lunedì 24 febbraio 2014

Comunicare (e vendere) con gli sticker

Qualche giorno fa parlavo con un mio collega dell'affare Facebook-Whatsapp, principalmente dei "19 miliardi di dollari". Poi il discorso si è spostato all'utilizzo delle emoticon all'interno dei messaggi di chat, battezzandolo come "una cosa che fanno tantissimo i ragazzi". Aprendo poi il mio profilo Whatsapp, mi sono reso conto anche di quanto io, non proprio un ragazzino, li usi in modo molto più esteso rispetto a quanto mi rendessi conto. Perché? Sono immediati, basta un tap, senza scrivere niente, per commentare qualcosa in modo molto più veloce ed efficace di tanti giri di parole. Ovvio, non sostituiscono le frasi ma per farsi sentire e dire la tua in una chat sono ideali.

Oggi leggo un bel post di Marco Massarotto e scopro che una piattaforma di messaggistica istantanea ha poggiato proprio sugli emoticon, anzi sulla loro evoluzione, una buona parte del suo modello di business. Line, una specie di Whatsapp giapponese molto in crescita, fa molti soldi con la vendita degli sticker, di fatto emoticon evoluti e più complessi che entrano a fare parte integrante della conversazione stessa. Alcuni sono gratuiti, altri si comprano o noleggiano per un tempo limitato. In più, Line propone alle aziende stickers personalizzati per il loro brand o il loro settore di business, in modo tale da usarli per promuovere i propri prodotti o servizi (guardate qui sotto, ad esempio).


Un modello interessante quindi perché non poggia sulla vendita dell’app (scelta complicata per tutti, come appare evidente) né sulla pubblicità. Certo, ci sono anche servizi aggiuntivi, quali giochi e applicazioni per l'intrattenimento, che rendono sostenibile il modello proposto da Line. Forse, ad oggi, non si vive di soli sticker e bisogna vedere se questi, molto utilizzati in Asia, lo saranno altrettanto nei paesi occidentali. Quel che è certo è che battezzarli come "cose per ragazzi" forse è riduttivo, specialmente per quelli della mia generazione. Stiamo a vedere, anche perché il tema "Whatsapp e dintorni" è caldo, come potete leggere qui sotto.

venerdì 14 febbraio 2014

I minori sui media: cinque riflessioni quotidiane


Leggo un bell'articolo di Wired sulla scelta di una mamma di non pubblicare le foto di sua figlia su Facebook, Twitter o altri luoghi. Se mi leggete un po', sapete che la questione delle immagini dei minori è un mio pallino da un po' (vedete qui). Ritengo che ognuno con le sue foto ci fa quello che vuole, e questo vale anche per quelle dei figli, di cui i genitori tutelano i diritti. Proprio per quest'ultimo motivo, non voglio dare consigli, solo qualche spunto di riflessione con cinque semplici domande:

  • Siamo sicuri di conoscere bene le nostre impostazioni di privacy sui vari social network?
  • Sappiamo che le foto che pubblichiamo su Facebook appartengono a Facebook che può farci, più o meno, quello che gli pare?
  • Siamo sicuri che i nostri figli approveranno, quando capiranno cosa vuol dire, la nostra scelta di pubblicare online le loro foto in modo massivo e in totale buona fede?
  • Siamo sicuri di essere così diversi dagli adolescenti che talvolta critichiamo per il fatto che "mettono tutto online"?
  • Siamo sicuri di essere consapevoli del nostro ruolo di produttori di contenuti e di informazioni di cui abbiamo la responsabilità?
Se le risposte sono tutte affermative, c'è già stata una bella riflessione a monte, che è quello che serve davvero. Se non sono tutte affermative, meglio pensarci su due minuti. Non costa quasi nulla. Io cerco di farlo tutti i giorni.

giovedì 6 febbraio 2014

In un mare di news, contano le relazioni


Dati,sensazioni, riflessioni. Partiamo dai dati: ogni giorno, a quanto pare, siamo bombardati da 5.000 messaggi diversi provenienti da fonti diverse. E, inevitabilmente, tendiamo a ignorarne sempre di più, molto spesso in modo inconscio. Questo non contribuisce a selezionare le notizie che ci interessano maggiormente, specialmente quelle provenienti da brand che, in realtà, potrebbero e dovrebbero interessarci. La febbre da comunicazione online, spesso causata da poche basi solide a livello di cultura di marketing e comunicazione, prevede l'uso di potenti mezzi a basso costo per bombardare a tappeto. I dati dicono che oggi serve a poco, domani servirà ancora meno.

Le sensazioni. Lavorando sul campo tutti i giorni mi accorgo di come, alla fine, gli strumenti tradizionali come gli incontri faccia a faccia, le mail e le telefonate, ossia le modalità di comunicazione one-to-one, permettano di ottenere più risultati di decine di altre attività più innovative ma delle quali, inevitabilmente, perdiamo il controllo. Le persone vedono che dall'altra parte c'è una singola persona che dedica il suo tempo a loro, solo a loro, in quell'istante. Tempo che spesso non porta a risultati concreti ma che crea opportunità che, si sente, sono più solide, più possibili, più realistiche.

Le riflessioni. Nell'era della quantità facile e gratuita si deve tornare alla qualità difficile e costosa in termini di tempo per ottenere risultati? Dico di sì. Questo è quello che porta, durante una riunione, una telefonata, uno scambio di opinioni su Skype e altri contesti, a sentire buone sensazioni, a cercare di capire davvero chi c'è dall'altra parte, guardandolo in faccia, sentendo il suo tono di voce, vedendo che parole usa per rispondere. Mi sa che la partita, quella vera, si gioca su cose come empatia, coinvolgimento, fiducia, rispetto e reputazione. Tutte cose che si costruiscono in modo lento in un mondo sempre più veloce. Paradossale? Mica tanto. Il tempo costa e va gestito al meglio.

(Photo credits: http://www.apairofpears.com/2014/01/tgif.html)