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giovedì 9 maggio 2019

Gli articoli sponsorizzati, due riflessioni


Gli articoli a pagamento ci sono sempre stati. Il "giornalismo di una volta, quello coi valori e i cronisti d'assalto" non è mai esistito. O almeno, non c'è mai stato solo quello. Mi spiego.

Quando iniziai il mio lavoro in ufficio stampa, gli articoli sponsorizzati si chiamavano pubbliredazionali. Nome orribile. Io poi li chiamavo "publiredazionali" poi la Crusca mi convinse che sbagliavo e aggiunsi una B. Non mi piacevano, per la mia idea nobile di "redazione". Ma il giornalismo, come imparai, è cosa complessa e gli ideali, che ci sono ancora (o almeno ci voglio credere), sono solo una parte del tutto. C'è da guadagnare e avere aziende che pagano per essere sul giornale in modo diverso dalla pubblicità tout court, in un modo più... redazionale, è sempre stato interessante per un editore.

Ne scrivo dal 2009. Ora si chiamano sponsored content. Oppure native content, se il "sponsored" non ti piace tanto. O, se poi vuoi essere davvero cool, native ads. La sostanza non cambia di una virgola, l'inglesismo non ti salva: è un contenuto che diventa qualcosa di simile al prodotto della redazione ma viene pubblicato perchè qualcuno paga e non è direttamente l'editore. Diciamolo ancora: ci sono sempre stati.

La differenza la fa sempre, e sottolineo sempre, il rispetto verso il lettore. Se io leggo una news su un'azienda, voglio capire subito se è stato pubblicato perché un giornalista ha ritenuto fosse una notizia (poi su questo si possono scrivere altri 237 post ma avete capito) oppure perché un'azienda ha pagato. Preferisco la prima ma non demonizzo la seconda. Spesso questa trasparenza non c'è e qui sta la cosa brutta. Perché se il media non mette in chiaro le cose, mi prende in giro. Senza se e senza ma.

Il Post ci ha scritto un post oggi. Loro due parole, io più umilmente ci faccio due riflessioni:

  1. Caro Post, apprezzo che tu mi rispetti come lettore e mi spieghi la tua linea editoriale e redazionale. Mi scrivi "ARTICOLO SPONSORIZZATO", come qui, e non posso che apprezzare.
  2. Caro Post, tu scrivi che è "una cosa che non avviene per gran parte degli articoli di simile natura che trovate sui quotidiani o su altri siti". Oltre a prendere posizione, potresti agire con chi dovrebbe tutelare la deontologia professionale?
I native ads vanno benissimo pare. Ma c'è da fare chiarezza.

martedì 30 luglio 2013

Publicis-Omnicom: sposarsi non sempre risolve i problemi


Per chi, come me, è cresciuto professionalmente in un'agenzia di comunicazione non poteva restare indifferente alla notizia della fusione tra Publicis e Omnicom. Si tratta di due colossi del mondo della pubblicità, il numero due e tre al mondo, uno francese e l'altro americano, uno segue Pepsi e l'altro Coca Cola, tanto per far capire come la news sia sorprendente da ogni punto di vista, e non solo per me. Sarà il più grande gruppo del mondo con 130mila dipendenti, superando WPP. Andavano male, forse? Publicis aveva avuto una flessione nel primo trimestre 2013 (dopo un ottimo 2012) ma niente di così travolgente per chi è abituato a leggere i fatturati di tante altre aziende. Per quanto riguarda Omnicom, le cose parevano andare anche meglio. E allora la domanda sorge spontanea: perché unirsi?

La questione centrale pare essere quella di diventare i numeri uno della pubblicità durante e dopo la rivoluzione digitale. Dal punto di vista aziendale, si creeranno economie di scala, sinergie e reti creative più ampie e potenti, dicono loro. Ma la questione centrale, come sanno tutti quelli che hanno lavorato nel mondo della comunicazione e non solo, sono i clienti: come la prenderanno? Io, da sempre, sono molto scettico sul futuro delle fusioni tra pari, per questioni di cultura aziendale soprattutto (crash of culture, per dirla alla anglosassone). Si creeranno inevitabilmente doppioni tra manager, tra strutture e uffici, con conseguenze non prevedibili per la produttività. E ai clienti, si sa, queste cose non piacciono affatto.

