Leggo un bell'articolo di Wired sulla scelta di una mamma di non pubblicare le foto di sua figlia su Facebook, Twitter o altri luoghi. Se mi leggete un po', sapete che la questione delle immagini dei minori è un mio pallino da un po' (vedete qui). Ritengo che ognuno con le sue foto ci fa quello che vuole, e questo vale anche per quelle dei figli, di cui i genitori tutelano i diritti. Proprio per quest'ultimo motivo, non voglio dare consigli, solo qualche spunto di riflessione con cinque semplici domande:
Siamo sicuri di conoscere bene le nostre impostazioni di privacy sui vari social network?
Sappiamo che le foto che pubblichiamo su Facebook appartengono a Facebook che può farci, più o meno, quello che gli pare?
Siamo sicuri che i nostri figli approveranno, quando capiranno cosa vuol dire, la nostra scelta di pubblicare online le loro foto in modo massivo e in totale buona fede?
Siamo sicuri di essere così diversi dagli adolescenti che talvolta critichiamo per il fatto che "mettono tutto online"?
Siamo sicuri di essere consapevoli del nostro ruolo di produttori di contenuti e di informazioni di cui abbiamo la responsabilità?
Se le risposte sono tutte affermative, c'è già stata una bella riflessione a monte, che è quello che serve davvero. Se non sono tutte affermative, meglio pensarci su due minuti. Non costa quasi nulla. Io cerco di farlo tutti i giorni.
Leggo oggi un bel post di Massimo Melica sulla sempre troppo poco trattata relazione tra minori e giornalismo/comunicazione. Come gestire correttamente una notizia, di quelle brutte della cronaca ma non solo, che riguarda un minore? I giornalisti hanno regole piuttosto precise, che talvolta non rispettano ma che ci sono e sono molto chiare (essendo giornalista, le ho studiate). Consiglio a tutti di leggersi la Carta di Treviso, un manifesto di rara sensibilità che sottolinea non solo la tutela giuridica degli under 18 ma anche le responsabilità che si assume il maggiorenne giornalista che ne scrive e li fotografa. E c'è di più. Viene tutelato il principio di "difendere l'identità, la personalità e i diritti dei minorenni vittime o colpevoli di reati, o comunque coinvolti in situazioni che potrebbero comprometterne l'armonioso sviluppo psichico".
La Carta di Treviso è del 1990, è stata successivamente rinnovata e rivista nel 1995 e nel 2006. Per adeguarla alle nuove necessità, soprattutto in termini di strumenti di comunicazione, c'è stata un'attività di promozione della stessa nel 2012 ma, come appare subito evidente, c'è un grosso limite: è riservata ai "media" tradizionali. Era il 1990 e Tim Berners-Lee avrebbe definito il protocollo HTTP, il cuore di Internet, solo un anno dopo. Ora è evidentemente inadeguata a gestire il panorama mediatico attuale, il tempo passa per tutti, anche per le buone cose. Come dimostra anche il caso citato da Massimo Melica: c'era fretta di pubblicare la notizia, si è lasciata la foto di un amico (forse un minore) che non c'entra nulla col fatto. Una scelta infelice: io, lettore, avevo intuito che era il fidanzato presunto colpevole. Non una cosa da poco se si vuole tutelare l'armonioso sviluppo del ragazzo ritratto.
Il giornalista però si pone il problema, sa le proprie responsabilità, può spiegare le motivazioni (come fa a Melica) ed è già un atto importante. Se c'ero io col mio smartphone e i miei, diciamo, 10mila follower su Twitter (ne ho 1/25, per la cronaca), mi sarei fatto dei problemi a fotografare la scena e a condividerla? E se c'erano dei bambini? E se avessi legato alle immagini giudizi affrettati e non verificati (a proposito dei giudizi sommari 2.0, leggete qui)? Il problema non è piccolo: ognuno di noi oggi è produttore di contenuti e le responsabilità sul web sono difficili da attribuire e tutelare. Lungi da me pensare alle censure ma, lo voglio sottolineare bene, la Legge vale anche su Internet. Per questo, è bene iniziare a porsi il problema di gestire le immagini online di qualcuno. Iniziando da quelle dei nostri figli, ma questo sarà per il prossimo post.
(Photo credits: l'immagine, famosissima, è di Anne Geddes, modificata da me)
Come papà, oltre alle cose legate a educazione, protezione e sicurezza dei miei figli, sono molto attento e curioso nel vedere come guardano il mondo. I loro ragionamenti rigidamente logici e senza pregiudizi, il loro modo di giudicare obiettivamente le cose, il loro incontenibile desiderio di conoscere tutto ciò che non sanno. Spesso noi grandi abbiamo più da imparare che da insegnare. Ne ho parlato più di una volta qui dentro: della loro bravura a riconoscere i marchi anche quando sono molto piccoli, della fatica di spiegargli il mio lavoro (anche col nonno, in realtà) e della loro rigida logica nel scegliere dove andare a mangiare in spiaggia. Oggi leggo un bel post di Elena Veronesi su questo tema: guardate più i vostri bambini delle ricerche di mercato, è più utile. E mi è venuto in mente un altro caso, recentissimo. Ora spiego.
Io e il piccolo (3 anni e 3/4, parlantina sciolta come tutti in famiglia) siamo al supermercato. Lui vede una scatola di caffé e mi chiede incuriosito il nome del personaggio sulla confezione. "Carmencita" rispondo io, distrattamente. Lui, ovviamente non si accontenta, vuole saperne di più. Provo a spiegargli chi è lei, chi è Caballero ma in realtà ho vaghe reminiscenze anch'io. Beh, c'è YouTube. La sera gli ho fatto vedere i vecchi filmati (no, non quelli nuovi) sul PC. Per una settimana non c'è stato verso di guardare altre cose: guardiamo Carmencita! E mi divertivo pure io, lo ammetto.
Nei giorni successivi gli ho fatto conoscere la Linea della Lagostina (inventata da Osvaldo Cavandoli) e il Merendero della Talmone, oltre ad altri personaggi legati all'epopea del Carosello che neanche io conoscevo ma che YouTube, immancabilmente, mi suggeriva. Tornando al supermercato, pur non essendo ovviamente un bevitore di caffé, lui voleva assolutamente comprare "quello con la Carmencita". Una persona al di fuori da qualsiasi target dell'azienda insisteva per farmelo acquistare, in modo lecito e senza alcun beneficio diretto.
Perché? Non solo per la confezione, per il pupazzo Carmencita. Perché intorno al quel caffé percepiva una storia e un'inventiva che in tutte le altre marche non c'era. "Emotional benefits sell better than rational ones". Ho riscontrato nelle altre confezioni una totale mancanza di fantasia, di attenzione verso il potenziale cliente e anche di inventiva grafica. Quasi tutte avevano una tazzina, una moka o una macchinetta: senza saper leggere, erano del tutto indistinguibili. Lo ammetto, non ho comprato la Carmencita, a casa avevamo già caffé a sufficienza. Ma il piccolo, come spesso accade, mi ha dato una piccola, grande lezione di marketing. E di storytelling.