C’era una volta un’impresa italiana che aveva un problema di comunicazione. Aveva un grande stabilimento in Cina, produceva lì e fin qui nulla di male. I suoi concorrenti tuttavia sottolineavano spesso e volentieri che i suoi prodotti erano “fatti in Cina”, presupponendo una qualità generale inferiore secondo l’accezione comune (un tema dibattuto spesso, in vari settori).
Quell’impresa mi chiamò per una consulenza, per sapere cosa doveva fare. Io feci una breve intervista al responsabile, come faccio sempre (e ho scritto come farle), ponendo qualche semplice domanda:
- I prodotti fatti in Cina sono qualitativamente inferiori? No, mi dissero, rispettano tutti gli standard dei nostri reparti italiani, anzi anche alcuni più rigorosi. Non sono di certo peggiori di quelli dei concorrenti.
- Avete delocalizzato là? No, le nostra impresa è cresciuta, abbiamo aperto una filiale commerciale in Cina, vendevamo tanto e allora abbiamo deciso di produrre là per vendere direttamente là. Poi, quei prodotti ora vengono venduti in tutto il mondo.
- Avete lasciato a casa qualche dipendente in Italia per questo? No, anzi ne abbiamo assunti per supportare la nostra crescita sia a livello di progettazione che di commercializzazione.
- Avete pensato di chiudere qui e andare in Cina o in altri posti? No, la testa vogliamo tenerla in Italia, ben salda. Poi è chiaro che i nostri partner cinesi stanno crescendo con noi, anche a livello di competenze.
La domanda finale è sorta spontanea: perché non avete mai detto le cose che state dicendo a me al mercato e lasciate che a parlare siano solo i vostri concorrenti? Effettivamente, mi hanno risposto, non c’è una ragione. Abbiamo sempre pensato a produrre, mai a comunicare.
Quell’impresa, oggi, ha capito che non c’è niente di male a dire la verità ai propri potenziali clienti. A comunicare che produce in Cina per vendere in Cina senza vergogna immotivata, oltre a esportare in altri mercati emergenti così cresce anche nel suo complesso, Italia in primis (lo dicono anche imprenditori di primo piano). La Cina non è più solo un Paese di manovalanza a basso costo ma anche un mercato ricco che compra moltissimi prodotti italiani: 40 miliardi di Euro oggi, 60-80 tra qualche anno. Per questo, l’impresa ha creato un company profile (non ne aveva uno, solo qualche presentazione), sta progettando l’evoluzione del sito e altre iniziative di promozione. Ha capito che dev’essere lei, in primis, a spiegare le cose, che il lavorare bene non basta più per competere a livello mondiale, ci vuole molto altro.
Sono molto orgoglioso di aver collaborato con quell’impresa e di aver contribuito a questo passaggio culturale. Non so se vivranno felici e contenti per sempre. Le favole industriali sono diverse da quelle classiche ma almeno c’è una certezza: sono sempre belle storie da raccontare.
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