lunedì 25 luglio 2011

Autocritica, questa sconosciuta (per i media)


La crisi di credibilità e di identità dei media è, oggi, sotto gli occhi di tutti. Il caso di News of the World (ne ho già parlato qui) è ben lontano dall'essere chiarito in ogni suo punto ma, oggi, mi interessa parlare della notizia della settimana, ossia della strage norvegese. Ovviamente, non voglio parlare del caso in sé (mica mi occupo di cronaca nera, perché di questo di tratta) ma di come i media me l'hanno descritto. Sì, mi prendo come campione, "il lettore comune", e faccio una breve cronologia per spiegare i risultati di questa analisi.

  • 22 Luglio: appena saputo della notizia, sono andato a informarmi subito sui media: TV, giornali, Internet. E non ho trovato dieci ipotesi, ma una quasi certezza, esplicitata da questa tag: #fondamentalismoislamico. Basta fare, oggi, una ricerca con Google per trovare tutte queste notizie: Ansa, quasi tutti i quotidiani (vedi qui, qui e qui ma gli esempi sono molteplici) e i TG. Un coro quasi unanime che includeva, nello stesso calderone mediatico, vignette offensive e intervento militare in Afghanistan, Mullah residenti in Norvegia e varie minacce già confermate.
  • 23 Luglio: iniziano ad uscire le prime notizie confermate sul modus operandi e sull'attentatore. Viene fuori che è un biondo e alto norvegese, di estrema destra e, soprattutto, cattolico. I media, accortisi di aver preso una solenne cantonata frutto della voglia di sbattere il terrorista islamico in prima pagina, cosa fanno? Un bel mea culpa? Neanche per sogno, cambiano semplicemente una parte della tag: #fondamentalismocristiano (qui un esempio dei moltissimi, basta sempre Google). Cioè, è sempre la religione il tema centrale, la spiegazione di tutto. A me, come a tantissimi altri con cui parlo, sorgono grosse perplessità. Allora scrivo questo sulla mia bacheca di Facebook:

Riccardo Polesel

Leggo notizie sull'attentato di Oslo. Non capisco la priorità data alla questione religiosa dai media. Le vittime erano laburiste, mica musulmane. Ora cerco di capire meglio

  • 24 Luglio: le analisi sui media si fanno sempre più ampie, si pubblicano notizie sul presunto "fondamentalista cristiano" scoprendo che la questione religiosa ci azzecca poco o nulla. Questo tizio, questo pazzo, ha messo in giro numerose notizie su sé stesso, sulle sue idee, sui suoi progetti, fonti facili da trovare sulla rete. E i giornalisti non le hanno neanche cercate, buttandosi decisi sul facile luogo comune (questo post di Galatea spiega bene questo paradosso).
  • 25 Luglio, oggi: leggo il Corriere online e trovo questo editoriale, dal titolo roboante. Tra le righe, trovo questa frase: l'omicida di oltre 90 persone pare si sia definito «un fondamentalista cristiano», termine privo di qualsiasi senso. Giusto, un termine che non ha senso riferito a un caso in cui il tema religioso non ci azzecca quasi nulla. Allora mi spieghi: perché ci avete sguazzato per due giorni e mezzo su questa definizione "priva di qualsiasi senso"? Perché non ha espresso sabato quel dubbio che io, umile cittadino privo di iscrizione all'Ansa, mi sono permesso di fare? Perché, oggi, non fate una sana autocritica dopo aver preso non una ma due solenni cantonate?

Niente, il giornalismo continua a chiudersi in sé stesso, a difendere posizioni indifendibili con la solita arroganza, non capendo che è proprio questo il suo principale problema. Che continuino pure a sbattere le foto di giovani vittime in prima pagina e a dare uno spazio enorme alla cronaca nera usando i soliti luoghi comuni, spesso sbagliati e fuorvianti. Che continuino pure a perdere lettori, tanto il facile (e sbagliato) colpevole c'è già, ossia Internet (a breve mi aspetto il tag #fondamentalismodellarete, tanto per restare in tema). Che continuino pure a ignorare il fatto che il ruolo del giornalista, oggi, è più importante che mai, dato che la rete gli offre fonti di informazioni incredibili da poter analizzare in modo professionale e credibile per dare un vero valore aggiunto ai propri lettori. Che continuino pure. Prima o poi si sveglieranno con la metà delle copie di oggi e faranno una solenne autocritica. Sarà troppo tardi, mi sa. 

