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mercoledì 12 marzo 2014

Il futuro del giornalismo? Integrità e correttezza


Ho scritto spesso di come esista un territorio molto ampio tra come è percepito il giornalismo dagli addetti ai lavori e da tutto il resto del mondo. I primi vedono erose tutte le loro certezze, non esistono, ad oggi, modelli di riferimento per capire come sarà il giornalismo non dico tra 20 anni ma anche tra 5. I secondi invece vedono il giornalismo come lo si vede da sempre nel cinema e nei giornali, un mondo fatto da gente romantica a cui piace scrivere che va alla ricerca di notizie tra corruzione e affari sporchi, il tutto pagato da lettori e investitori in pubblicità. Ecco, questa distanza la spiega benissimo un articolo scritto da Margaret Sullivan, il "controllore" degli articoli del New York Times (il Public Editor, dicono loro). L'articolo è stato ripreso molto bene dal Post, che lo spiega e lo integra con altre riflessioni interessanti sul modo specifico della redazione di fare giornalismo.

Mi soffermo su due concetti fondamentali, e non solo per il New York Times. Gli strumenti cambieranno e molto velocemente, i modelli per portare avanti un giornalismo che faccia profitti (ok le belle storie ma non solo di questo vive il giornalista) devono ancora essere trovati, ci sono tante incertezze. L'unico modo di andare avanti è attaccarsi ai veri requisiti che fanno del giornalista, o di quello che dovrebbe essere, un vero, e utile, tramite tra una notizia e una persona comune: integrità e correttezza. Integrità vuol dire avere rispetto di chi legge, vuol dire citare le fonti di chi ha detto alcune cose, vuol dire avere a cuore il proprio lavoro e la propria passione. Correttezza significa dare notizie verificate e controllate, in più vuol dire ammettere di aver sbagliato e farlo pubblicamente, senza darci troppa enfasi ma con onestà intellettuale. Cito la Sullivan (tradotta dal Post):
Siamo tutti in una gara mondiale per dare le notizie subito. Ma la verità accertata è più importante che mai, e a volte è meglio rallentare. [Diversi recenti esempi] hanno ricordato l’importanza dell’informazione coi piedi per terra, soprattutto nelle situazioni concitate.
Integrità e correttezza vuol dire guardare al futuro tornando un po' al passato, quando le notizie erano pubblicate da pochi produttori di informazioni. Ora produttori lo possiamo essere tutti, basta un blog, ma alcune regole, quelle davvero importanti, contano ancora. Una di queste si chiama credibilità. Quella non si compra e, al tempo stesso, vale come l'oro. Oggi come domani.

mercoledì 15 gennaio 2014

Redazioni "aperte": è La Stampa, bellezza


Quasi due anni fa scrivevo che i due quotidiani italiani sui quali scommettevo a livello di intraprendenza verso il futuro del mondo del giornalismo erano La Stampa e Il Sole 24 Ore. Del quotidiano piemontese mi aveva molto colpito l'editoriale del direttore che parlava di tre figure nuove per il suo giornale e non solo: Digital Editor (Marco Bardazzi), Web Editor (Dario Corradino) e Social Media Editor (Anna Masera). "Un giornale è un corpo vivo, che deve sapersi sempre adattare all’ambiente in cui si muove" si scriveva testualmente. Poteva sembrare un annuncio fatto sull'entusiasmo del momento, per cogliere al volo le nuove mode legate a Social Media e redazioni liquide per rendersi protagonisti, con obiettivi di breve periodo. Poteva sembrare.

A due anni di distanza, quell'annuncio è stato seguito da tante iniziative e una recentissima conferma della voglia di adattarsi al mondo che cambia. Nel momento in cui Anna Masera ha deciso di cogliere un'occasione importante (temporanea e non priva di rischi, dato che mettere insieme giornalismo, comunicazione e politica è difficile a livello di credibilità), il giornale ha preso una decisione nuova, fuori dagli schemi: ha nominato come Social Media Editor un non giornalista, Pier Luca Santoro (@pedroelrey su Twitter). Un grande professionista, competente ed esperto, oltre che un amico, ma di fatto privo di tesserino (come ha notato per primo Carlo Felice Dalla Pasqua, altro amico e, lui sì, giornalista). Particolare per nulla trascurabile, se si conosce un attimo il conservatorismo del mondo del giornalismo italiano (io sono giornalista iscritto all'Albo, sottolineo).

Non ci si ferma qui. I responsabili del quotidiano hanno deciso che Pier Luca sarà solo il primo esperto a essere coinvolto, ne sceglieranno uno ogni due mesi per portare idee, progetti, entusiasmo e competenze all'interno della redazione fino al ritorno di Anna Masera. Un passo importante, nuovo, da evidenziare. Che porterà giornalisti ed esperti della rete a conoscersi meglio, reciprocamente. Una prova? Leggete qui sotto. Mica facile il compito del Social Media Editor.

(Photo credits: www.notcot.com)

venerdì 15 novembre 2013

Le notizie serie funzionano come quelle meno serie

Scrivevo questo quasi un anno fa:
Il giornalismo ha un futuro se offre qualità. In termini di quantità e velocità delle news, ci sono ormai altre fonti con prestazioni inarrivabili per una testata giornalistica: a noi lettori serve controllo, verifica, metodo, interpretazione, selezione. Non ci serve uno scoop, ci serve una mano per capire il mondo. Ma la qualità non è per nulla in conflitto con la semplicità.
Un mio pallino da sempre, quello che il futuro dell'informazione non sta solo in storie brevi, divertenti, di facile impatto (gattini e affini, insomma) ma anche nella qualità. Tante volte accade un po' di sconforto quando vedi tanti "boxini morbosi" sulla parte destra di onoratissimi portali di informazione. Però, ogni tanto, ti arrivano delle conferme importanti e oggettive, condite con parole di persone che stimi, che forse il futuro vero è quello che intravedi tu. Annalee Newitz, citata da Giuseppe Granieri, dice cose che confortano in questo senso. E una ricerca, citata qui, segnala una controtendenza importante:
We’ve heard this a lot lately: Fun stories, not serious stories, work on social media.
But we’ve found otherwise. You can shape serious stories to make them shareable and more informative for the public. We’re not talking about watering down serious journalism — we’re talking about crafting stories for the digital audience.   
Creare storie in modo nuovo per nuovi lettori e un nuovo modo di leggere. Questa è la sfida che sembra funzionare già oggi. Ci stiamo ancora lavorando, per carità. Ma intanto godiamoci questa bella notizia. E buon venerdì.

martedì 4 giugno 2013

Chi ha bisogno dei giornalisti?


