giovedì 31 gennaio 2013

Guardando il Sole

Ho sempre pensato che in periodi di forte evoluzione, nel settore della comunicazione così come in altri, bisogna seguire una duplice via: investire molte risorse su uno o due punti fermi, sicuri e magari un po' conservativi, e puntarne meno su qualche progetto innovativo, più rischioso, che può andare tanto bene o tanto male. Più o meno quello che si dovrebbe fare in Borsa o nel gioco in generale. Tornando alla comunicazione, ho sempre pensato che il sito Internet possa essere un perfetto punto fermo. Un'opinione non così di moda ultimamente però ha indubbi vantaggi: il sito aziendale è dell'impresa che lo crea, che lo gestisce come gli pare, nel bene e nel male, senza dover dipendere da policy esterne (i Social Network, ideali luoghi di sperimentazione, sono di proprietà di altri) tranne che per quanto previsto dalla legge.

Una bella conferma della mia idea è il nuovo sito del Sole 24 Ore: curato in ogni aspetto, dalle font all'impaginazione, così simile a un quotidiano di carta (comprese le singole rubriche, tra cui Impresa e Territori, la mia preferita) e, allo stesso tempo, arricchito dalle tante possibilità offerte dalla comunicazione online. Si vede che dietro ci sono professionisti che di rete, e di comunicazione, ne capiscono parecchio (uno su tutti, Stefano Quintarelli), un messaggio che arriva subito, forte e chiaro, al lettore/utente. Un hub informativo unico, facile da trovare e da consultare. In più, si intuisce che non ci si ferma qui e che dietro c'è un progetto e una strategia di medio/lungo periodo. Ci sono progetti di nuovi prodotti digitali (rischio di insuccesso medio/basso), nuove forme di abbonamento che integrano carta e bit (rischio di insuccesso medio) e idee nuove per la fruizione dei contenuti (rischio medio/alto).

Io non ho niente a che fare col Sole 24 Ore, sia chiaro. Qualche mese fa facevo il tifo per La Stampa, ora per loro, da semplice utente. Il sito mi piace moltissimo, l'applicazione per Windows Phone è favolosa e veloce. Perché provano a integrare carta e digitale con un'idea solida. Non si fermano a una piattaforma ("facciamo il quotidiano per iPad?") ma provano a fondere le informazioni su diversi luoghi e dispositivi per andare verso l'utente, il lettore. Un ottimo esempio di progetto aziendale che va oltre l'editoria.

Il sito conta, e conta tanto, cari responsabili aziendali. Prima di buttarsi sul nuovo social network del momento perché l'avete letto sul Sole, guardate il Sole stesso. Non fa male agli occhi, ve l'assicuro.  

giovedì 24 gennaio 2013

Il costo del fact checking


La principale obiezione di un editore o di una testata quando gli si propone di migliorare il fact checking è: costa troppo. In termini di tempo (la verifica delle fonti e delle notizie non è cosa veloce da fare), di risorse (ci vuole un team dedicato oppure una necessità di formazione supplementare per i redattori) e di procedure (necessita una policy con step definiti che assicuri la veridicità, non la verità, della notizia). Siamo davvero sicuri che sia così? Oggi c'è un caso eclatante: El País, quotidiano spagnolo molto apprezzato e molto avanti rispetto a tanti altri nell'affrontare la rivoluzione digitale dei media (vedi qui), ha pubblicato una foto falsa di Hugo Chávez, presidente del Venezuela. Costringendo il giornale a ritirare precipitosamente le copie con la foto falsa, provando a sostituirla al volo ed avendo un danno di immagine notevole, vista anche l'importanza della questione. Costi? Elevati.

Quelli del País hanno detto di "voler condurre alcune verifiche interne per identificare i responsabili dell’errore". Ribadisco che è una foto che è stata sbattuta in prima pagina, non a pagina 16 in un trafiletto. La cosa positiva è che è il quotidiano stesso ad ammettere pubblicamente l'errore (ricordiamo che è quello a maggior diffusione in Spagna), cosa rilevata anche da altri quotidiani. Probabilmente dentro la redazione del giornale spagnolo pensano oggi che investire un po' di risorse, anche in un periodo drammatico come questo per l'editoria, nel fact checking forse non sia poi così costoso. O almeno lo spero.

La credibilità si paga e il futuro, nella marea di informazioni che arriva al lettore ogni minuto, si gioca lì.

lunedì 21 gennaio 2013

Un'iniziativa formativa da 10+

Avete presente quando arrivate, per la prima volta, in un posto dove c'è un gruppo unito e coeso al lavoro e questi vi fanno sentire, dal primo minuto, uno di loro? Ecco, non si tratta di una festa né di una squadra sportiva, si tratta di un evento ACTA, l'Associazione Consulenti Terziario Avanzato. La storia è tutta qui, il video qui (io sono quello con le nuvole dei primi fotogrammi). Si tratta di un gruppo di professionisti di tipi diversissimi, dall'avvocato alla traduttrice, dal dirigente d'azienda al programmatore di software, accomunati da due cose: aver la partita IVA e aver deciso di non tutelarsi da soli ma insieme. Un gruppo vero di persone validissime e ricolme di entusiasmo, perseveranza e spontaneità. Perché questo preambolo? Perché se lavorate da soli e volete conoscere gente come voi, vi consiglio di andarli a trovare. E vi propongo un'occasione.