P.S. Il Guardian, che ha preso pure lui la sua bella cantonata, ha pubblicato un pezzo che riprende in parte le cose scritte qui sopra. Non citando mai il nome dell'attentatore, come ho fatto io (e non per caso)

giovedì 21 luglio 2011

Il cliente non è mai come sembra

Raccontare un'azienda è terribilmente difficile. Perché si tratta di un progetto che, anche se a molti non sembra (specialmente ai responsabili delle società stesse), è molto complesso: bisogna trovare le informazioni (aprendo letteralmente armadi e PC, dove sono nascosti tesori inestimabili e dimenticati da tutti), capire quali dati possono essere giusti per descriverla, comprendere cosa cercano i suoi clienti, sintetizzare gli asset strategici, parlare con le persone che ci lavorano e riassumere il tutto in un progetto che includa strategia e analisi dei risultati. Spesso abbiamo difficoltà a descrivere noi stessi, che ci conosciamo dalla nascita, pensate a quanto può essere complicato farlo per un'organizzazione che, in più, parla per vendere. Ci vuole studio, analisi, formazione, esperienza e, anche, un po' di intuito. "Content comes first" dicono negli States. Tuttavia, spesso di riduce tutto a "cosa ci vuole a scrivere dieci testi fatti bene?" Il problema, grosso, è che spesso le stesse persone che pronunciano queste parole hanno una scarsissima conoscenza di cosa leggono i loro clienti, di cosa interessa loro davvero, di cosa guardano. Non è un buon punto di partenza.

Solo facendo alcuni sondaggi, alcuni test e alcune domande ai clienti, ossia coinvolgendoli direttamente, possiamo capire davvero cosa interessa loro. In base a questo, daremo loro le informazioni di cui hanno bisogno. Il buon senso, purtroppo o per fortuna, non basta. Un esempio? Prendiamo la foto qui sotto, una pubblicità di una nota marca di scarpe, e chiediamoci: colpisce l'attenzione dei loro target, ossia le donne, e fa vendere queste scarpe sportive?


La reazione immediata (anche la mia, lo ammetto) è questa: perché mettono una modella nuda con le scarpe se vogliono vendere quelle scarpe a delle donne? Non hanno sbagliato target, visto che questa foto colpisce sicuramente più un uomo? In quest'occasione, non faccio considerazioni di buon gusto (le faccio spesso sui Social Network, dando giudizi non molto positivi come qui) ma offro solo dei risultati tangibili e oggettivi di un test di Eye tracking (processo che misura dove guardiamo e quando a lungo) su cui riflettere:
  • tutte le donne che hanno guardato questa immagine hanno osservato le scarpe e lo hanno fatto a lungo, per almeno un secondo e mezzo (non è poco).
  • tutti gli uomini hanno guardato molto più a lungo il viso (4,2 secondi) rispetto tutto il resto, sedere compreso. 
Non ci credete? Leggete qui, c'è l'analisi completa. Questo test, insomma, ha dato risultati molto sorprendenti, anche per me. Per questo dico che prima di comunicare bisogna conoscere molto bene quelli a cui si parla, se il proprio interesse è quello di "vendere" qualcosa. Ripeto, a me le pubblicità con sederi "buttati là" senza alcuna idea creativa non piacciono ma una riflessione in più non fa mai male.

In uno dei prossimi post parlerò di quanto sia importante l'organizzazione di un testo non solo per attirare l'attenzione del lettore ma anche per fargli ricordare quello che scriviamo. Tuttavia, sento che non siete ancora convinti del test citato. E, per questo, ne propongo un altro (grazie a Sean Carlos per il suggerimento su Friendfeed). Se guardate la foto in basso (si tratta di George Brett, ex giocatore di baseball e leggenda vivente dei Kansas City Royals), sono evidenziate le aree dove uomini e donne hanno focalizzato più a lungo il loro sguardo. No, nessun errore: i risultati degli uomini sono quelli a sinistra.



venerdì 15 luglio 2011

Breve invito a rinviare il suicidio (di un quotidiano italiano)*


Oggi il Corriere della sera ha pubblicato, nella sua home page, una notizia, anzi una non notizia (e già sarebbe cosa grave per un quotidiano). Cito testualmente, con un po' di nausea che mi cresce in modo costante e incontrollato: "Gli scatti segreti di Sarah Scazzi. Guarda le foto. Le immagine inedite tratte dal cellulare della ragazza". Non metto lo screenshot della notizia perché a me un po' di pudore è rimasto ma basta andare sul sito del Corriere (non metto neanche il link e non è un caso). Non ho resistito, perché certe volte non si può proprio farlo, e ho scritto questa e-mail, di getto, alla redazione Cronache (si può fare da qui).