Il titolo è derivato da un bell'articolo del New York Times, testata che cito spesso ultimamente e non per caso. Si parte dal caso di Michele Bachmann, elemento di punta del movimento Tea Party americano e potenziale cavallo di razza repubblicano per la corsa alla prossima Presidenza, che ha deciso di comunicare la sua rinuncia alla candidatura al Congresso nel 2014. Dov'è la novità? Ha utilizzato solo un video su YouTube, non una tradizionale conferenza stampa. Tralasciando le motivazioni reali del suo ritiro, che lei non spiega nel dettaglio mentre altri ci provano, quello che è interessante è la scelta di ignorare i media tradizionali per parlare direttamente verso il proprio pubblico/elettorato (disintermediazione direbbero quelli bravi ma a me questo termine piace davvero poco). Dopo aver guardato il video, ecco alcuni consigli che, umilmente ma non troppo, darei sia al comunicante solitario che al giornalista non invitato alla festa.

Comunicante solitario: hai a disposizione strumenti molto potenti per comunicare senza avere la necessità, come qualche anno fa, di passare per le forche caudine della stampa con le sue domande scomode. Perché perdi questa opportunità non solo facendo un video autoreferenziale, ovattato, con una musichetta in sottofondo che dopo 10 secondi diventa noiosissima, ma anche senza dare "la" notizia, ossia il perché ti ritiri? La regola base di ogni comunicazione è che devi dare al tuo interlocutore una news che giustifichi il tempo che lui perde a leggere o ad ascoltare quello che dici. Se non la dai, le musichette e la bravura di chi ha ripreso il video non bastano. Guardi me ma parli da solo. Una non notizia non la si comunica, neanche su YouTube.

Giornalista non invitato alla festa: è un mondo molto diverso rispetto a quello di qualche anno fa, non è più il politico o l'azienda che ti deve invitare agli eventi ma sei tu che lo devi seguire, ovunque vada. Comodo era il tempo in cui, tra agenzie, comunicati stampa e inviti, ti arrivava tutto sul PC, in redazione. Ora il giornalista deve nuovamente muoversi, andare a cercare la notizia dove c'è, analizzarla e spiegarmi perché è importante. Il dove non è solo un luogo fisico ma anche virtuale, su Internet, sul profilo Facebook, su Twitter e su YouTube. Il perché è presto detto: volente o nolente, a noi cittadini i giornalisti servono. Non siamo in grado di analizzare tutte le informazioni che ci arrivano, abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia una mano a capire, a interpretare, a farci un'opinione. Il problema è che anche il giornalista deve essere consapevole di questo nuovo ruolo, che in realtà è vecchio: deve andare a cercare la notizia, senza aspettare l'invito.

"Dobbiamo essere in grado di entrare nella mischia e spuntare fuori all'improvviso" sottolinea l'autore dell'articolo del New York Times (traduzione mia, non letterale). Sta tutto qui ma non è affatto facile, come spiega bene Giuseppe Granieri. Né per il comunicatore non più solitario né per il giornalista imbucato alla festa. Ma i lettori e gli elettori esigono che ognuno svolga il proprio compito a dovere. Sono loro che pagano i loro stipendi, alla fine. Ricordiamocelo.

martedì 30 aprile 2013

Trovare notizie d'oro in un fiume di chiacchiere


Prendo spunto da un post di Massimo Melica sugli "imbecilli digitali" per fare una velocissima riflessione. Quando si parla di un fatto di cronaca piuttosto rilevante, ormai vediamo sempre la stessa struttura. I media cercano di rincorrere (inutilmente, gara persa in partenza) i social network per vedere di dare scoop continui per soddisfare la voglia di informazione di lettori e utenti. Con il risultato di dare notizie non controllate e trovate su fonti non verificate, danneggiando proprio quei lettori che vorrebbero informare. Dall'altra, ci sono i Social Network, dove inizia una gara spasmodica alla ricerca della battuta dell'anno (il 99% delle quali sono un misto di cattivo gusto, facili giochi di parole e sfoghi estemporanei fuori dal contesto). Una persona che cerca informazioni online fa una fatica incredibile a trovarle. Paradossale, no?

Cosa voglio dire con questo? Che abbiamo mezzi potentissimi, come abbiamo visto per i fatti di Boston, ma li stiamo utilizzando male. Gli imbecilli ci sono ovunque, in rete come per strada, e ogni facile generalizzazione (da "il popolo della rete" in giù) non avvantaggia nessuno e danneggia tutti. Come ho sempre detto, l'esempio nella gestione delle notizie lo devono dare i giornalisti, che mai come ora hanno trovato un ruolo vero: non trovare lo scoop cercando nel cestino di un ricercato ma setacciando e controllando la Rete per trovare un filo conduttore che faccia capire a noi cittadini cosa succede accanto a noi. Noi, coi nostri smartphone e i nostri tablet, possiamo essere molto utili a dare informazioni in tempo reale su un accadimento. Senza però illuderci di essere i nuovi Montanelli e neanche i nuovi Totò.

Come ho sempre detto, tra utenti e giornalisti ci deve essere collaborazione, non contrapposizione. E i giornalisti devono dare il buon esempio. Se no sfrutteremo male i mezzi e i dispositivi che abbiamo, perdendoci in una marea di chiacchiere del tutto inutili. E nemmeno divertenti.

(Photo credits: blog Certi momenti).

mercoledì 13 marzo 2013

Segnali dal futuro dell'editoria

Tra ieri e oggi ho visto tre notizie che, analizzate insieme, cominciano a dare qualche spunto per capire come sarà l'editoria del futuro prossimo venturo. Le analizzo velocemente, in ordine di "innovatività":
  • I dati ADS si adeguano al presente: i dati sulle diffusioni dei giornali italiani includono (finalmente) anche le edizioni digitali, in modo tale da dare, oltre alle belle cornici di parole, anche i numeri. I risultati sono superiori alle aspettative, non solo le mie. Questo significa che, anche in un Paese come il nostro dove i cittadini leggono poco (il primo quotidiano italiano vende 457mila copie, il primo inglese, The Sun, 3 milioni), le edizioni su tablet riscuotono un buon successo, con 45mila copie digitali a testa per Sole, Corriere e Repubblica. Per carità, c'è ancora molta strada da fare per compensare le perdite della carta, nell'ordine di copie e di euro incassati con la pubblicità, ma sono segnali incoraggianti.

