giovedì 29 marzo 2012
Viva l'evoluzione
In questi giorni sono spesso in giro da clienti, attivi e potenziali: Lazio, Friuli, Veneto e, domani, Lombardia. Questi periodi, oltre a essere molto intensi fisicamente, permettono di uscire dall'ufficio, dalla rete, dal digitale, per tornare ad annusare l'aria. Consentono di capire cosa stia cambiando davvero nelle banche e nelle aziende, di avere sensazioni nuove su cui contare per farti un giudizio. Da queste giornate ho tratto due piccole lezioni, una notizia positiva e una negativa.
Partiamo, come tradizione, dalla negativa. Ci sono ancora tante imprese, agenzie e banche che sono legate a schemi conservativi e obsoleti, fatti molto di forma e poco di sostanza. Ho visto responsabili di agenzie di comunicazione spostare 30 volte una pianta per far vedere al cliente che si preparava un evento in modo adeguato, senza poi gestire in alcun modo l'afflusso dei partecipanti e il coordinamento tra le varie persone incaricate. Ho visto banche sostenere di avere una sola e-mail, quella generale, pur di non farsi contattare. Ho visto potenti segretarie che davano colpe a destra e a manca pur di non ammettere di aver sbagliato. Ho visto amministratori delegati difendersi da accuse plausibili su carenze dei propri prodotti sostenendo, con estrema faccia tosta, di essere meglio dei leader di mercato, sempre e comunque. C'è tanta gente, là fuori, che pensa di poter gestire le varie attività in modo superficiale, come ai bei tempi delle vacche grasse. Stessi schemi, stesse logiche.
Ecco invece il segnale positivo: c'è una nuova volontà di collaborazione. Ho visto manager bancari non considerare più le aziende esterne come banali fornitori da far trottare a piacimento, ma veri e propri partner da scegliere con attenzione e curare nel tempo. Ho visto collaboratori di quando ero libero professionista chiedermi di lavorare nuovamente con loro, pur essendo consapevoli che io ora sono dipendente di una società. Ho visto responsabili aziendali chiedere informazioni supplementari su un prodotto/servizio per capire se il prossimo anno, senza alcuna urgenza evidente, ci potranno essere le basi per una partnership di mutuo interesse. Le aziende italiane spesso sono fenomenali nel cambiare pelle nei momenti di crisi, il loro limite è non decidere questo cambio di rotta ma farselo sempre imporre dalla tempesta. Alcune, giuro, stanno facendo passi importanti in questo senso. Nuovi schemi, nuove logiche.
Il mondo si divide in due categorie: quelli che capiscono che il presente ti impone un cambiamento significativo e chi pensa, con leggerezza, di poter andare avanti "come è sempre stato fatto". Una sopravviverà, per l'altra tanti auguri.
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lunedì 26 marzo 2012
Essere in Rete: il ruolo del sito Internet
La domanda che spesso mi sento fare dai responsabili aziendali è: ma in quest'epoca di Social Network e relazioni in tempo reale, ha ancora un senso puntare sul sito Internet? La mia risposta: è più importante che mai. Gli ambienti sociali sono spazi realizzati da aziende specifiche per i propri specifici obiettivi aziendali, non dimentichiamolo mai. Non sono piazze pubbliche digitali a disposizione di tutti, sono aree di proprietà di imprese che dettano regole, modalità e limiti in modo unilaterale e, talvolta, arbitrario. Possono essere fondamentarli per generare conversazioni su un'azienda ma queste si svolgono sempre in un ambito esterno a quello dell'impresa. In questo caso, il sito Internet rappresenta un punto di riferimento fondamentale, un posto dove le persone possano ottenere le informazioni che cercano attraverso i Social Media. Un posto che deve essere autorevole, credibile, aggiornato.
