, meglio supporre che in Italia possa nascere un nuovo Mark Zuckerberg (un esempio qui). Però l'Italia non è l'America, non ci sono i Venture Capital che trovi lì. Ci sono microaziende che esplodono ma sono pochissime, la maggioranza lavora durissimo e nel medio/lungo periodo riesce ad arrivare al pareggio di bilancio, se hanno idee e gente valida che vi lavora per anni. Meglio comunicare a un convegno che puoi avere un'idea meravigliosa, che gente ti può dare dei soldi per quell'idea e che diventi ricco in poco tempo. Poco verosimile ma tanto, tanto bello da dire. Meno bello dire cose così.

Io non sono contro gli startupper (termine orribile, imprenditori fa così schifo?), sono contro chi ne vende un'idea irrealistica, plasmata sulle esigenze di un keynote piuttosto che su un business plan. Io non sono contro chi ha sincero entusiasmo per questi ragazzi che fondano imprese innovative (vedi qui) , sono contro chi li dipinge in un certo modo per fini personali e professionali. Io voglio che si parli più di aziende che dopo vent'anni sono ancora sul mercato, che sono cresciute facendo macchinari, macchine utensili e software. Che sono nate quando la parola "startup" non esisteva in Italia ma che sono lì, a battagliare sul mercato, ogni giorno. Che delle chiacchiere da convegni se ne fregano e invece ascoltano le idee di ragazzi brillanti e motivati, che siano dipendenti o consulenti. Ci sono, sono tanti e ai convegni non ne parla quasi nessuno. In compenso, al'estero, dicono di comprarle le nostre PMI, che sono "un ottimo affare".