ACTA organizza i corsi 10+, una serie di iniziative di formazione per freelance fatte da freelance. Io sarò uno dei loro docenti e qui potrebbe scattare l'allarme conflitto di interesse: ci scrivo perché ci vado a lavorare. Lo disinnesco subito. Ci vado perché li stimo, perché quando me l'hanno chiesto ho accettato subito, senza neanche chiedere informazioni in più. Perché hanno la mia totale fiducia. Sono tutti professionisti che hanno scelto, oltre a lavorare e a stare dietro alle loro vite, di lottare per i diritti di consulenti e professionisti, che non hanno reti di sicurezza su malattia, ferie, rispetto dei pagamenti, dei contratti, etc. Hanno fatto un manifesto, hanno fatto degli eventi, sono sempre in prima linea nel tutelare i diritti degli "invisibili" del mondo del lavoro. Se volete conoscerli, potete scegliere uno di questi corsi, un momento di coworking o uno dei loro aperitivi. Se non sarete soddisfatti, vi pago personalmente da bere (sì, sono sicuro di non perdere questa scommessa).

Volete venire al mio corso? Venerdì 15 Febbraio a Milano, iscrivetevi qui. Ci facciamo una bella chiacchierata, di sostanza più che di forma. Io non sono più libero professionista ma da ex posso darvi tanti consigli.

martedì 15 gennaio 2013

Duecentoquindici conferme

La valanga di simboli elettorali, 215 per essere precisi, presentata al Viminale è impressionante da più punti di vista. Si possono fare analisi molteplici, principalmente politiche, e sono tentato visto quanto ho studiato nei miei anni all'università. Ma ora faccio altro, per i commenti sull'attualità politica Twitter basta e avanza. Nel mio blog, appunto, scrivo di comunicazione per cui andiamo subito al punto: volete avere un'idea chiara sull'attenzione, la cura e la professionalità con cui si gestisce la comunicazione in Italia? Date un'occhiata ai simboli dei partiti dal punto di vista grafico e dei contenuti. Un bagno di sangue. 

Ne trovate molti qui: consiglio vivamente quello della Lega (slide 4, un'accozzaglia di messaggi diversi che esprime perfettamente la confusione strategica e tattica presente nel partito nordista), quello del MIR (slide 9, "Moderati in Rivoluzione" è un perfetto ossimoro e l'apoteosi del non sense, il problema è che si prendono dannatamente sul serio) e quello dell'Udeur (slide 17, stilisticamente sembra disegnato da un bambino se non fosse che i bambini sono molto più creativi). Ma di orrori ce ne sono tantissimi: guardate la 19, la 21 (con la svastica reloaded), "Forza Roma" e "Forza Lazio", il 36 e il geniale "Forza evasori" alla 70. Immagini elementari, font improvvisate, cloni e chi più ne ha più ne metta. Si salvano in pochi. E parliamo delle elezioni politiche, il più importante evento della politica italiana e questo è quello che i candidati sono riusciti a fare. Esito molto deludente.

Non per tirar fuori sempre le solite analogie con gli Stati Uniti, ma guardare all'attenzione con cui scelgono, ad esempio, il logola font di una campagna dovrebbe essere molto istruttivo (e vedere anche le relative critiche, da una parte e dall'altra). Guardate il logo di Obama là sopra: c'è la O di Obama, un sole che nasce, stile minimal e accuratezza. Qui sta il punto: la cultura della comunicazione in America c'è, in Italia molto, molto meno. E questo si riflette per casi come questo. Non si vota un candidato perché ha un bel simbolo, ma un bel simbolo aiuta a capire perché si vota quel candidato. Perché dietro c'è professionalità, attenzione, studio e competenze, tutti valori che mi vengono trasmessi in modo intuitivo e diretto. Abbiamo grafici scarsi? Tutto il contrario, il problema che quelli bravi raramente vincono le commesse importanti. Siamo in Italia, bellezza, conta altro. Conta la tribù.

venerdì 11 gennaio 2013

La moda del fact checking

E così il fact checking, tema praticamente sconosciuto un anno fa, ora è diventato di moda: si fa per i politici, per le trasmissioni TV, per i libri gialli e per tante altre cose. Lo si fa su tutto, il che non è affatto un male in sé ma, come ogni moda che si rispetti, non ha un equilibrio, non ha una struttura, non ha una logica univoca. Io da tempo sono appassionato di fact checking (qui un esempio), perché ritengo che sia uno dei cardini sui quali si deve basare il giornalismo e l'informazione del futuro. In un periodo di enorme abbondanza di informazioni, un punto di riferimento riconosciuto che ci dia garanzie sulla veridicità delle notizie (attenzione a parlare di "verità") ci serve disperatamente. La mia perplessità nasce però dal fatto che il fact checking non è per tutti: serve formazione, esperienza, metodo, tutte cose che ho già scritto e presentato insieme a Pier Luca Santoro quasi un anno fa.