Il settore della pubblicità e quella dell'editoria stanno attraversando momenti simili (infatti le megafusioni avvengono anche nei libri). Il problema principale appare, a uno sguardo obiettivo, l'ingresso di bestioni nuovi, veloci e molto affamati come Google e Amazon. Le aziende tradizionali, nonostante i conti non siano così drammatici, hanno reagito unendo le forze, più per paura che per una strategia precisa: a mio parere, raddoppiare le divisioni e i carri armati non è la soluzione se gli altri hanno il dominio dell'aria. La vera partita sta nel controllo dei dati sui clienti/utenti, come sottolinea giustamente Sir Martin Sorell, numero uno di WPP che ora diventa l'agenzia numero due al mondo. Personalmente, se dovessi scommettere un Euro, punterei su Sorell, che sta comprando piccole e medie aziende focalizzate sul digitale, e non sul nuovo colosso franco-americano. La mia opinione vale poco, magari ne riparliamo tra due anni.

martedì 20 novembre 2012

Il lato oscuro del native advertising

Basta la bottiglia.
Il Giornalaio ha pubblicato ieri un ottimo post che parla dell'evoluzione del rapporto tra comunicazione aziendale e pubblicità alla luce della crisi epocale dell'advertising. Citando il caso del nuovo portale di Coca Cola, che si presenta di fatto come una testata, un hub informativo, più che come un sito aziendale, si approfondiscono le caratteristiche di una delle possibili strade che la comunicazione può prendere in futuro: l'impresa si trasforma da marchio a media. L'argomento è molto interessante, non lo si può esaurire in un solo post, però inizio a rifletterci su.

Di fatto, la comunicazione aziendale e la pubblicità sono sempre state due parti distinte, anche se spesso, nella testa di un'imprenditore, era una differenza non così chiara nel grande calderone del marketing. Da una vita mi batto su quel confine di distinzione: non sono un pubblicitario. Per far capire bene cosa facevo, prendevo l'esempio di un giornale, dove si potevano distinguere bene gli articoli derivati da comunicati stampa (la parte redazionale) e le pagine pubblicitarie. Su quanto le seconde abbiano sempre influito sui primi potremmo discuterne un mese ("ho visto cose..." potrei dire) ma restiamo sulla percezione del lettore, la distinzione c'era. Da una parte c'era un giornalista, dall'altra un'azienda. 

Per carità, c'è sempre stata tutta una fascia grigia, non sono né un romantico né un ingenuo. Le vedo anch'io le pagine pubblicitarie "mimetizzate" da articoli (l'edizione italiana di Wired ne ha molte e fatte molto bene), gli articoli che sembrano advertising (le cosiddette marchette) e il grande e variegato mondo dei pubbliredazionali. Però il modello almeno era chiaro. Ora le grandi aziende sembrano voler passare il Rubicone in forze e si propongono come nuovi "raccontatori di storie". Se a una valutazione preliminare può apparire una gran bella notizia, soprattutto per me che lo storytelling lo faccio per lavoro, i lati più oscuri rimangono quelli più interessanti.