Una conferma indiretta di questo assunto è il dato relativo al quotidiano britannico Guardian, comunicato qualche giorno fa: al loro sito arriva più traffico da Facebook che da Google. Ma il dato realmente importante è che il Guardian si è dimostrato un portale pensato, strutturato e aggiornato per "essere in Rete", non "essere online". L'obiettivo è quello di creare un hub informativo che integri il lavoro delle redazioni con le conversazioni delle persone, a prescindere dagli strumenti utilizzati. Il commento su Facebook si affianca a quello che sta sotto a un articolo. Un esempio fondamentale che va oltre il concetto di quotidiano, rappresentando un'ottimo caso di successo aziendale prima che editoriale. Hanno deciso di sperimentare su loro stessi, di innovare, di provare a fare qualcosa di nuovo, con tutti i rischi del caso, mettendo al centro del progetto il loro sito, non il Social Network di successo del momento.
Quello del Guardian è un progetto che guarda in prospettiva. Tra dieci anni esisterà ancora Facebook? Sarà simile all'attuale? Nessuno lo sa. Ogni azienda che voglia perseguire i propri obiettivi deve andare oltre a questo, deve strutturare un sito Internet fatto di credibilità e di flessibilità. Puntare tutta la posta sull'evoluzione di un'altra azienda, con propri obiettivi di business (Facebook, Twitter e compagnia sono questo, mica onlus), non è una scelta saggia. Anche perché queste hanno sede negli Stati Uniti e sono tutelate da norme americane. Un vecchio adagio anglosassone dice che "se devi mangiare insieme a dei giganti, portati un mestolo molto lungo". Meglio imparare a fare da soli il proprio pranzo e, se realizzato con sapienza e qualità, lo si può condividere con i giganti ma anche coi nani. Ed essere tutti contenti.
P.S. Notizia di oggi, Mediaset non ha rinnovato il proprio dominio .com che è stato preso da un americano. Un banale errore? No, un segnale molto chiaro della cattiva gestione della propria presenza online (come conferma Luca Perugini). A conferma ulteriore di quanto detto sopra.
Aggiornamento dell'8 Maggio 2012: i Social Readers, le applicazioni dei Social Network che consentono di leggere i quotidiani (come quella del Guardian) sono già in crisi. A conferma che puntare tutto sul Social Network del momento, qualunque esso sia, non è mai un'idea saggia.
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giovedì 22 marzo 2012
Scrivere un libro, parte seconda
Ecco il secondo tempo del post sul mio libro, la prima è qui. Qualche giorno fa mi sono soffermato sugli aspetti positivi, ora mi concentro su quelli più o meno negativi. Anzi, per dirla più correttamente, mi sembra giusto approfondire le cose in cui ci si imbatte quando lo stai scrivendo ma che nessuno, o quasi, ti ha detto prima (un po' come quando diventi papà). Perché scrivere un libro è un sogno di molti e oggi ce lo si può anche autopubblicare come ebook. Ma pensare, come me, che tra qualche mese sarà in libreria ha un ulteriore alone di magia. Sì, lo so, sono un tradizionalista ma che ci posso fare?
Ecco le mie considerazioni negative, o quasi, del fatto di scrivere un libro:
Aggiornamento di Settembre 2012: c'è una terza parte, quella delle soddisfazioni post-pubblicazione. La potete leggere qui.
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Ecco le mie considerazioni negative, o quasi, del fatto di scrivere un libro:
- Ci vuole tantissimo tempo: io scrivo per lavoro e pensare di dover realizzare un libro di 150 pagine dedicato a quello che faccio mi sembrava relativamente facile. Niente affatto, soprattutto se si prende in considerazione il tempo necessario. Io da libero professionista pesavo i miei budget sulle ore stimate di lavoro: se avessi dovuto farlo per questo, avrei strutturato una proposta davvero importante. Per realizzare la bozza ho lavorato 6 mesi, di notte (di giorno lavoro e ho una famiglia con due figli), con uno sforzo di concentrazione e costanza davvero notevole. Non è affatto uno scherzo. E, ripeto, io sono abituato a scrivere tanto e velocemente.
- Pensare alla soddisfazione, non ai guadagni: "ah, scrivi un libro! Quanto ti pagano?" è la domanda che mi sono sentito porre da chiunque. La risposta: "non lo so ancora, dipende da quanto vendo. Quindi poco". Il guadagno che ti arriva dalla casa editrice, semplificando, è una percentuale legata alle vendite: tanto per capirci, sotto al 10% del prezzo di copertina per ogni volume. Facendo due conti, si capisce chiaramente che non lo si fa per soldi. Lo si fa per passione, per soddisfazione, per essere utili a qualcuno, un po' la stessa motivazione per cui scrivo questo blog. Mica mi pagano. Però ho trovato due clienti in passato scrivendo qui dentro, dato non prevedibile ma da non trascurare.