  • Il sito resta centrale: il New York Times ha dato ieri un'anticipazione su come sarà il loro nuovo sito. Pulito, minimale, interattivo e, apparentemente, molto semplice da leggere (sembra un'applicazione per tablet). In più, del tutto aperto ad accogliere i giudizi e le opinioni dei suoi lettori, per instaurare quelle conversazioni di cui parliamo, in teoria, da tempo. Il giornalismo si adegua al mondo che cambia, scende dal piedistallo e si propone in modo più diretto e meno autoreferenziale. Non ho alcun dubbio che il modello del sito del NYT sarà preso ad esempio da decine, o centinaia, di altri quotidiani nel mondo (come ho già scritto, Il Sole 24 Ore ha dimostrato già di essere sulla buona strada). Ma la differenza sta nell'approccio, non nell'Html.
  • Contenuti e immagini, una relazione sempre più speciale: nel modello di vendita e fruizione dell'informazione del prossimo futuro, l'abbinamento tra testo e immagini (video e foto) sarà fondamentale. Perché i contenuti dovranno essere complementari tra loro e offrire ai lettori una facilità di lettura che oggi non hanno. Un esempio potrebbe essere quello di Icon Times, citato da Pier Luca Santoro, un nuovo modo di aggregare le notizie per abbinare velocità e semplicità di scelta delle notizie. Ma, ripeto, già Aldo Manuzio (e Luisa Carrada) ci aveva spiegato come testi e immagini debbano compenetrarsi tra loro, ben prima di Internet e tablet. Tornare al passato per scoprire il futuro, una lezione molto utile anche per il giornalismo. 
Insomma, tre bei segnali su cui riflettere. Con una conferma: al di là di mode e nuovo che avanza, il sito continua a essere centrale per ogni progetto di comunicazione, perché è un punto di riferimento chiaro, continuo nel tempo e controllato da chi lo fa. Non sono tre vantaggi da poco.

mercoledì 13 febbraio 2013

Elogio di una giornalista


L'annuncio delle dimissioni del Papa ha fatto il giro del mondo ma vedere come è nata la notizia dell'anno, o del decennio vedete voi, è molto singolare. Lo scoop è stato lanciato dall'Ansa, in particolare da Giovanna Chirri, che ha compreso immediatamente la notizia, ha fatto le sue verifiche e poi ha fatto il lancio ripreso poi da mezzo mondo. Cioè un percorso del tutto tradizionale, quasi conservatore, in un'epoca di social media, citizen journalism e news in tempo reale. Ma senza voler entrare nella filosofia comunicativa, fissiamo alcuni elementi importanti:
  • Competenza: la giornalista, vaticanista, ha saputo interpretare dal latino una notizia del tutto inaspettata, provvedendo a fare, prima di tutto, le verifiche del caso. Questo dimostra professionalità e  rigore metodologico nel trattare una vera e propria notizia bomba.
  • Velocità: come sa chi mi segue, non ritengo che la velocità della trasmissione di una news sia un elemento prioritario, la ricerca a tutti i costi dello scoop genera mostri informativi, spesso tanto gonfi quanto falsi. Meglio puntare sulla qualità. Tuttavia, con una notizia del genere, darla prima di tutti era un bel valore aggiunto. Sottolineo la velocità con cui ha fatto le verifiche del caso, nei confronti di un ambiente chiuso e stranamente spiazzato come quello del Vaticano. Rapidità e qualità.
  • Presenza fisica: quante volte vediamo sui giornali delle notizie che ci sembrano veri e propri comunicati stampa, che non hanno alle spalle un'analisi dell'annuncio e della sua forza? Perché i redattori le ricevono direttamente ai loro desk via mail (o su Twitter), notizie numerose e spesso non così rilevanti per il ricevente tanto quanto lo sono per il mandante. In questo caso la giornalista era sul luogo ("eravamo in pochi"), capace di "annusare" la notizia al volo e di dare al lettore (che in questo caso è anche un giornalista, visto che parliamo di lancio Ansa) un vero valore aggiunto.
In un post di qualche tempo fa dicevo che per ritrovare il suo ruolo nel prossimo futuro il giornalista deve ritornare al passato: formazione, professionalità, competenze, controllo dei fatti e delle fonti, presenza diretta sul campo. L'obiettivo è la credibilità, l'unica cosa che pagherà in un futuro di enorme quantità e poca qualità.

Leggetevi qui la cronaca di quei momenti fatta da Giovanna Chirri, raccontata da lei stessa. Trasuda passione per il proprio lavoro ed emozione. Ha sicuramente ragione Marco dal Pozzo quando dice che parlare di "scoop" oggi è un po' fuori luogo. C'è qualche bellissima eccezione, questa per esempio. E il merito va tutto a una giornalista che ha fatto la giornalista, prendendosi complimenti illustri ma mantenendo una grande umiltà. Altra dote non trascurabile in un'epoca in cui i redattori fanno, troppo spesso, solo personal branding.

venerdì 1 febbraio 2013

The paper strikes back

La fredda cronaca. Newsweek, anzi il suo controllante The Daily Beast, annuncia a ottobre 2012* (qui l'annuncio ufficiale), con forte clamore mediatico, la chiusura delle rotative per la fine del 2012*, dopo 78 gloriosissimi anni di storia. Vengono creati decine di articoli e post sulla fine della carta (uno su tutti, il WSJ), sul futuro che avanza, sul bit che vincerà e via discorrendo. Come sapete, io sono piuttosto scettico sulla morte prematura della carta (e non sono il solo, fortunatamente) però la notizia c'era, senza dubbio. Newsweek, mica una testata qualsiasi, andava solo online e ci scrivevo un post pure io, nel mio piccolo. Parlavo di "scommessa in tutto e per tutto" e concordavo sull'opinione di tanti addetti ai lavori che fosse "un salto nel vuoto". In bocca al lupo, però, per il coraggio.

Tutto bene fino al primo febbraio. Su Twitter appaiono le foto di un Newsweek cartaceo datato 3 febbraio 2013, con un grosso titolo, molto suggestivo, in copertina (vedi il tweet sotto).
Un dietrofront dopo solo un mese dalla "fine della carta"? Alcuni, in primis Piero Vietti, ipotizzano un fake molto ben fatto ma in queste ore il dibattito si alimenta. Viene fuori che l'editore, viste le proteste dei lettori e il fatto che a livello mondiale, al di qua dell'Atlantico, la carta la fa ancora da padrona, ha rimesso in moto le rotative. Certo, a quanto pare le copie diffuse sono solo 2mila per l'Italia (a dicembre erano 10mila) ma ci sono. Considerazioni? Troppo prematuro per farne di complete, anche perché ci si aspetta di avere news ufficiali a breve (vedi qui...), vedi qui sotto qualche anticipazione.


Quel che è certo è che la morte della carta non è così imminente e che se un gruppo di peso come quello di The Daily Beast/Newsweek (ora Newsbeast) fa una repentina sterzata (diciamo non un'inversione a U) appena un mese dopo aver imboccato il bivio più importante della sua storia moderna, c'è da riflettere. Un modello sostenibile e replicabile per gestire il passaggio da carta a digitale non c'è ancora, questa è una conferma molto pesante. Il digitale non garantisce ancora, almeno fuori dagli USA, profitti ampi e solidi, finché non lo fa sono scommesse. Che si possono vincere, ma anche perdere. Stiamo a vedere, il post sarà aggiornato.