Coca Cola ha come suo primo obiettivo quello di vendere, non di fare informazione. Inutile girarci intorno. Il team di Coca Cola Journey può avere una sua redazione ma rimane un'azienda privata con obiettivi privati. Bene ribadirlo, interessi del tutto legittimi. Discorso speculare vale per le testate: le storie sponsorizzate e i contenuti brandizzati, ossia il cosidetto "native advertising", vengono pubblicati perché qualcuno paga, non per una scelta legata alla qualità intrinseca di quello che viene raccontato. Se la zona grigia aumenta, diventa più difficile capire chi dice cosa e perché. Al New York Times hanno un'opinione su questo:
"It is critically important to us that advertising can be clearly distinguished from editorial and news content by our readers. For that reason, we tend not to accept native advertising”.
Sono pienamente d'accordo. La questione importante non è che il logo diventi molto piccolo o passi in secondo piano: le parole, le immagini e lo stile stesso possono essere simili a "marchi registrati" di un'azienda. La bottiglietta là sopra è un chiaro esempio (vedi qui). La questione vera è chi comunica, il soggetto. Su questo ci deve essere chiarezza. Ho sempre sostenuto che il giornalista avrà un ruolo in futuro ma che ancora non si sa quale sia, una casella vuota. Quello che so è che non potrà essere colmato da un'azienda. Anzi, lo spero.

martedì 24 luglio 2012

La storia di Barilla, degli americani e dell'importanza delle relazioni



L’importanza delle relazioni. Se fate una ricerca su Google, trovate un sacco di roba che mette insieme filosofia, sociologia, tecnologia e tanto, troppo altro. Storia però se ne trova poca ed è di questo che voglio parlare. Tornando in auto dal mare, un lunedì mattina molto molto presto, mi è capitato di ascoltare “voci d’impresa”, un programma di Radio24 che parla delle aziende italiane, della loro storia e dei loro protagonisti. Uno di quelli che vorrei ascoltare sempre, altro che chiacchiere fumose e inutili. C’era la replica di una puntata che parlava di Barilla. Vabbé, Barilla, speravo in un’azienda nuova, interessante, sconosciuta. Ma guido, non ho fretta e ascolto lo stesso.

Bene, ma l’importanza delle relazioni? Un attimo di pazienza. Ascoltando, scopro una cosa che non sapevo di uno dei più conosciuti marchi italiani: Barilla, quella di “dove c’è Barilla c’è casa”, è stata venduta agli americani, alla multinazionale Grace. Nel 1970. Per 9 anni, durante i quali ha comprato la Voiello e ha creato il Mulino Bianco, è stata sotto controllo yankee. Poi Pietro Barilla è riuscito a ricomprarsela. Bene, dove sta la notizia? C'è riuscito grazie all’importanza delle relazioni. Perché lui non aveva abbastanza soldi per riprendersela, sembrava un’operazione fallimentare e tutti gli avevano sconsigliato di farla, dai consulenti alle banche. I soldi, miliardi di lire dell’epoca, glieli prestò la moglie di un pianista svizzero conosciuta a teatro. Una signora ricca che credette nella sua idea, ebbe fiducia in lui, nelle sue doti, nei suoi progetti. E Barilla ritornò italiana.

Ora, non so quanto romanzata possa essere questa storia, non è questo il punto. Se due persone non si fossero conosciute in un teatro e non avessero avuto fiducia l’uno nell’altra, la storia italiana sarebbe stata diversa. Questo è valso nel 1979 per Barilla come potrebbe valere per progetti, idee e imprese di oggi. La situazione economica non era florida neanche allora. Ho parlato spesso dell’importanza che attribuisco alla partecipazione agli eventi e ai Camp, alla conoscenza di persone diverse con professionalità diverse, al fatto di creare relazioni che oggi sembrano inutili e domani ti cambiano la vita. Quando lavoravo da solo, i più bei progetti sono arrivati grazie alle persone, non a brillanti strategie. “Esiste un solo vero lusso, ed è quello dei rapporti umani” (Antoine de Saint-Exupéry).

(L'immagine è un omaggio al genio di Erberto Carboni)

venerdì 17 febbraio 2012

La comunicazione in un'immagine

Quante volte le aziende riflettono per settimane o mesi su come comunicare, su come "riempire" una pagina pubblicitaria, un sito, un contenuto con un sacco di informazioni per i loro clienti con magri esiti? Invece, spesso, basta solo un'idea, una grande idea. Facile a dirsi, difficile a farsi, direte voi. Certe volte basta un esempio per spiegare la potenza comunicativa della semplicità, per raccontare una storia in una sola foto. Ecco invece alcuni casi, pubblicitari e non, per farvi capire cosa intendo. Due di Volkswagen, uno d'annata e uno più recente, e due di Lego.