Gentili Signori, 

leggo oggi sulla home page del Corriere che pubblicate "gli scatti segreti di Sarah Scazzi", presi dal suo telefonino. Rifletteteci un attimo, un momento solo: non vi vergognante neanche un pochino? Gli scatti privati di una ragazza, ammazzata dai suoi stessi familiari, sbattuti in prima pagina come niente fosse: vi sembra una bella idea? Rispondetemi sinceramente. 


Una volta questo era un giornale autorevole e credibile, non tanti anni fa, e vendeva oltre 700.000 copie. Oggi pubblica morbosità che sono, di fatto, delle non notizie e vende 490.000 copie. Secondo voi, non c'è proprio alcuna correlazione tra le due cose? Ditemi che fanno tutti così. Ditemi che prendere foto di ragazze uccise dai loro profili di Facebook e pubblicarle è prassi comune. Continuate pure a giustificarvi, chi sono io per impedirvelo? Se andate sotto le 400.000 copie non date però la colpa a Internet, alla crisi e a tante altre cose. Guardatevi in faccia, troverete subito la risposta. E pensate a recuperare una credibilità, ne avete un dannato bisogno. Per sopravvivere. 


Ve lo dice uno di quei 200.000 lettori fissi che avete perso in 5 anni. Un giornalista. Uno che, oggi, un po' si è vergognato per voi.

Saluti.

Riccardo Polesel


Scrivevo proprio qualche giorno fa che il futuro dell'editoria sta nell'avere credibilità e dare approfondimento ai lettori. Il Corriere della sera, un ex autorevole quotidiano italiano, sta andando esattamente nella direzione opposta. A Marzo 2011 siamo a 491.957 copie vendute (meno 20.000 copie da Marzo 2010). Vedremo tra un anno chi ha ragione.


Aggiornamento: ho inoltrato la lettera a Ferruccio De Bortoli, Direttore del Corriere della sera, che mi ha risposto, personalmente, e mi ringrazia [per la riflessione in merito]. Forse c'è speranza.

* Omaggio a Franco Battiato, genio dei nostri tempi

giovedì 14 luglio 2011

Chiunque smette di imparare è vecchio

L'argomento del momento è sicuramente l'avvento di Google+. Su ogni blog e Social Media del globo terracqueo non si parla d'altro, come sempre in toni più o meno positivi. Io ci sono appena entrato e, da buon ospite in casa altrui, evito di fare commenti frettolosi: come accade per le feste, se sarà un successo o un flop lo si decide alla fine. Prima voglio farmi un'idea più chiara, soprattutto sul suo uso e sulla sua importanza nella gestione delle relazioni (e degli interessi, citando ancora Gianluca Diegoli) di ogni giorno, nella vita e nel lavoro. Un aspetto però mi incuriosisce molto, specialmente nell'analisi della competizione con Facebook, e di questo voglio parlare. Il rapporto tra vita online e offline si sta evolvendo ancora?

Apro una parentesi. A fine aprile, dopo aver partecipato a un convegno, avevo scritto un post che sottolineava come le relazioni reali e virtuali possono convivere, non sono alternative. Riflettevo sul fatto che, in base alla mia esperienza, i Social Network non sono un nuovo modo di fuggire dal vecchio mondo ma un nuovo modo di comunicare con un nuovo mondo. Una prestigiosa conferma di ciò viene da una ricerca fatta a UCLA, citata in questo articolo. In un sondaggio, la schiacciante maggioranza degli studenti della prestigiosa università americana ha evidenziato che usa i Social Network per creare relazioni parallele, non alternative, rispetto alla vita reale. I ragazzi, come spesso accade, ci danno lezioni forti e semplici allo stesso tempo. Sempre se li si ascolta, ovviamente. Una di queste è che vogliono relazioni virtuali con caratteristiche sempre più simili a quelle reali, una naturale evoluzione del nostro modo di pensarci online.