Aggiornamento delle 9 di lunedì 4 Febbraio
Cercando aggiornamenti in merito alla questione, trovo il post del "solito" Piero Vietti: non ne sanno niente neanche in redazione. Citiamo spesso, io per primo, gli americani come esempio virtuoso di cultura comunicativa. In questo caso, non si può dire altrettanto. Newsweek esce cartaceo al di fuori degli USA, smentendo in modo netto quanto detto da Tina Brown tre mesi fa, e non ci sono notizie ufficiali in merito? Anzi, si torna a "chiedi all'ufficio stampa, se sei giornalista". Se questo è il futuro, sa molto di passato. E non è un complimento.


*Aggiornamento di martedì 5 febbraio
Il giornalista, e amico, Carlo Felice Dalla Pasqua mi fa notare come, per ben due volte, io abbia scritto "2013" al posto di "2012" nel post qui sopra, alla seconda e quarta riga. Sapendo quando ci tengo al fact checking e alla visibilità della correzione di ogni notizia, provvedo a correggere i due refusi: tutto merito suo, che ha perso qualche minuto del suo prezioso tempo per aiutarmi a migliorare la qualità del mio post.

lunedì 7 gennaio 2013

Tre strade per il futuro dell'informazione

Che il futuro dell'informazione lo stiamo vivendo l'ho scritto qualche tempo fa. Certo è che dopo 2 anni non è emerso alcun modello vincente e sostenibile che faccia prevedere, oltre ogni ragionevole dubbio, quello che sarà il domani dell'editoria. Quello che abbiamo visto sono alcuni esperimenti che si sono rivelati insostenibili, come il quotidiano Daily di Murdoch morto precocemente per la (avventata) scelta di legare il proprio modello di business alla fortuna di un solo dispositivo, il tablet (anzi, l'iPad). In Italia, recentemente, abbiamo visto il caso di Pubblico, deceduto dopo soli 100 giorni per cause ancora da accertare (mi pare impossibile una totale mancanza di un business plan elementare). Ma non voglio fare un body count, solo sottolineare come sia difficile trovare un modello che funzioni davvero dopo il crollo dell'equilibrio editore-redazione-pubblicità che ha resistito per più di un secolo (qui un ottimo post di scenario, per approfondire la cosa).

A livello generale, stanno emergendo tre modelli alternativi che hanno come protagonista assoluto l'online. Come sanno quelli che mi leggono, ritengo che la morte della carta (e dei ricavi da lei generati) sia tutt'altro che accertata e sposo in pieno le convinzioni di Pier Luca Santoro in merito. Tuttavia, dovendo guardare al futuro, le ipotesi, volutamente molto semplificate, sono queste:
  • Modello Huffington Post: i contenuti sono gratuiti ma generati da pochi giornalisti (pagati in moneta) e da una miriade di collaboratori/blogger (pagati in...visibilità). Da dove vengono i ricavi? Dall'advertising, dal fatto di contare su una redazione snella e poco costosa rispetto alla quantità di contenuti generati. Ad oggi, questo modello può essere scelto da editori con alle spalle un business plan consistente che può permettersi di operare per anni senza generare ricavi (l'HuffPo USA ci ha messo 5 anni a farlo). Un altro problema è la perdita di controllo dei contenuti (generati dai collaboratori), che porta a possibili problemi di fact checking e, quindi, di valore dell'informazione (vedi il caso Forbes).
Sono tre possibili strade, dalla più convenzionale alla più innovativa. Magari la soluzione non sta ancora in questi modelli però una riflessione si può fare a livello di modello sostenibile di informazione. I primi due sembrano destinati a editori con spalle large, con budget consistenti e brand molto pesanti. Il terzo potrebbe invece adattarsi anche a realtà più piccole, puntando a fare gruppo e a concentrarsi su iniziative più innovative per attrarre lettori. Il mio tifo si concentra sicuramente sul terzo modello, quello più attento alle esigenze del lettore e non solo al proprio business. Ma stiamo a vedere, la partita è apertissima.

lunedì 17 dicembre 2012

Il giornalismo deve credere nel proprio futuro

Il Guardian, testata di cui apprezzo da tempo la visione strategica nel proporre un nuovo modo di fare giornalismo e di relazionarsi con i lettori, ha deciso di chiudere la sua applicazione "sociale" per condividere i suoi contenuti su Facebook. Non perché non funzionasse, al contrario funzionava troppo bene ma spostava il baricentro del sistema di informazione verso le logiche del Social Network (più like, più visibilità) e non le sue (più "notizia", più visibilità). Avevo detto la mia mesi fa ma lo sviluppo dell'argomento, di interesse primario per chiunque si interessi del futuro dell'informazione e del giornalismo, mi porta ad approfondirlo. Ne hanno parlato molti addetti ai lavori in Italia, ne cito quattro, tra i più brillanti, con un estratto che ho scelto per riassumere il fulcro dei loro ragionamenti (leggeteli tutti i post, ne vale assolutamente la pena):
  • Luca De Biase: Un giornale deve servire alle persone anche ciò che non sanno di voler sapere. La sorpresa dell’inchiesta su un argomento nuovo è uno dei piaceri che aprono la strada alla crescita della conoscenza. E se un giornale non svolge questa funzione perde troppo valore.
  • Pier Luca Santoro: «The Guardian», da un lato, prosegue con coerenza straordinaria, senza esitazioni, il proprio percorso di apertura e trasparenza nei confronti dei lettori e, dall’altro lato, riporta all’edizione online, al sito web del quotidiano la centralità di “luogo” che favorisce il contatto e la relazione  con e tra le persone sulla base dei loro distinti interessi, dimostrandosi “SociAbile” e non predatorio come invece insistono ad essere la stragrande maggiornaza delle testate. Come scriveva Sun-Tzu nel suo celeberrrimo “Arte della Guerra” la strategia senza tattica è la strada più lenta per la vittoria, la tattica senza strategia è rumore prima della sconfitta.
  • Gigi Cogo: Il problema è la scarsa propensione a negoziare che, badate bene, è tipica di tutto ciò che viene erogato nel cloud. [...] Le cose, però, stan cambiando e molti provider di servizi cloud hanno capito che rischiano di perdere i fornitori di contenuti. La favola che i social media e i social network possono sopravvivere SOLO con gli user generated content, è finita. Ergo le parti, prima o poi, si siederanno a un tavolo, dinamica che nel cloud rappresenta un vero paradosso.
  • Marco Dal Pozzo: La mia visione è che non ci sarà nessun negoziato. Saranno gli editori a dover cedere, a meno di scelte diverse di cui PierLuca Santoro ha più volte disquisito nel suo spazio. La speranza che ho, invece, è che tali negoziati ci siano, purchè al centro di ogni trattativa venga posto il Cittadino, il lettore (mi piacerebbe, cioè, prevalesse più la logica secondo cui tra i due litiganti il terzo gode che quella del terzo incomodo).
I quattro post già bastano e avanzano per farsi un'idea dell'importanza e della complessità del tema. Aggiungo una mia personalissima riflessione. «Il cliente può licenziare tutti nell'azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i suoi soldi da un'altra parte» ha detto Sam Walton, fondatore di Wal-Mart (la più grande azienda al mondo per fatturato e dipendenti nel 2010). Questa frase, citata nel mio libro, si può adattare perfettamente al nostro caso: se il lettore/utente va da un'altra parte, può licenziare tutti sia in un Social Network che in una testata giornalistica. Il lettore sta al centro, come auspicato da Marco Dal Pozzo, anche se spesso ce ne dimentichiamo, per pigrizia e un po' per rassegnazione.