- Bisogna chiedere una mano: all'inizio pensi di potercela fare tutto da solo e non ti spieghi tutti quei ringraziamenti che trovi negli altri libri, per correzione di bozze, consigli e altro. Quando sei a pagina 50, ti accorgi che i tuoi occhi non vedono più refusi, ripetizioni, errori di sintassi, e in un attimo realizzi: hai bisogno di una mano, anzi dieci mani. Io ho la fortuna di avere una mogliettina che scrive da Dio e legge tantissimo. Nonostante due figli a cui badare, abbiamo lavorato insieme, mi ha dato consigli, mi ha proposto correzioni. In più, ho chiesto aiuto anche ad altre persone e lo continuerò a fare. Da soli non ce la si fa, fidatevi.
- Un libro è sempre vivo: questo è anche un aspetto positivo. Tuttavia quando hai finito di scrivere un capitolo, manca sempre qualcosa da approfondire, un caso ideale per sottolineare quel concetto. Non lo trovi e te ne fai una ragione. Dopo una settimana, vai su Twitter ed è là, bello pronto, in grado di spostare il baricentro del capitolo stesso: che fare? Rimettersi al lavoro? Il mio consiglio: il libro definitivo non esiste, dovete porvi delle scadenze e rispettarle. Se siete entro la deadline si modifica, se no niente. Avete presente gli scrittori dei film che hanno libri in sospeso da 5 anni? Non è così difficile diventare uno di loro, ve lo assicuro.
Aggiornamento di Settembre 2012: c'è una terza parte, quella delle soddisfazioni post-pubblicazione. La potete leggere qui.
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martedì 20 marzo 2012
L'insostenibile approssimazione delle infografiche
Ho detto più volte di non provare una simpatia smodata per le infografiche. Lo so, sono fuori moda ma non è questo il problema (Twitter è "cool" e lo uso quotidianamente con grande soddisfazione). Ho la netta sensazione che, essendo fatte per colpire l'attenzione, si privilegi il contenitore rispetto al contenuto. Facciamo una prova: quanti dati scritti su infografiche vi sono rimasti impressi nella memoria? Pochi? A me nessuno. Se questi strumenti servono per trasmettere informazioni, per quanto mi riguarda stanno fallendo gli obiettivi. Un po' come accade per certe pubblicità: ti ricordi di quanto erano belle, o addirittura geniali, ma non il marchio o il prodotto che dovevano promuovere. Va bene che, come dice McLuhan, la pubblicità è la più grande forma d’arte ma, come dicono tanti altri, è anche l'anima del commercio.
Una prova evidente dei limiti attuali delle infografiche è data dai risultati della ricerca dell'Osservatorio IULM sulla SocialMediAbility delle aziende italiane, di cui ho parlato anche qualche giorno fa. Hanno pubblicato una bella immagine che riassume i dati principali dello studio, la potete vedere sotto al post. Il campione utilizzato prevede una presenza abbastanza omogenea di piccole, medie e grandi aziende, cosa che non rispecchia esattamente la realtà visto che in Italia il 94,7% delle aziende sono piccole, anzi micro, con meno di 10 dipendenti (fonte ISTAT). Ma è una scelta dei ricercatori ed è da rispettare.
Bene, ora vi chiedo, come facevano i vecchi addetti stampa: dove sta la vera notizia? Che il 49,9% delle imprese coinvolte usi almeno un Social Media? Che il 24,5% delle aziende abbia i bottoni sociali sul sito (parametro che ho utilizzato anche io in passato)? Che Facebook sia quello più utilizzato? No. La vera notizia è quella che ho già citato nell'altro post: l’indice di SocialMediAbility delle piccole imprese, ossia 95 aziende italiane su 100. Che sottolinea questi dati impietosi:
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Una prova evidente dei limiti attuali delle infografiche è data dai risultati della ricerca dell'Osservatorio IULM sulla SocialMediAbility delle aziende italiane, di cui ho parlato anche qualche giorno fa. Hanno pubblicato una bella immagine che riassume i dati principali dello studio, la potete vedere sotto al post. Il campione utilizzato prevede una presenza abbastanza omogenea di piccole, medie e grandi aziende, cosa che non rispecchia esattamente la realtà visto che in Italia il 94,7% delle aziende sono piccole, anzi micro, con meno di 10 dipendenti (fonte ISTAT). Ma è una scelta dei ricercatori ed è da rispettare.