Bene, come si legano l'avvento di Google+ e questa riflessione? Le cerchie "inventate" dal Social Network del momento non sono altro che la trasposizione di alcune caratteristiche delle nostre relazioni reali. Nella vita, noi abbiamo amici ai quali diciamo certe cose, altri amici ai quali ne diciamo meno, poi familiari, conoscenti, amici degli amici. Tutte relazioni di "peso" diverso che con Facebook, ad esempio, tendono ad appiattirsi perché è "simmetrico" (io leggo tutto di te, tu leggi tutto di me). In Google+ (ma anche in Twitter o Friendfeed), la relazione è "asimmetrica" (io posso leggere poco o tanto di te, tu puoi anche non leggere niente di me), cosa che è molto più simile alla vita reale. Magari la vera rivoluzione sta proprio là: dopo esserci ubriacati di relazioni, ora vogliamo puntare più alla qualità che alla quantità. Le cerchie possono essere una soluzione, da qui a dire se sarà "la" risposta ce ne vuole.

Come dico sempre ai miei clienti, ci vuole calma. Inizia a conoscere uno strumento, testalo personalmente, non fermarti all'ultimo articolo de Il Sole 24 Ore o del tuo blog preferito. Chiedi consiglio a chi lo usa per lavoro. E, passaggio prioritario, guardati allo specchio con occhi obiettivi (tema di cui ho scritto spesso, per esempio qui). Può essere realmente utile per te e la tua azienda? E per i tuoi clienti? Se la risposta è sì, c'è da buttarsi con decisione, attenzione e rapidità. Perché, a quanto pare, il virtuale si sta evolvendo per assomigliare sempre più al mondo reale, il nostro compito è capire come. "Chiunque smette di imparare è vecchio", diceva Henry Ford.

venerdì 8 luglio 2011

Il futuro nell'editoria? Credibilità e approfondimento

Un paio di giorni fa avevo sottolineato come il post più letto ogni tempo qui dentro parla del fatto che le cose più interessanti le trovo seguendo persone (profili e blog), non cercando su Google. Un tema che si conferma fortissimo oggi. Attualità: a causa di un grande scandalo di intercettazioni, chiude il News of the World per decisione di Rupert Murdoch (qui la notizia del Corriere della sera). Per chi non lo sapesse, è il settimanale più letto del Regno Unito e vende più di due milioni e mezzo di copie. Tanto per far veloci confronti, da noi il quotidiano più letto, il Corriere della sera, ha una diffusione di meno di 500.000 copie (ossia meno di un quinto, dati Prima Comunicazione), mentre tra i settimanali è Sorrisi e Canzoni TV, che ha una struttura e delle finalità totalmente diverse, con 830.000 copie (circa un terzo). Insomma, è una notizia clamorosa per il mondo dell'editoria internazionale, già in crisi per altri motivi.

Come spiega benissimo PierLuca Santoro nel suo blog, nel Regno Unito esiste una netta distinzione tra la stampa seria e quella sensazionalista, ossia i tabloid, cosa che non c'è da noi e in tanti altri Paesi, dove la divisione è tra stampa nazionale e locale. Quello britannico è un ambiente molto particolare, dove i quotidiani vendono tantissime copie cartacee in più non solo rispetto a noi ma anche rispetto ai tempi in cui Internet non esisteva (ho già approfondito qui come il presunto assassino dei giornali di carta, forse, non è il Web). Bene, volete approfondire bene la questione? Vi do un consiglio, lasciate stare Google e anche i quotidiani italiani.

Leggendo quattro fonti, molto diverse tra loro, mi sono fatto, in mezz'ora, un'idea sufficientemente chiara e obiettiva non solo della situazione del News of the World ma anche di quella dell'editoria in generale. Sono punti di riferimento quotidiani, perché apprezzo il rigore professionale e l'attenzione all'approfondimento di chi le scrive. In più, mi permettono di avere punti di vista diversi da valutare per farmi un'opinione mia, non una riciclata leggendo due paragrafi di quotidiano. Niente esterofilia, alcuni blog sono italiani al 100%:
In base a queste fonti, mi sono fatto la mia idea. Un giornale molto venduto chiude i battenti semplicemente perché ha perso la credibilità necessaria per vendere copie e per attirare investitori pubblicitari. Un errore tutto suo, non c'è l'ombra di complotti o poteri forti traversali. Però gli inglesi ci insegnano, al tempo stesso, che le persone vogliono essere informate attraverso la carta stampata in modo diverso. Vogliono approfondimenti e chiarimenti, le notizie "nude e crude" le trovano già sui loro cellulari e sui loro tablet. Il quotidiano Daily Mail, ripeto, vende oggi 300.000 copie cartacee in più rispetto al 1995 (quando il sito Internet non esisteva) e il portale cresce anch'esso. Ora ditemi voi: quanti quotidiani italiani avete comprato ultimamente per approfondire una notizia, per andare "oltre il secondo paragrafo"? Non è che il futuro dell'editoria cartacea sta anche qui?