Ritengo che la scelta di mettere al centro il proprio sito Internet e non un social Network sarà, alla lunga, quella vincente. La strategia, come dice Santoro, è ciò che conta davvero, la tattica è necessaria ma non sufficiente. E l'informazione, citando Gigi Cogo, non è solo UGC ma molto di più. Per questo, il futuro del giornalismo dipende da quanto i giornalisti e gli editori credono nel proprio futuro. Perché "un giornale deve servire alle persone anche ciò che non sanno di voler sapere", come dice De Biase. Il Guardian ha fatto la sua scelta e io, nel mio piccolo, faccio un tifo sfegatato per loro e per il modello che propongono. Ne vedremo delle belle.

(Photo Credits: http://www.lsdi.it/2012/il-giornalismo-italiano-e-l-alfabeto-digitale-parte-un-sondaggio/giornalismo-3/)

martedì 25 settembre 2012

L'Huffington Post e la carica dei blogger


Oggi è nato l'Huffington Post italiano e non ho nulla di nuovo da dire rispetto a quanto già scritto a gennaio 2012. A parte una leggera sorpresa sul fatto che alcuni, troppi, si aspettavano un giornale "progressista" (forse perché è sostenuto dal Gruppo Espresso), quando invece l'HuffPo è assolutamente conservatore nel modello, nella struttura e negli obiettivi. Volete una prova tangibile? Guardate l'età anagrafica dei sedicenti blogger. Io ho fatto due conti: in media, 47 anni, tenendo dentro anche la 17enne Bianca Miccione che la abbassa sensibilmente. Questo è un nuovo media per un nuovo mondo, come dice il suo Direttore? Non sono d'accordo. Volete fare davvero un nuovo media? Fate un ProPublica italiano, un politico.com nazionale, fate fact checking e non enormi splash page con la faccia di Berlusconi.

Per il resto, tanti hanno già fatto loro gli auguri, molti di cui condivido le opinioni, come Pier Luca Santoro, Riccardo Esposito e Davide "Tagliaerbe" Pozzi. Abbiamo bisogno di altro, cari editori, soprattutto di un modello giornalistico sostenibile e non di un esercito di blogger non pagati se non con una "visibilità" che non copre neanche le spese in termini di passione per l'informazione. Questa non è una notizia in Italia. Lo sarebbe invece pensare a un nuovo modo di gestire le news fatto di scelte coraggiose, di credibilità e di professionalità. A proposito di blogger, ne servono altri 400, che inizi la carica. Bella e inutile, proprio come quella di Balaclava, quella dei 600: vi piace la mia splash page?

Aggiornamento: per il reclutamento dei blogger, non si inizia bene.

martedì 17 luglio 2012

L'app fa il monaco?


L'abito non fa il monaco, si dice. Il monaco fa il monaco, sostiene sapientemente Seth Godin. Tuttavia questa massima, saggia ed equilibrata, si scontra un po' con la mia esperienza di questi giorni sui Social Media. Semplificando un po' il tutto, diciamo che uso molto Twitter (dialogando con addetti ai lavori), abbastanza Facebook (con amici e persone che conosco bene) e poco G+ (solo per dire le mie cose, con pochissime interazioni). Tralascio di citare altri luoghi "social" perché non è della mia intera esperienza sociale quello di cui voglio parlare. Voglio citare un esempio, non essere noioso. Questa insomma è la situazione di quando uso il PC, ho abbastanza tempo e una connessione molto veloce. Quando passo al mobile, non cambia tutto ma molto sì. Principalmente per colpa dell'abito. Mi spiego meglio.

Per Twitter, l'applicazione del cellulare su Android va molto bene. Leggo meno tweet ma diciamo che l'esperienza è sufficientemente omogenea rispetto a quella col PC. Le app per Facebook, e ne ho scaricate tre diverse negli ultimi mesi (per Android e, lo confesso, Symbian), proprio non funzionano: lente, complicate e, soprattutto, con una user interface sempre improponibile. Io ci provo ma dopo 5 minuti mi passa la voglia. Riguardo a G+, ho scaricato l'ultima app per Android: una bomba. Interfaccia fantastica, accattivante, semplicissima da usare. Il problema è che là dentro, oggi, parlo pochissimo. Tuttavia, riflettevo, le potenzialità sono davvero grandi in un'ottica di mobile experience.

La mia esperienza da social user quindi si riassume così, lasciando fuori Twitter che va bene in entrambi i casi. Ci metterà più tempo Facebook a "credere" davvero nel mobile o Google a lanciare davvero Google+ al di là dei gretti numeri? A livello logico, il primo appare favorito (e consapevole dell'importanza della sfidama forse non è così semplice. Parliamo di guerra tra titani e io, da semplice utente, mi limito a guardare il mio orticello, il mio comportamento quando sono a letto e guardo cosa si dice in giro o l'ultima news relativa a un prodotto che mi interessa. Il cellulare è sempre più presente nella mia vita di persona informata sui fatti. E ieri sera guardavo G+ (e io su G+ non ci ho mai creduto davvero). L'abito magari non fa il monaco ma l'app forse sì.


(photo credits: AsiaNews e Il Post)

giovedì 29 marzo 2012

Viva l'evoluzione


In questi giorni sono spesso in giro da clienti, attivi e potenziali: Lazio, Friuli, Veneto e, domani, Lombardia. Questi periodi, oltre a essere molto intensi fisicamente, permettono di uscire dall'ufficio, dalla rete, dal digitale, per tornare ad annusare l'aria. Consentono di capire cosa stia cambiando davvero nelle banche e nelle aziende, di avere sensazioni nuove su cui contare per farti un giudizio. Da queste giornate ho tratto due piccole lezioni, una notizia positiva e una negativa.