Per questo, mi fa piacere vedere che tanta gente si è appassionata a questo tema, che non è affatto nuovo (la verifica dei fatti e delle fonti è uno dei cardini del giornalismo fin dalla sua nascita) ma che ha una rilevanza nuova, moderna. Tuttavia, il fact checking, ripeto, è arte difficile. Il primo problema è il cherry picking: si sceglie di analizzare alcuni fatti, ignorandone altri, perché ci conviene in base alla tesi che vogliamo dimostrare o smentire. Poi ci manca un peso da dare a ogni singola verità e, caso ancora più interessante, a ogni singola bugia: ce ne sono di veniali e di gravi, come giudicarle? Infine, c'è un giudizio finale da dare, un metro di valutazione comprensibile da chi ci legge, come i "pants on fire" di PolitiFact o i Pinocchios del Washington Post

Insomma, come ho già detto più volte, il fact checking è un'attività troppo complessa per farla fare agli utenti, a prescindere dalla loro buona volontà. Questi possono invece essere fondamentali per aiutare i fact checker a fare un buon lavoro. Pur essendo molto contento che se ne parli, attendo impaziente che qualcosa si muova davvero nel giornalismo italiano in questo senso (come qui). Come siamo messi oggi? Che una bufala conclamata e pubblicizzata, come #cutforbieber, sia ancora viva e vegeta su prestigiose testate online. Senza rettifiche né aggiornamenti.

 

lunedì 7 gennaio 2013

Tre strade per il futuro dell'informazione

Che il futuro dell'informazione lo stiamo vivendo l'ho scritto qualche tempo fa. Certo è che dopo 2 anni non è emerso alcun modello vincente e sostenibile che faccia prevedere, oltre ogni ragionevole dubbio, quello che sarà il domani dell'editoria. Quello che abbiamo visto sono alcuni esperimenti che si sono rivelati insostenibili, come il quotidiano Daily di Murdoch morto precocemente per la (avventata) scelta di legare il proprio modello di business alla fortuna di un solo dispositivo, il tablet (anzi, l'iPad). In Italia, recentemente, abbiamo visto il caso di Pubblico, deceduto dopo soli 100 giorni per cause ancora da accertare (mi pare impossibile una totale mancanza di un business plan elementare). Ma non voglio fare un body count, solo sottolineare come sia difficile trovare un modello che funzioni davvero dopo il crollo dell'equilibrio editore-redazione-pubblicità che ha resistito per più di un secolo (qui un ottimo post di scenario, per approfondire la cosa).

A livello generale, stanno emergendo tre modelli alternativi che hanno come protagonista assoluto l'online. Come sanno quelli che mi leggono, ritengo che la morte della carta (e dei ricavi da lei generati) sia tutt'altro che accertata e sposo in pieno le convinzioni di Pier Luca Santoro in merito. Tuttavia, dovendo guardare al futuro, le ipotesi, volutamente molto semplificate, sono queste:
  • Modello Huffington Post: i contenuti sono gratuiti ma generati da pochi giornalisti (pagati in moneta) e da una miriade di collaboratori/blogger (pagati in...visibilità). Da dove vengono i ricavi? Dall'advertising, dal fatto di contare su una redazione snella e poco costosa rispetto alla quantità di contenuti generati. Ad oggi, questo modello può essere scelto da editori con alle spalle un business plan consistente che può permettersi di operare per anni senza generare ricavi (l'HuffPo USA ci ha messo 5 anni a farlo). Un altro problema è la perdita di controllo dei contenuti (generati dai collaboratori), che porta a possibili problemi di fact checking e, quindi, di valore dell'informazione (vedi il caso Forbes).
Sono tre possibili strade, dalla più convenzionale alla più innovativa. Magari la soluzione non sta ancora in questi modelli però una riflessione si può fare a livello di modello sostenibile di informazione. I primi due sembrano destinati a editori con spalle large, con budget consistenti e brand molto pesanti. Il terzo potrebbe invece adattarsi anche a realtà più piccole, puntando a fare gruppo e a concentrarsi su iniziative più innovative per attrarre lettori. Il mio tifo si concentra sicuramente sul terzo modello, quello più attento alle esigenze del lettore e non solo al proprio business. Ma stiamo a vedere, la partita è apertissima.