mercoledì 6 luglio 2011

Analisi di un blog

Ai miei clienti dico sempre che cosa funziona e cosa no lo decide chi sceglie, chi compra e chi legge, non lo decidiamo noi che "vendiamo". Ci sono migliaia di idee meravigliose che hanno portato a prodotti ritirati in tre mesi (e spesso non per colpa dei prodotti stessi, che erano quelli giusti ma al momento sbagliato). Vero, ci sono anche tantissime brutte idee che sono brutte da subito ma quelle le lascio per un altro post. Qualcuno potrebbe dire che ci sono le ricerche di mercato che ci dicono cosa si venderà e cosa no. Negli Stati Uniti ci hanno speso 12 miliardi di dollari in queste cose nel 2007. Nello stesso anno e nello stesso Paese, a quanto pare, 8 prodotti su 10 hanno fallito nei primi tre mesi. E allora, come si fa? Non ci sono ricette magiche. Tuttavia, mettersi nei panni dei clienti e non nei nostri, che siamo persone che devono produrre, per forza, prodotti rivoluzionari e innovativi, è già un primo passo nella direzione giusta.

Prendo per esempio il mio blog. Qui ci parlo di tutto, senza stare là troppo a pensare cosa piacerà tanto e cosa meno a coloro che mi leggono (e che ringrazio). Però, indubbiamente, se ho più commenti, più "like" e più messaggi che confermano che ho scritto qualcosa di interessante, è ovviamente meglio. Per me e per chi spende 5 minuti del suo prezioso tempo per leggere cose più sensate di altre. Allora prendiamo i numeri del blog che state leggendo. Le statistiche dicono che i post più letti sono questi:
  1. "Le persone che sconfissero l'algoritmo" (ovvero del fatto che le cose più interessanti le ho trovate seguendo persone, profili e blog di riferimento, non cercando su Google).
  2. "Sparare a un orso? Geniale su Youtube" (ovvero delle infinite possibilità che offrono i video a livello di comunicazione aziendale).
  3. "Il costo dei contenuti" (ovvero di cosa può fare, ossia tanto, e di quanto può costare, ossia meno di quanto si pensi, un professionista che realizza beni immateriali come me).
  4. "I dipendenti pubblici che fecero l'impresa" (ovvero di come poche persone della Regione Piemonte, quasi tutte donne, abbiano realizzato un progetto di open data del tutto innovativo).
  5. "Il mondo delle PMI - Blog o Facebook? Prima c'è da guardarsi allo specchio" (ovvero di come un'impresa italiana, prima di pensare a come stare sui Social Network, dovrebbe capire cos'è una strategia di comunicazione).
Devo dire che sono un po' sorpreso. Se avessi dovuto scommettere prima, avrei indovinato solo il terzo e il quinto post, perché parlano direttamente dei mio lavoro, delle mie difficoltà quotidiane, del mio modo di essere. Gli altri, sinceramente, non me li aspettavo. Mi fa piacere l'apprezzamento sul fatto che scelgo l'uomo (o la donna) prima dell'algoritmo e che le aziende dovrebbero guardare prima ai fondamentali (leggere qui) e dopo alle ultime novità di moda (già mi preparo a rispondere a domande tipo "Scusa ma è meglio Facebook o Google+?"). Mi sorprende positivamente che il post sui dati aperti della Regione Piemonte abbia avuto successo (il merito è tutto di Anna Cavallo e colleghe), perché era stato quasi ignorato nei primi giorni di pubblicazione. Ma sono dati su cui riflettere un po' e luglio è un mese ideale per farlo. Cosa funziona e cosa no lo decide chi sceglie, chi compra e chi legge, dicevamo prima, no? Meglio essere coerenti.