Partiamo, come tradizione, dalla negativa. Ci sono ancora tante imprese, agenzie e banche che sono legate a schemi conservativi e obsoleti, fatti molto di forma e poco di sostanza. Ho visto responsabili di agenzie di comunicazione spostare 30 volte una pianta per far vedere al cliente che si preparava un evento in modo adeguato, senza poi gestire in alcun modo l'afflusso dei partecipanti e il coordinamento tra le varie persone incaricate. Ho visto banche sostenere di avere una sola e-mail, quella generale, pur di non farsi contattare. Ho visto potenti segretarie che davano colpe a destra e a manca pur di non ammettere di aver sbagliato. Ho visto amministratori delegati difendersi da accuse plausibili su carenze dei propri prodotti sostenendo, con estrema faccia tosta, di essere meglio dei leader di mercato, sempre e comunque. C'è tanta gente, là fuori, che pensa di poter gestire le varie attività in modo superficiale, come ai bei tempi delle vacche grasse. Stessi schemi, stesse logiche.

Ecco invece il segnale positivo: c'è una nuova volontà di collaborazione. Ho visto manager bancari non considerare più le aziende esterne come banali fornitori da far trottare a piacimento, ma veri e propri partner da scegliere con attenzione e curare nel tempo. Ho visto collaboratori di quando ero libero professionista chiedermi di lavorare nuovamente con loro, pur essendo consapevoli che io ora sono dipendente di una società. Ho visto responsabili aziendali chiedere informazioni supplementari su un prodotto/servizio per capire se il prossimo anno, senza alcuna urgenza evidente, ci potranno essere le basi per una partnership di mutuo interesse. Le aziende italiane spesso sono fenomenali nel cambiare pelle nei momenti di crisi, il loro limite è non decidere questo cambio di rotta ma farselo sempre imporre dalla tempesta. Alcune, giuro, stanno facendo passi importanti in questo senso. Nuovi schemi, nuove logiche.

Il mondo si divide in due categorie: quelli che capiscono che il presente ti impone un cambiamento significativo e chi pensa, con leggerezza, di poter andare avanti "come è sempre stato fatto". Una sopravviverà, per l'altra tanti auguri.

venerdì 2 marzo 2012

Follow the leader

El Pais (Spagna) ci ha dato un assaggio del futuro prossimo del giornalismo e dei media. Il Guardian (Regno Unito) rilancia in grande stile, con un geniale video sulla rivisitazione della storia dei tre porcellini vista con gli occhi di oggi (vedi sotto). Ci sono tutti gli aspetti fondamentali: coesistenza di notizie ufficiali e generate dagli utenti, redazioni liquide, integrazione in tempo reale di carta e digitale, fact checking delle notizie. E da noi niente? Per ora no, speriamo di vedere qualcosa a breve. Difficile aspettarsi qualcosa del genere da parte dei due grandi quotidiani nostrani, anche se si segnala un calo consistente nel numero di utenti dei loro siti. Forse sono "too big to try", in realtà spendono budget analoghi in altre cose (come sottolinea PierLuca Santoro su Twitter). Non ci resta che fare il tifo per quelli appena sotto, che qualche segnale l'hanno mandato: La Stampa e Il Sole 24 Ore (i cui utenti crescono e non di poco). Speriamo bene.

lunedì 27 febbraio 2012

Il futuro dei media: l'esperimento spagnolo

Leggendo un post di Luca De Biase, ho scoperto un'interessante ricerca fatta dal Berkman Center di Harvard sul rapporto tra giovani e media digitali per quanto riguarda la qualità dell'informazione. La si può scaricare qui, gratis e senza alcuna registrazione.Uno degli argomenti più rilevanti è che il grande aumento di produttori di contenuti avvenuto con Internet ha comportato una rivoluzione nel mondo dell'informazione. Di per sé, questa non può non essere giudicata una notizia positiva. Tuttavia, come accade sempre per questioni complesse come questa, c'è un altro lato della medaglia: le troppe informazioni rendono più difficile la selezione, la percezione della qualità e dell'affidabilità delle stesse. Come filtrarle? Su questo tema uscirà tra qualche mese un interessante libro di Alessandra Farabegoli che uscirà a breve, ma torniamo ai giovani.

I ragazzi, come facciamo tutti, cercano le informazioni con i motori di ricerca. La quantità dei risultati, non sempre ordinati secondo criteri comprensibili e chiari, genera frustrazione e ansia. Hanno poco tempo per trovare quello che cercano e la limitata qualità media di ciò che ottengono può comportare l'abbandono della ricerca. Oppure, aggiungo io, la selezione acritica delle notizie che si aspettano di trovare. Come ho già detto, io mi sono imposto di limitare le mie ricerche su Google per ottimizzare il mio tempo di ricerca e puntare su risorse informative di cui ho testato, nel tempo, la qualità e l'affidabilità. Le persone contano più di un algoritmo, almeno per ora. Questo tuttavia vale per le questioni che conosco bene, di cui ho riferimenti chiari ed evidenti. Per tutto il resto, i motori di ricerca sono l'unica alternativa a media tradizionali in forte crisi di credibilità (e di sostenibilità economica) in questa rivoluzione dell'informazione.

Cosa si può fare? Lo scenario è incerto e in evoluzione. Tuttavia, nonostante tutto, dei media abbiamo tutti un reale bisogno. Non abbiamo né il tempo né le competenze per selezionare tutti i tweet affidabili, ad esempio, in un flusso che sta diventando sempre più copioso. Ci serve qualcuno che faccia un rigoroso e credibile controllo dei fatti per conto nostro. Resto convinto che il giornalismo possa svilupparsi grazie a Internet ma, ad oggi, non esiste un modello preciso. Le riflessioni sono molte, le possibilità pure. Però mi sbilancio e scommetto deciso sul modello El Pais spagnolo, che sta portando avanti una rivoluzione coraggiosa dove la distinzione tra cartaceo e digitale non esiste più (vedi sotto). Un giornale che diventa rete, che va verso il lettore, che non ha paura di Internet, che vuole offrire "qualità e rigore" in ogni sua espressione, con qualunque mezzo. Questo probabilmente è quello di cui abbiamo bisogno.



mercoledì 22 febbraio 2012

The sun always shines on TV


Nelle ultime settimane molti articoli hanno enfatizzato il primato mondiale raggiunto dall'Italia a livello di impianti fotovoltaici installati. "Abbiamo superato perfino la Germania", questo il mantra (un esempio qui). Come bisogna fare sempre, c'è da entrare più nel dettaglio delle questioni per capire bene la situazione, compreso il rapporto sempre caldo (vedi qui) tra l'aumento dei pannelli solari (e degli incentivi a loro legati) e i costi delle bollette, che ho già analizzato. A me di avere più impianti di tedeschi, americani e cinesi fa piacere ma, come sempre accade per questo tipo di classifiche, non è la cosa più importante. Andiamo ad analizzare altre fonti in Rete, dato che abbiamo questa enorme possibilità di approfondimento e analisi delle notizie.

