Volete un semplice esempio per sapere come funziona (male) l’informazione in
Italia? Le elezioni americane. L'argomento mi appassiona dal 1988,
da Bush padre che massacra Dukakis dopo 8 anni di Reagan. Non dall’era Obama. Se vogliamo approfondire la cosa sui media, oggi, vediamo
un sacco di fumo e pochissimo arrosto. Partiamo da una domanda chiara e semplice: nelle
elezioni americane vince chi prende più voti popolari? No. Diventa Presidente chi ottiene più voti
dei “grandi elettori”, i quali vengono eletti, in numero predefinito, in ogni
Stato. La differenza non è lieve. Al Gore nel 2000 ottenne più voti popolari di George W. Bush ma, perdendo la Florida
di 537 voti (e vedi qui se e come la perse), perse la Casa Bianca. Insomma, un Risiko: si vincono gli Stati e, facendo la somma
dei Grandi Elettori, si ottiene il Presidente degli Stati Uniti. Trovate tutto, ovviamente, su Wikipedia.
Quale informazione invece danno i nostri media? Sondaggi
sulle tendenze di voto delle donne single. O di latinos, afroamericani, gente del midwest e chi più ne
ha più ne metta. Tanta fuffa, pochissima sostanza. Oppure tutte le luci accese
sui dibattiti dei candidati, che sembra che spostino centinaia di migliaia divoti. Kennedy nel 1960 distrusse Nixon in tutti i dibattiti e vinse, certo, ma
di 112mila voti, appena lo 0,2%, un record ancora non superato. In termini di Grandi elettori invece? 303 a 210. Che sembra un massacro, no? Se
andate sul sito www.politico.com, nella sezione degli Swing States (gli stati in bilico), potete
fare le vostre previsioni, capendo esattamente come funziona la partita. Ogni
stato ha un peso: la California ha 55 Grandi Elettori, l’Alaska 3. Un sistema spiegato in modo chiaro, semplice, efficace. Da noi? Un esempio.
Il sistema americano è giusto? Non lo so, quel che è certo è che funziona (quasi) sempre. Perché non ci viene spiegato bene? Si parla tanto di Ohio e
Florida come Stati decisivi senza evidenziare, in modo comprensibile a molti e senza ammiccamenti da addetti ai lavori, perché dovrebbero essere
decisivi. Qui sta il succo della crisi dell’informazione: tanta quantità e analisi, poca qualità e chiarezza. Belle eccezioni in questo scenario mediocre ne esistono,
un esempio qui e un altro qui (partendo da West Wing, serie favolosa): tanti fatti, poche parole, una specie di infografica utile (mica
sono tante). Poi ci sono progetti e idee interessanti (come questo, segnalatomi
da Michele D’Alena) ma qui si entra più sul gioco che sull’informazione.
Come disse Arthur Miller, “un buon giornale è una nazione che parla a se stessa”. A noi, oltre a un modello sostenibile per l’editoria del futuro (sempre che possa esistere), ci mancano i buoni giornali. E una nazione di persone che, finalmente, impari a scegliere cosa ascoltare.
Chi vincerà? Io la mia previsione su www.politico.com l'ho fatta, è qui sotto. Stiamo a vedere.
Come disse Arthur Miller, “un buon giornale è una nazione che parla a se stessa”. A noi, oltre a un modello sostenibile per l’editoria del futuro (sempre che possa esistere), ci mancano i buoni giornali. E una nazione di persone che, finalmente, impari a scegliere cosa ascoltare.
Chi vincerà? Io la mia previsione su www.politico.com l'ho fatta, è qui sotto. Stiamo a vedere.
[U.S. debate] Yes, I confirm my prediction (October, 17) #obama303romney235 twitter.com/riccardopolese…
— Riccardo Polesel (@riccardopolesel) Ottobre 23, 2012
Nessun commento:
Posta un commento