Volkswagen Maggiolino (quasi 23 milioni di auto vendute) - Pubblicità


Volskwagen Crafter (veicolo commerciale) - Pubblicità



Lego (azienda leader nel mondo nel settore giocattoli) - Pubblicità



Solo pubblicità? Guardate questo video, basico e diretto, e poi ditemi quanto è potente la semplicità delle immagini. Se vi chiedono qualche esempio, qui li avete. Pronti all'uso.
New York - video


giovedì 1 dicembre 2011

Nella guerra dei biscotti perdono tutti


Non voglio entrare nel merito della polemica che si è accesa tra Barilla e Plasmon, si trova tutto qui. Quello che mi viene da dire è che queste "guerre tra ricchi" servono come le "guerre tra poveri", ossia a nulla. Anzi, perdono tutti. Non mi sono mai piaciute le pubblicità comparative perché ognuno può segnalare i dati e le informazioni che vuole, quelle positive, dando un messaggio fuorviante e non obiettivo. Qualcuno potrebbe obiettare che la comunicazione d'impresa fa esattamente questo: da le notizie positive e non quelle negative. Ma c'è una bella differenza tra il dire che io sono bravo a fare qualcosa (non dicendo che sono scarso a farne un'altra) e che io sono più bravo di un altro solo in certe specifiche cose. Ho sempre pensato che la fiducia bisogna guadagnarsela direttamente con chi ci sta davanti (o chi ci compra, in questo caso), non mettendo in cattiva luce il compagno di banco.

Da compratore di prodotti per la famiglia, faccio alcune semplici considerazioni. Scopro oggi che i Piccolini non sono adatti ai bambini sotto ai tre anni: dove era scritto? Appena arrivo a casa controllo, non lo sapevo. Quello che so è che sulla pagina del sito di Barilla mi spiegano, oggi, che sono "la linea di prodotti pensata per i bambini" e che "piacciono anche ai grandi". Se leggo, come sul comunicato stampa di Barilla, che è "pasta per tutta la famiglia", io includo mio figlio per primo, che li mangia da quando aveva due anni essendo "il piccolino" di casa. E, lo dico chiaro, continuerà a farlo (e anche la sua sorellina, appena avrà qualche dentino), a patto che Barilla non inizi a dirmi che sono io che non ho capito che non erano prodotti adatti a un 2enne. Non metto screenshot del sito, mi fido di Barilla e so che non cambierà le carte in tavola. Io mi fido delle aziende, spero sempre che loro facciano altrettanto visto che sono io a dare loro soldi, e non viceversa.

Altra considerazione: l'attacco diretto di Plasmon (che fa parte di una compagna di comunicazione molto strutturata, con newsletter e giochi a premi) è molto soggettivo e parziale. Io vado al supermercato e non decido tra Plasmon e Macine, al limite li compro tutti e due. Qui ha ragione Barilla, sono prodotti con target diversi. Le domande nascono spontanee: sono solo le Macine ad avere quei valori o anche altri tipi di prodotti Barilla? E quelli di altri produttori? In più, cosa può provocare l'assunzione di quelle sostanze? In definitiva, ho più domande che risposte. Una pubblicità che genera incertezza e dubbi, a mio parere, non è mai una buona idea. Magari Plasmon ha ragione ma non è questo che conta. Le mamme e i papà (anche noi facciamo la spesa o sbaglio, cara Barilla?) vogliono essere sicuri di quello che comprano e di quello che danno ai loro figli. Due colossi del settore alimentare, oggi, ci hanno resi più insicuri. Non ne avevamo bisogno (e abbiamo la memoria lunga).

"Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire." Jean-Paul Sarte

Aggiornamento (13 dicembre 2011): la Barilla metterà delle apposite scritte sulle confezioni incriminate (quindi, nella sostanza, ammette l'errore) mentre la Plasmon è stata costretta, dal giudice, a sospendere la campagna pubblicitaria, definita "ingannevole e denigratoria". Due sconfitti, zero vincitori.

lunedì 6 giugno 2011

Credere ai miracoli è più comodo che confutarli*

Le creme antirughe funzionano davvero? Non lo so, perché non ne ho mai provata una (mia moglie può testimoniarlo). Tuttavia, penso che tutti noi, razionalmente, ammettiamo che nella migliore delle ipotesi possano leggermente migliorare la situazione ma non fare miracoli. La notizia di oggi è che una modella utilizzata per quelle pubblicità ha denunciato un colosso della cosmetica per aver utilizzato sue foto, ampiamente ritoccate, senza autorizzazione. Riassumendo, secondo l'accusa (ricordando che non c'è una sentenza in merito) hanno fatto delle fotografie "di prova", senza trucco, le hanno invecchiate per far vedere la differenza e le hanno utilizzate senza il suo consenso. Al di là di questo specifico caso, sembra oggettivamente evidente che c'è stato qualche (grosso) problema nella gestione della comunicazione da parte di questa azienda, fatto ancora più sorprendente visto che è un colosso da oltre 7 miliardi di dollari di fatturato che spende molto a livello di promozione dei propri marchi. Ma la questione vera è questa: promettere risultati miracolosi, un'ipotesi oggettivamente poco probabile, funziona a livello di comunicazione?

Ho finito di leggere da poco Neuromarketing di Martin Lindstrom, dove si spiega come l'acquisto di alcune tipologie di prodotti, come questi, è spesso frutto di un comportamento rituale e non di una decisione cosciente. L'autore dice che molte donne ammettono che le "creme miracolose" sono inutili ma, dopo un paio di mesi dall'averle provate, letteralmente, sulla propria pelle, vanno in farmacia e le comprano. Perché si tratta di un rituale: ci si alza la mattina, ci si lava e ci si mette la crema. Ci tranquillizziamo perché ci illudiamo di avere il controllo su quello che siamo e quello che diventiamo (soprattutto in un periodo di crisi economica, a quanto pare). In più, è una forma di tradizione che queste donne e le loro mamme hanno sempre seguito. Le provano, ne discutono e ne commentano i risultati. Come per altri prodotti, anche alcuni "maschili" (trovatemi un uomo sul pianeta a cui sono spuntati gli addominali dopo aver provato qualche crema miracolosa), il fatto che funzionino davvero o meno diventa secondario. Un'ipotesi sicuramente affascinante, che spiegherebbe perché molte aziende fanno da decenni queste pubblicità, di fatto, ingannevoli.

Per quanto mi riguarda, una comunicazione che mi prospetta di ottenere risultati se non impossibili altamente improbabili a me non interessa e, anzi, un po' mi infastidisce. Sarà che vengo dal "duro e puro" mondo del business to business, dove se comunicassi che un servoattuatore o un escavatore fanno miracoli mi riderebbero dietro sia i clienti che i competitor, nella più ottimistica delle ipotesi. C'è modo e modo di "promuovere" un rituale e lo si può fare con correttezza, trasparenza e sincerità. Quel modo di comunicare, poco veritiero e, forse, poco rispettoso per i clienti, ha avuto sicuramente buoni successi in passato. Ma non prevedo che avrà un gran futuro.
* Citazione tratta da "Il grillo parlante" di Roberto Gervaso