Il nostro primato è sottolineato da molte fonti, compreso Il Sole 24 Ore e molti media dedicati al settore Green (vedi qui e qui). No, aspettate un attimo. Gli ultimi dati tedeschi dimostrano che non c'è stato un loro calo, atteso a fine 2011, ma un dato record (vedi qui il documento ufficiale) che mette in dubbio anche il nostro primo posto. Dato che non stiamo facendo una competizione sportiva, del primato mi interessa poco: siamo vicinissimi al Paese che da un decennio è leader mondiale in questo settore ed è un dato di fatto positivo. Tuttavia, la domanda sorge spontanea: perché la Germania ha fatto questo sprint alla fine del 2011? Perché nel 2012 saranno nettamente ridotti gli incentivi. Il mercato tedesco ha superato certe soglie e, comprensibilmente, è stato deciso di diminuire l'impatto delle tariffe incentivanti. Questo ha comportato, allo stesso tempo, una brusca diminuzione dei prezzi dei prodotti, molto più significativa rispetto a tutti gli altri Paesi europei, altro fattore che ha agevolato questo piccolo boom.

Si capisce bene che le "classifiche solari" lasciano il tempo che trovano. Ma torniamo all'Italia. Abbiamo un numero elevatissimo di pannelli fotovoltaici ma installati senza criteri omogenei e senza un progetto industriale adeguato. Il 94% dei prodotti è realizzato in Cina e non esiste, oggi, un piano operativo di Governo che vada oltre il quarto Conto Energia. Abbiamo eccellenze a livelli di qualità produttiva che potrebbero sviluppare il business solare sia verso il mercato interno che estero, se adeguatamente supportate: l'integrazione architettonica e innovazione estetica degli impianti fotovoltaici potrebbero rappresentare nuovi campi per il "made in Italy". La nascita di altri conti energia negli Stati Uniti, in Giappone e, soprattutto, in Cina potrebbero essere opportunità fondamentali per le nostre imprese ma c'è la necessità che il Governo preveda un vero e proprio piano industriale in questo senso. Le PMI hanno già fatto miracoli, non possono farli per sempre.

Leggere sui media che siamo i primi al mondo nel fotovoltaico installato quindi fa sorridere un po' amaramente, perché forse stiamo perdendo un'occasione unica di rilancio economico. Mi piacerebbe leggere di un piano del Governo a lungo termine, con incentivi per la produzione e non solo per la realizzazione degli impianti. Qualche buona notizia c'è in questo senso: teniamo d'occhio queste news, non le classifiche. A proposito, sapete quanta energia elettrica produciamo con i pannelli fotovoltaici? Lo 0,6% del totale nel 2010 (dati GSE). La strada è ancora lunga.

(il titolo è derivato da una hit degli a-ha del 1985, la foto è mia, un'alba a Kangaroo Island, in Australia)

lunedì 20 febbraio 2012

Illusioni perdute, verità ritrovate

Le farfalle sulla RAI, prima di Sanremo 2012
L'enorme successo socialmediatico di Sanremo porta con sé alcune veloci considerazioni, una su tutte: si tratta della "ennesima conferma che i social media sono prevalentemente mezzi di distribuzione sociale dei mezzi di massa, con Facebook e Twitter a giocare ruoli diversi ma complementari alla diffusione promozionale dell’evento canoro nazional-popolare" (citazione da un post di PierLuca Santoro). Non si tratta di un dato di fatto di poco conto. I Social Media, oggi, anno del Signore 2012, svolgono prevalentemente un ruolo di supporto ai mass media, non alternativo. Questo mi è sempre stato abbastanza chiaro, visto che ho una formazione classica a livello di comunicazione e non ho mai postulato la supremazia di un media su un altro. Ma per molta gente, che si era fatta prendere la mano dalla "rivoluzione sociale", si tratta di un bagno di realtà oggettivo e utile.

Le analisi filosofico-sociali non sono il mio campo, a me è sempre importato l'aspetto relativo alla comunicazione aziendale. Ho sempre detto ai miei clienti che i Social Network non sono una necessità assoluta ("fish where the fishes are" dicono gli anglosassoni) e che, se si decide di utilizzare questi canali, si deve essere pronti da più punti di vista. Ma non fanno miracoli, mai. Per scrivere un capitolo del libro (ne saprete qualcosa di più a breve), sono andato a leggermi tutte le recensioni fatte qualche anno fa dai media, tradizionali e non, per l'avvento di Second Life. Ve li ricordate? L'entusiasmo era alle stelle e le multinazionali che avevano deciso investimenti cospicui. Poi, come sappiamo, si rivelò un fallimento, con migliaia di negozi e isole virtuali deserte e decadenti. Forse avevamo sopravvalutato tutti la cosa: per alcuni era stata un'ottima lezione, per tanti altri no.

Per mesi ho visto analisi e recensioni che sottolineavano la morte dei media tradizionali in un futuro prossimo, soppiantati dai Social Media: più veloci, più coinvolgenti, più personali. La tendenza mi sembra molto meno decisa e ineluttabile. I mass media si stanno trasformando, forse troppo lentamente, per venire incontro alle esigenze degli utenti e non stanno ottenendo risultati drammatici, tutt'altro. Un esempio, proprio legato indirettamente a Sanremo, è quello della Rai, che ha raggiunto risultati notevoli sul Web. Per questo, mi sembra utile ribadire che, come avevo già scritto per il giornalismo, stiamo vivendo un periodo di transizione di cui è difficile delineare gli scenari prossimi futuri. Di sicuro, i media tradizionali non moriranno così facilmente. E se ottengono questi risultati in termini di visibilità sui Social Network, forse anche a noi non dispiace così tanto. Neanche a chi, come me, non ha visto un minuto di Sanremo ma mica me ne vanto: ad ognuno il suo circo nazionalpopolare, senza vergogna.

giovedì 19 gennaio 2012

Huffington Post italiano? Non è quello che ci serve


Nasce lo Huffington Post italiano. Grazie a una joint venture con il Gruppo Espresso, il famoso "superblog" online americano esporta il suo format anche nel nostro Paese, all'interno di una strategia più ampia che coinvolge i principali Paesi europei (nel Regno Unito c'è già, sta aprendo in Francia e lo farà presto anche in Spagna). Il format è sempre lo stesso: accordo con uno dei principali gruppi editoriali presenti in quello Stato, per avere un partner esperto e accreditato nei confronti dei potenziali lettori, e organizzazione di una struttura mista che comprenda giornalisti, blogger ed esperti di contenuti online. Una bella notizia? Sicuramente è interessante, vista la stasi e la crisi del sistema nazionale dell'informazione e dell'editoria. Ma, lo dico (anzi, lo ridico) subito e chiaro: non è quello che serve in Italia.