Bene, ora vi chiedo, come facevano i vecchi addetti stampa: dove sta la vera notizia? Che il 49,9% delle imprese coinvolte usi almeno un Social Media? Che il 24,5% delle aziende abbia i bottoni sociali sul sito (parametro che ho utilizzato anche io in passato)? Che Facebook sia quello più utilizzato? No. La vera notizia è quella che ho già citato nell'altro post: l’indice di SocialMediAbility delle piccole imprese, ossia 95 aziende italiane su 100. Che sottolinea questi dati impietosi:
- Orientamento verso i Social Media: 0,4
- Attenzione/cura: 0,3
- Efficacia: 0,2.
Dove si evincono questi dati dall'infografica? In basso ma sono integrati con gli altri, non emergono. In più, la scala è da 0 a 10, mentre guardando i grafici in basso, sembra sia da 0 a 5: una bella differenza. Per un'esigenza puramente grafica, è stato condizionato, se non stravolto, il risultato della ricerca. Questo è solo un esempio, allo IULM hanno fatto un bel lavoro: il problema è nel mezzo, dove quasi sempre non si citano le fonti dei dati. Sono limiti evidenti e, mi sa, strutturali. Immagini e numeri non sempre possono andare d'accordo. Ma la priorità deve essere sempre nella "info", non nella "grafica".
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venerdì 16 marzo 2012
PMI sui Social Media? Bene, anzi no
Tante presenze, poche conversazioni |
- Orientamento verso i Social Media: 0,4
- Attenzione/cura: 0,3
- Efficacia: 0,2.
Le PMI italiane vanno sui Social Media perché "bisogna farlo", senza una strategia né un progetto definito. Gli imprenditori lo leggono sul Sole 24 Ore, lo sentono dire alle fiere, lo vedono in TV, aprono i loro profili e pensano che il più è fatto. I dati di una mia ricerca, presentata l'anno scorso al KnowCamp di Modena, evidenziava lo stesso aspetto, con dati ancora più negativi: nel 2011 solo il 13% delle imprese attive nelle energie rinnovabili aveva profili sui Social Network. Anche quando si decidono a utilizzare questi ambienti di comunicazione e di conversazione, non fanno l'unica cosa che andrebbe fatta: creare relazioni con gli utenti. Mettono poche notizie (i profili Facebook hanno, in media, 5 aggiornamenti al mese), quasi tutte da ufficio stampa, e non rispondono ai commenti delle persone (solo il 6% lo fa e mica solo in Italia). Ci sono dati (impietosi) su cui riflettere: non è il 43% citato all'inizio ma 0,4, 0,3 e 0,2.
P.S. L'evento allo IULM, avvenuto ieri (15 Marzo 2012) aveva come hashtag #sma11. Io ho fatto notare quello che pensavo un errore, gli organizzatori mi hanno risposto (molto gentilmente) su Twitter dicendomi che la ricerca si riferisce a dati 2011, per cui era una scelta voluta. Apprezzo la coerenza (nel 2010 avevano fatto la stessa cosa) ma questa scelta ha portato un bel po' di confusione, non solo per me, soprattutto perché legata a un evento. Del 2012.
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mercoledì 14 marzo 2012
Scrivere un libro, parte prima
Scrivere un libro è bellissimo di per sè ma è davvero dura: a me nessuno l'aveva mai detto esplicitamente. Ci vuole un impegno costante per mesi e, a meno che uno non faccia lo scrittore di lavoro, si deve lavorare part-time. Se hai una famiglia, due bambini, il tennis e una vita, incastrare il tutto ha del miracoloso. Tornando a noi, ecco alcune considerazioni positive sul fatto di scrivere un libro (entro la settimana scriverò quelle negative):
- Possibilità di analizzare seriamente un tema: per scrivere un libro, devi consultare più fonti, cartacee e digitali, capire quali siano più autorevoli, più affidabili e più utili al tuo scopo. Devi analizzare, tagliarle, incollarle e integrarle nei tuoi discorsi. Si tratta di quello che si fa per un post, ma elevato alla potenza. Una fase utilissima per farsi un'idea, ragionata, su alcuni aspetti che di solito si trattano in modo più leggero e veloce. Sei costretto a fare un salto di qualità.