mercoledì 27 ottobre 2010

Non perdersi in un bicchier d'acqua

Qualche giorno fa è apparsa su molti quotidiani nazionali una pagina intera sulle virtù dell'acqua in bottiglia. Se non l'avete vista, la potete vedere qui. Mineracqua ha deciso di promuovere questa campagna per fare una verifica comparativa diretta tra le proprietà dell'acqua in bottiglia e quella di rubinetto. Alcuni blog, come Ecoalfabeta (ecco qui un post sul tema), hanno notato non solo l'effetto "rappresaglia" dopo una campagna della Coop in favore dell'acqua di rubinetto (eccola qui) ma anche le numerose inesattezze dei contenuti della pagina stessa. Dove sta la ragione? Lascio a voi il giudizio, ma dandovi la possibilità di fare una comparazione tra i contenuti della pagina pubblicitaria e una fonte informativa altrettanto autorevole, realizzata da una multiutility italiana:
  • L'acqua imbottigliata "sgorga pura da sorgenti protette e incontaminate". Basta leggersi le etichette per vedere che, molto spesso, non è vero. Ma non è quello il problema. Anche l'acqua di rubinetto non proviene da montagne innevate e pure, ma da "acqua di falda, a una profondità cha varia tra 60 e 300 metri". Basta che sia controllata e noi ce la beviamo volentieri. La multiutility dice che effettua ogni anno oltre 10.000 esami di laboratorio e analizza oltre 200.000 parametri. 
  • L'acqua minerale deve rispettare "precisi parametri di legge". Per legge, appunto, l'acqua di rubinetto ha limiti molto più rigidi delle acque minerali per quanto riguarda i valori di alcune sostanze (nota 1 del post di Ecoalfabeta). Un esempio? Ecco una bella e chiara tabella.
  • L'acqua minerale "raggiunge casa vostra con la purezza e il gusto originari".  Il trasporto viene fatto spesso per numerosi chilometri, con TIR, con condizioni ambientali non prevedibili. Difficile dare queste garanzie assolute, soprattutto ricordando il discorso della purezza (già contestato nel punto precedente).
  • L'acqua minerale è "senza paragoni", quella del rubinetto "è solo bevibile". Di oggettivo c'è poco in queste considerazioni. 
Lascio a voi ogni considerazione. Io invece di pongo altre domande:
  • Perché la pagina pubblicitaria non cita il fatto che un litro di acqua di rubinetto costa circa 1.000 volte in meno di un litro di acqua in bottiglia?
  • Perché la pagina pubblicitaria non cita il fatto che per trasportare l'acqua in bottiglia ogni anno in Italia girano 300.000 TIR (e che ognuno con un litro di gasolio fa 5 chilometri, lasciandovi fare il conto delle emissioni in atmosfera)?
  • Perché la pagina pubblicitaria non dice che per produrre una bottiglia da 1 litro e mezzo occorrono quasi 90 grammi di petrolio, oltre 2 litri d'acqua e si emettono 160 grammi di CO2?
Ne avrei altre ma mi fermo qui. Perché la pagina pubblicitaria chiude con questa frase: "Da un'informazione trasparente nascono scelte libere". Condivido. Per questo leggiamo le pubblicità ma ci informiamo anche con molte altre fonti, in primis blog e siti Internet. Uno è questoCi sono tutte le informazioni sulle acque in bottiglia (e loro non le vendono, le collezionano). Una cosa è sicura: non ci perdiamo in un bicchier d'acqua.

venerdì 30 aprile 2010

Un codice a barre fa male ai polmoni?

Il Times solleva una questione che sarà passata per la testa a ogni appassionato di Formula 1. Perché la Ferrari ha un codice a barre enorme sulla livrea? E' pubblicità occulta, quasi subliminale, di un noto marchio di sigarette? Non esattamente. E' una geniale idea di marketing e di pubblicità. Per nulla subliminale.

Negli ultimi anni, molti Paesi hanno bandito la pubblicità di sigarette (e non entro nel merito della questione, diciamo che rimango piuttosto scettico sull'efficacia di questa normativa) e, per questo, anche le monoposto di Formula 1 si sono dovute adattare. In alcuni stati si poteva fare, in altri no. Per questo motivo, le aziende che avevano investito ingenti capitali in questo sport hanno dovuto inventarsi qualcosa per "riempire" gli stessi spazi, già profumatamente pagati. Chi non si ricorda la scritta "Go!!!!!!!" sulla Yamaha di Valentino Rossi (il suono e le battute, punti esclamativi compresi, ricordano una nota marca di sigarette francesi che propongono "Liberté Toujours", Libertà sempre)? O Fisichella alla Jordan, con la scritta "Be on edge" sulla fiancata (mettete nel primo spazio "ns", poi è facile). Ma il caso più eclatante è stato sicuramente il codice a barre. Bollato come una scelta quasi inspiegabile, un'anticamera del ritiro dalla Formula 1, un "se peso el tacòn del buso" (è peggio la toppa del buco) come si dice a Venezia. Invece, è stata una soluzione geniale e lungimirante.

Quel codice a barre non lancia messaggi subliminali, scorretti, occulti ma esprime un pezzo di storia della Formula 1. Quei tre colori ne hanno fatto la fortuna. E' dal 1968 che i brand di questa società entrano in pista. Ayrton Senna ce lo ricordiamo tutti con casco giallo e verde su una monoposto bianca e rossa mentre lotta con Prost o contro il tempo. Il codice a barre non esprime nulla visivamente ma qualunque appassionato di questo sport lo collega immediatamente a quel brand, senza indugiAi suoi successi, ai suoi eroi, alla sua storia gloriosa. Senza indurre gli stessi appassionati a decidere di accendersi una sigaretta. "The Formula One Grand Prix in the UK does not involve any race cars, team apparel, equipment or track signage carrying tobacco product branding" dice la società. E hanno pienamente ragione. Hanno trasformato una situazione potenzialmente devastante in un'idea straordinaria. Non mi sono mai stati simpatici, vendono prodotti che non mi piacciono (e fanno male) ma hanno avuto un'intuizione geniale. E bisogna dargliene merito.

Guardo la Formula 1 dal 1980 e non ho mai fumato una singola sigaretta. Sinceramente, non credo che un codice a barre mi farà cambiare idea.

P.S. Questo post è nato parlando della questione con mia moglie, Francesca. Cosa che fa capire quanto sia fortunato ad avere una compagna a cui piace la Formula 1 e il marketing. E ha pure smesso di fumare.

martedì 9 marzo 2010

Strange days*

Una storia vera. A un responsabile marketing di un'azienda arriva una mail da parte di un'agenzia di comunicazione: stanno realizzando la nuova brochure istituzionale di un cliente dell'azienda e vorrebbe includerli in uno spazio "interamente dedicato ai più importanti collaboratori e partner". Niente di innovativo ma non male come idea. Mi sono battuto per anni con svariati clienti (e alterni esiti) per includere all'interno di brochure, corporate magazine e siti aziendali temi e notizie dedicate ai loro partner, per dimostrare concretamente i vantaggi dei loro prodotti o della rete di vendita con testimonianze dirette. "Ma facciamo loro pubblicità gratuita!" era la risposta più frequente. E non capivo cosa ci fosse di male: loro vendono i loro prodotti, tu lo fai sapere anche con un nuovo mezzo senza alcun costo aggiuntivo. E magari gli dai un pizzico di entusiasmo e di soddisfazione in più, no? Ma qui si farebbe filosofia, restiamo alla nuda realtà.

Procedo nella lettura della mail. La brochure sarà un nuovo "biglietto da visita" per tutte le attività del cliente (bene) relative a marketing, fiere e promozioni (bene, non si parla di Web ma ci si può arrivare). Una parte del depliant (ma non era una brochure? Dai, un piccolo refuso) è dedicata ai partner, ai quali è offerta la possibilità di "acquistare spazi pubblicitari". Spazi pubblicitari?! Mi sono perso qualcosa?! Rileggo. No, tutto corretto, è scritto proprio così. Ma qui mi crolla tutto. Una brochure istituzionale con la pubblicità? Già le leggono in pochi quando sono fatte bene ... Ma vediamo i costi: una pagina A4 a più di 3000 Euro?! Cioè, riassumiamo. Io dovrei pagare indirettamente a un mio partner più di 3.000 Euro (quando una pagina pubblicitaria nella principale rivista di settore, che ha una diffusione 10 volte superiore, costa almeno la metà) per essere presente sulla sua brochure/depliant aziendale che ha una diffusione di 2.800 copie? In modo tale che, pensando male, lui non spende nulla o quasi? Mi sembra un ottimo motivo per chiuderla la partnership, altro che rafforzarla.