- Trovare un tuo stile: fare un post di 2.000 battute con un unico stile è abbastanza facile, farlo per un libro di 160 pagine è molto, molto più dura. Nei mesi il tuo modo di scrivere cambia, si evolve e si espande (accade, ve lo assicuro), nel libro invece devi rimanere sempre coerente con te stesso. Trovare uno stile che vada bene per tutto il libro non è facile ma è un esercizio importantissimo.
- Essere nella testa del lettore: quando scrivi un post, quelli che lo leggono lo fanno velocemente, comodamente e... gratis. Se qualcuno si compra il tuo libro, ha investito su di te non solo in termini di fiducia ma anche economici. Questo ti responsabilizza, ti fa essere attento a ogni parola, a ogni esempio, per non essere mai banale e scontato. Rileggere un capitolo che hai scritto mesi fa con gli occhi di un lettore è una lezione illuminante su quanto puoi diventare il peggior critico di te stesso.
- Un libro è sempre vivo: si scrive un capitolo, lo si arricchisce, lo si verifica, lo si corregge. Va bene, è pronto. Qualche minuto dopo su Twitter ti segnalano una notizia su quel tema davvero interessante: inserirla o no? Certamente, si dirà. Questo processo tuttavia non ha una fine teorica, un capitolo è sempre in fieri. Solo stabilendo una deadline ci si può salvare, tenendo conto che qualche imprecazione, quando si andrà in stampa, ci sarà sicuramente. Meglio essere preparati al "ma non poteva uscire due mesi fa questa ricerca?!", perché arriverà.
Aggiornamento di metà Giugno 2012: il libro è ufficialmente in libreria, si intitola "Promuoversi mediante Internet", qui trovate il post dedicato. Un'enorme soddisfazione. Perché sta vendendo bene ma non è l'unica cosa che conta.
(la foto è un omaggio a "L'uomo senza sonno", film con un titolo che andrebbe benissimo per descrivermi)
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lunedì 12 marzo 2012
Blogroll, Twitter ed El Pais, tutto in un solo post
Oggi faccio un post di tipo totalmente nuovo. Perché? Ho trovato in giro due o tre begli spunti su cui scrivere, che approfondiscono tesi che mi stanno care o di cui ho già scritto in passato. Invece di fare due o tre post singoli, li aggrego, ne faccio uno solo. Le motivazioni? Di ogni tema non voglio scrivere tantissimo, voglio solo porli come tema di approfondimento o discussione. Ogni tanto mi accorgo che tendo a scrivere sempre le stesse cose (la "maturità" avanza inesorabile), per questo cerco di puntare un po' più sulla qualità e non sui numeri. Lo so, facendo tre post diversi avrei più visitatori e visualizzazioni ma, per una volta, decido di fregarmene. Se non vedrete più post di questo tipo, capirete subito il motivo.
L'utilità del blogroll, oggi
In tanti si chiedono se oggi il blogroll, ossia l'elenco di siti interessanti che affianca i blog, abbia un senso, in un'era di Social Network, informazione veloce e in tempo reale. La domanda se l'è posta PierLuca Santoro, ossia una delle mie fonti di riferimento per quanto riguarda media e dintorni.
Io rispondo chiaro: sì, a me servono. Perché quando ho dovuto cercare fonti di qualità, mediate e autorevoli sulle quali informarmi, i blogroll di alcune persone di cui mi fido in Rete sono stati utilissimi. Mi hanno fatto trovare quello che cercavo in pochissimo tempo. L'alternativa? Google o una ricerca su vari Social Media, molto più incerta e time consuming. Come sempre accade, lo strumento in sé non è mai utile, lo diventa in base al contesto e all'opera di chi lo usa. Io credo sempre più a quanto mi dicono le persone rispetto agli algoritmi. L'avevo già detto qui e qui (uno dei due è il mio post più letto di sempre).