Se queste sono le brillanti idee delle agenzie in tempi di crisi, non siamo messi bene. Ma nel settore comunicazione non si stava discutendo di come realizzare soluzioni collaborative e a bassi costi utilizzando le potenzialità del Web? Una brochure aziendale cartacea ("colori: 4+4" sottolineato con enfasi) realizzata con contenuti pubblicitari pagati dai partner mi sembra una colossale sciocchezza, oltre che una rapina. Bene, torniamo al caso reale. Quella mail viene rimandata al mittente dicendo esattamente quello che dico io, ossia che è un furto. Si dice che sia stato un errore ("rispondi" invece che "inoltra"), per me è stata la cosa migliore che a quella agenzia potesse capitare. Magari capiscono che il mondo sta andando da tutta un'altra parte. Forse sono ancora in tempo. Forse.

*Il titolo è un omaggio a una bravissima regista che ha meritatamente stravinto la notte degli Oscar con un film difficile, coraggioso e a basso costo. Complimenti Kathryn!

venerdì 23 ottobre 2009

Web Advertising? Sempre con buon senso

Numerosi articoli sono apparsi ultimamente riguardo al fatto che, nonostante la recessione, c'è un significativo rilancio degli investimenti fatti sulla pubblicità sul Web. Mentre la crisi che sta avversando la carta stampata e la TV a livello mondiale sembra avere una fine ancora molto lontana. Al di là dei facili entusiasmi, mi sembra che le motivazioni, per una volta, siano abbastanza semplici. Le persone (o consumatori, per dirla alla Alan Friedman) utilizzano sempre più tempo libero sul Web, perchè riescono a trovare quello che cercano, da una notizia a un nuovo paio di occhiali, in modo più veloce ed efficace rispetto a qualsiasi altro media.Per cui, il target cresce sempre più, crisi o non crisi. In più, le tariffe della pubblicità su Internet sono molto più basse rispetto a quelle di un quotidiano o di una TV, fattore sicuramente molto incisivo per le aziende in questi tempi di vacche magre.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: qual'è l'efficacia della pubblicità sul Web? Sicuramente, ha il vantaggio di dare ai responsabili delle aziende un "giudizio" molto più veloce sull'efficacia di una campagna pubblicitaria in termini di vendite. Ma il punto resta sempre quello: valutare l'efficacia in base alle vendite. Se io realizzo un prodotto così così, con una campagna pubblicitaria geniale riuscirò comunque ad ottenere buoni risultati? Non credo proprio. Il Web non è la panacea di tutti i mali, è uno strumento con potenzialità ancora enormi da utilizzare con intelligenza e buon senso. Quando ho finito di leggere le analisi sull'Internet Advertising, vado ad aprire un paio di siti di aziende italiane che mi interessano. Trovo le "news" aggiornate al 2006. Duemilaesei? Clicco sulla sezione multimedia e trovo 5 foto a bassa definizione. Come è possibile? Anche nei cellulari ci sono fotocamere con 4 megapixel.

Se fossi un responsabile di un'azienda italiana, intanto inizierei a spendere un po' di tempo (e "schei", come direbbe mia mamma) per aggiornare il mio portale aziendale, una vera e propria porta sul mondo che ha bisogno di un budget limitato. Poi per pensare alla pubblicità online, c'è sempre tempo. Ah, a proposito: il mio ultimo post è dell'9 Ottobre, 14 giorni fa. Un'eternità per un blog. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Anche digitale.