Il caso "dell" su Twitter
Non è il solito #fail di un'azienda alle prese coi Social Media, è qualcosa di più particolare. Leggete qui. In sostanza, se cercate su Twitter cosa comunica o cosa dice l'azienda americana Dell, ed è solo un esempio, trovate un miscuglio di informazioni eterogenee e per nulla legate tra loro. Perché il sistema legge sia la parola in sé sia la preposizione, segnalando ogni news che include "Dell", "dell'appartamento" o "Dell'Utri". Un problema magari da poco oggi ma che potrebbe però minare la credibilità di questo Social Media come fonte informativa nel prossimo futuro. Un caso isolato? Leggete perché non si può cinguettare "W l'Italia". Twitter può diventare davvero un'Ansa "user generated", a patto che lavori seriamente in questo senso. In primis, deve eliminare questi problemi (non troppo difficile ma non lo stanno facendo), poi deve progettare sistemi di Social Media Fact Checking che analizzino l'autorevolezza delle fonti e la credibilità delle notizie per evitare anche problemi nelle relazioni internazionali (più difficile). Ne ho già scritto qui.
Le interazioni tra media tradizionali e digitali
El Paìs, di cui sto seguendo l'evoluzione del progetto di integrazione tra cartaceo e digitale, ha infranto una barriera simbolica: ha sbattuto l'hashtag in prima pagina.
La cosa tecnicamente non ha alcuna utilità pratica (ovviamente il cartaceo non mi permette di cercare quella parola su altri profili o fonti, ossia ) ma dimostra, ancora una volta, l'attenzione della redazione agli sviluppi neolinguistici e neocomunicativi portati dai Social Media. In più, dimostrano che non vedono alcuna divisione tra il cartaceo e il digitale, dimostrando, coi fatti, la loro volontà: siamo gli stessi, ovunque ci trovi. Come ho già scritto, loro e il Guardian stanno sperimentando il futuro, da noi nessuno si è fatto avanti seriamente.
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L'utilità del blogroll, oggi
In tanti si chiedono se oggi il blogroll, ossia l'elenco di siti interessanti che affianca i blog, abbia un senso, in un'era di Social Network, informazione veloce e in tempo reale. La domanda se l'è posta PierLuca Santoro, ossia una delle mie fonti di riferimento per quanto riguarda media e dintorni.
Io rispondo chiaro: sì, a me servono. Perché quando ho dovuto cercare fonti di qualità, mediate e autorevoli sulle quali informarmi, i blogroll di alcune persone di cui mi fido in Rete sono stati utilissimi. Mi hanno fatto trovare quello che cercavo in pochissimo tempo. L'alternativa? Google o una ricerca su vari Social Media, molto più incerta e time consuming. Come sempre accade, lo strumento in sé non è mai utile, lo diventa in base al contesto e all'opera di chi lo usa. Io credo sempre più a quanto mi dicono le persone rispetto agli algoritmi. L'avevo già detto qui e qui (uno dei due è il mio post più letto di sempre).
Il caso "dell" su Twitter
Non è il solito #fail di un'azienda alle prese coi Social Media, è qualcosa di più particolare. Leggete qui. In sostanza, se cercate su Twitter cosa comunica o cosa dice l'azienda americana Dell, ed è solo un esempio, trovate un miscuglio di informazioni eterogenee e per nulla legate tra loro. Perché il sistema legge sia la parola in sé sia la preposizione, segnalando ogni news che include "Dell", "dell'appartamento" o "Dell'Utri". Un problema magari da poco oggi ma che potrebbe però minare la credibilità di questo Social Media come fonte informativa nel prossimo futuro. Un caso isolato? Leggete perché non si può cinguettare "W l'Italia". Twitter può diventare davvero un'Ansa "user generated", a patto che lavori seriamente in questo senso. In primis, deve eliminare questi problemi (non troppo difficile ma non lo stanno facendo), poi deve progettare sistemi di Social Media Fact Checking che analizzino l'autorevolezza delle fonti e la credibilità delle notizie per evitare anche problemi nelle relazioni internazionali (più difficile). Ne ho già scritto qui.
Le interazioni tra media tradizionali e digitali
El Paìs, di cui sto seguendo l'evoluzione del progetto di integrazione tra cartaceo e digitale, ha infranto una barriera simbolica: ha sbattuto l'hashtag in prima pagina.
La cosa tecnicamente non ha alcuna utilità pratica (ovviamente il cartaceo non mi permette di cercare quella parola su altri profili o fonti, ossia ) ma dimostra, ancora una volta, l'attenzione della redazione agli sviluppi neolinguistici e neocomunicativi portati dai Social Media. In più, dimostrano che non vedono alcuna divisione tra il cartaceo e il digitale, dimostrando, coi fatti, la loro volontà: siamo gli stessi, ovunque ci trovi. Come ho già scritto, loro e il Guardian stanno sperimentando il futuro, da noi nessuno si è fatto avanti seriamente.
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giovedì 8 marzo 2012
La voce dell'azienda
Sul libro che sto scrivendo, che parlerà di come creare contenuti per promuoversi su Internet, ho ripetuto più volte che un'azienda ha una voce propria, unica, inimitabile. Il problema è che spesso rinuncia a parlare come sa per adeguarsi a regole e mode del momento. Insomma, cade nella "sindrome del timido alla festa": imita il modo di parlare di quello più "ganzo", risultando poco credibile e non facendo colpo sulla ragazza che sogna. Per un'azienda, questa voce deve essere più o meno la stessa per ogni sua parte, per ogni sua filiale. Non uguale ma simile. Le peculiarità vanno rispettate, così come variano gli interlocutori o gli stakeholder ai quali ogni divisione o sede si rivolge. Però ci deve essere un fattore comune che fa capire all'esterno che, pur avendo caratteri diversi, si è della stessa famiglia, ossia un nucleo serio, affidabile e che sa quello che fa. Con regole chiare e condivise.
Un articolo che ho letto ieri parla di questo in termini di User Interface. Spiega come molto spesso settori diversi non si parlano e offrono "prodotti" diversi (sito Internet e sito ottimizzato per il mobile senza alcuna affinità) a chi è fuori dai loro cancelli, con un unico risultato sicuro: creare confusione e disorientamento. Agli utenti finali non interessa come la società sia organizzata, si aspettano di avere a che fare con organizzazioni unificate e omogenee, nelle quali il valore del brand sia uniformemente distribuito in ogni parte e ufficio. Certamente è vero che stiamo vivendo un periodo di grande evoluzione nel rapporto tra Web, design, contenuti e modalità di relazione con le persone online. Non è facile trovare modelli di riferimento validi per tutti. Ma, come si dice nell'articolo, il modello dei compartimenti stagni non funziona più. Anche perché le sfide, a livello di comunicazione, sono e saranno sempre più difficili in un mondo così interconnesso e veloce, dove si deve scindere tra voce aziendale e voce personale. Con un unico comune denominatore: dire la verità (lo scriveva già il Guardian nel 2009).
Le persone che lavorano insieme devono parlare, confrontarsi e decidere procedure comuni, linee guida che devono poi essere declinate in attività specifiche. Questo ovviamente presuppone una consapevolezza organizzativa molto avanzata. In questo, noi italiani siamo incredibilmente favoriti: il 94,7% delle imprese è sotto i dieci dipendenti. Poche persone da coordinare, quindi. Se le aziende non usano una voce sola, è per una mancanza di consapevolezza e di cultura della comunicazione. I responsabili della produzione, delle vendite, del marketing e del CRM devono parlare più e più spesso sulle strategie da portare avanti. Esempi pratici? Evitare di perdere ore per fare presentazioni di 50 slide, organizzando invece workshop o brainstorming sulle prossime strategie. Far vedere un prototipo del prodotto a vari responsabili aziendali e chiedere loro cosa ne pensano. Una voce aziendale forte richiede consapevolezza dei propri mezzi, sicurezza di sè e obiettivi chiari. Tutte cose che piacciono molto ai clienti (e, mi dicono, anche alle ragazze alle feste).
A proposito, buon 8 marzo a tutte le donne che mi leggono (la foto di Sister Act, del tutto casuale, pone un interrogativo: chissà se arrivano le mimose anche alle suore, visto che, come dicono nel film, sono sposate col "pezzo grosso").
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martedì 6 marzo 2012
Sono sulla nuvola (del Corriere)
Ci sono momenti in cui sei davvero soddisfatto. Oggi, grazie a Cristina Mariani, sono sul Corriere.it, nel blog "la nuvola del lavoro", citato come rappresentante dei Web Project Manager: http://nuvola.corriere.it/2012/03/06/nuove-professioni-cosa-fa-il-web-project-manager/
Sono contento perché è la seconda volta che vado sul blog di Dario Di Vico, uno dei pochi spazi giornalistici dove non si da visibilità solo e sempre a certi tipi di figure professionali. Io ne sono la prova. Ora torno al lavoro, soddisfatto.
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lunedì 5 marzo 2012
Fact checking vuol dire credibilità
Proprio qualche settimana fa, riflettendo anche su qualche aspetto mediatico del caso Costa Concordia, riflettevo sull'esigenza impellente di strutturate un "Social Media Fact Checking". Il caso di Rossella Urru ha riportato di nuovo alla ribalta la necessità di fare una verifica delle notizie che ci arrivano, con i media (tradizionali e "sociali") che fanno gare di velocità, non di accuratezza. Con un danno non calcolabile in termini di credibilità, ossia quella che fa vendere le informazioni. Qui c'è un ottimo riassunto dei commenti e delle riflessioni fatte da addetti ai lavori, giornalisti e non, sul caso della cooperante rapita, la cui immagine è presente ovunque su Twitter. Il dibattito si è acceso, finalmente. Come sostenevo tempo fa, sempre parlando di fact checking, abbiamo più bisogno di un ProPublica che di un Huffington Post.
La velocità è sempre una brutta consigliera ma sui Social Media è necessariamente una componente importante. Twitter lo considero quasi un'evoluzione "user centered" del concetto delle agenzie di stampa: se vuoi una notizia in anteprima, qui la trovi. Il problema è che spesso il "retweet", così facile da fare, può coinvolgere una notizia non verificata. In realtà, il problema c'era anche prima, con comunicati stampa non controllati e pubblicati con un po' di leggerezza. Come dice giustamente il direttore de La Stampa, "l'errore vero è dei giornalisti". Come per il caso dei fantomatici risarcimenti ridicoli per la Costa Concordia (citati dal britannico Daily Telegraph, che non ha mai rettificato), anche qui l'inizio di tutto ha sede in una redazione tradizionale e, per giunta, molto autorevole e rispettata, ossia Al Jazeera.
I nuovi giornalisti, consapevoli della velocità con la quale si propaga una notizia oggi, hanno anche questo ingrato ma necessario compito: investire nel fact checking, nella verifica delle notizie, in termini di risorse e di procedure. La credibilità costa cara, lo so, ma è un elemento fondamentale per la sopravvivenza di qualsiasi media. Il futuro sta anche lì.
Altri utili approfondimenti su questo discorso li trovate qui, qui e qui.
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venerdì 2 marzo 2012
Follow the leader
El Pais (Spagna) ci ha dato un assaggio del futuro prossimo del giornalismo e dei media. Il Guardian (Regno Unito) rilancia in grande stile, con un geniale video sulla rivisitazione della storia dei tre porcellini vista con gli occhi di oggi (vedi sotto). Ci sono tutti gli aspetti fondamentali: coesistenza di notizie ufficiali e generate dagli utenti, redazioni liquide, integrazione in tempo reale di carta e digitale, fact checking delle notizie. E da noi niente? Per ora no, speriamo di vedere qualcosa a breve. Difficile aspettarsi qualcosa del genere da parte dei due grandi quotidiani nostrani, anche se si segnala un calo consistente nel numero di utenti dei loro siti. Forse sono "too big to try", in realtà spendono budget analoghi in altre cose (come sottolinea PierLuca Santoro su Twitter). Non ci resta che fare il tifo per quelli appena sotto, che qualche segnale l'hanno mandato: La Stampa e Il Sole 24 Ore (i cui utenti crescono e non di poco). Speriamo bene.
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