Il fenomeno Huffington Post non rappresenta l'affermazione di un progetto nuovo e rivoluzionario partito dal basso, come ProPublica. Si tratta di una macchina da guerra nata subito con personalità conosciute, mezzi importanti e un'universo di riferimento pronto a sostenerla. Nonostante tutte queste condizioni, ci ha messo 5 anni a fare utili, a fare soldi. L'Italia ha una situazione editoriale e una tipologia di lettori/utenti molto diversa da quella dei paesi anglosassoni: il modello Huff Post può essere replicato? Mi sbilancio e dico di no. Concordo pienamente con quanto ha scritto qualche tempo fa PierLuca Santoro (mia fonte illuminata su questi temi): non abbiamo bisogno di altri modelli di sfruttamento né di soluzioni “pret a porter”, ma di un progetto che possa portare a un cambiamento culturale e organizzativo del tutto italiano, non importabile.

Ricordiamo che HuffPost fa convivere uno staff di 150 giornalisti (pagati in dollari) con 9.000 blogger (pagati in... visibilità), modello che ha suscitato parecchie perplessità e qualche class action. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? In più, i lettori/utenti italiani hanno caratteristiche molto diverse da quelle di americani e inglesi (sia a livello di cultura dell'informazione che di numero di copie comprate). Infine, il modello comunicativo, molto urlato (basta guardare le dimensioni dei titoli degli articoli principali, anche se variano in base al gradimento degli utenti) e con un home page enorme (poco usabile e con uno scroll infinito), è del tutto contrario a quella che definisco "semplicità di lettura". Nella sostanza, difficilmente sarò un lettore di HuffPost.it. Perché non mi piace il suo modello, non è quello che cerco. Se invede nascesse un ProPublica italiano, sarei il primo a sostenerlo: di questo ne abbiamo proprio bisogno.


Non so se iniziative puramente italiane, come Il Post o Lettera43, diano una risposta più giusta alle nostre esigenze di informazione. Quello che penso è che un progetto di successo deve avere tre caratteristiche fondamentali: semplice da leggere (l'Huffington Post non lo è), gratuito (almeno per la grande maggioranza dei contenuti) e personalizzato (ognuno deve decidere i contenuti che gli interessano). Come ho già detto, stiamo vivendo oggi il futuro dell'informazione ma capire dove andremo è difficile. Come disse quel genio di William Gibson: "ogni futuro immaginato diventa obsoleto come un gelato che si scioglie mentre uscite dalla gelateria all'angolo".

martedì 20 settembre 2011

Insegnando s'impara*


Mi è arrivato l'ultimo numero di Wired, molto più interessante degli ultimi perché, con perfetto ma prevedibile tempismo, parla di scuola e di formazione. Si passa dai timori del guru Jaron Lanier sul pericolo di arrivare a "pensare come macchine" alla scoperta che colossi come Google e Amazon sono stati creati anche grazie agli input di una maestra italiana nata nel 1870, Maria Montessori. Ovviamente, come spesso accade, per colpire il lettore si va a esplorare gli estremi, dalla scuola italiana ancora ferma ai gessetti da prendere dalle bidelle alle scuole americane dove studenti imparano formule trigonometriche esercitandosi liberamente su appositi siti Web. Non essendo un esperto in queste materie, mi limiterò a semplificare le cose e a portare la mia esperienza di studente (prima) e di genitore (poi), arrivando a una conclusione che sembra presa da un manuale di comunicazione d'impresa.

Un anno fa mi trovai a chiacchierare con Caterina Policaro (Catepol in rete) sul suo approccio con gli studenti, sulla loro curiosità nei confronti di un insegnante con l'iPhone che conosceva Facebook e Twitter meglio di loro. E mi spiegò la sempre valida regola della nonna: non fare o dire in rete quello che non faresti o diresti con tua nonna davanti. Un modo semplice ed efficace per spiegare la tutela della propria privacy in rete senza, per forza, ricorrere al terrorismo psicologico. I maestri che amiamo sono quelli che dicono parole che capiamo, che ci incuriosiscono, che ci coinvolgono, che ci trasmettono entusiasmo, al di là dei mezzi che usano. In quest'ottica, da studente sarei stato felice di avere in classe una lavagna interattiva multimediale (LIM) a patto che non venisse usata come una vecchia lavagna, col touch screen invece dei gessetti. Stesso discorso vale per i tablet e gli eBook scolastici del prossimo futuro. Ovvio, no? No, non lo è, vista la guerra persa in partenza degli insegnanti contro gli smartphone (un esempio qui).


Quello che dico è che la tecnologia può essere buona o cattiva, discorso ovvio, quasi banale. Tuttavia, al lato pratico, diventa tutto più complesso. Far guardare i video di YouTube a proprio figlio di (quasi) tre anni è buono o cattivo? E sapere che sa usare il mouse, l'iPad o il cellulare meglio del nonno è buono o cattivo? Non mi va di fare filosofia, mi limito a semplificare e a estendere la regola della nonna a un altro ambito: gioca con lui al computer come giocheresti con lui a pallone. Facendogli vedere come si fa, stando con lui, divertendosi con lui, stando attenti a non farsi male. Mi accorgo, ogni giorno, che le piccole lezioni che mio figlio mi da, senza volerlo, mi servono in ogni ambito della vita, in primis sul lavoro. 

La prima regola è che non esistono regole valide sempre, con chiunque e in ogni momento. Ci si adatta, giorno dopo giorno, a comunicare con lui in modo diverso, in base alle sue esigenze, con dietro un progetto a lungo termine definito ma flessibile. Rileggendo quest'ultima frase, non la si potrebbe scambiare per un perfetto approccio di comunicazione aziendale? Non penso sia un caso.

* Aforisma di Seneca (che sto citando molto ultimamente)

giovedì 1 settembre 2011

La passione dell'algoritmo per la qualità

La qualità paga, sempre. Magari ci mette un po' di tempo, magari ti fa andare in bestia vedere che altra gente spende meno tempo e meno attenzione di te su molti particolari del tuo lavoro e ottiene buoni risultati. Ma se si vuol essere sicuri di ottenere un risultato, puntare sulla qualità è sempre un'ottima soluzione. Intendiamoci, può essere positivo o negativo, mica viviamo in un mondo perfetto. Ma avendoci messo tutto quello che avevi, ti porterà comunque delle indicazioni fondamentali (compresa quella che stai forse sbagliando qualcosa).

Questo assunto è particolarmente importante per i contenuti sul Web e due notizie di cronaca d'agosto portano alla ribalta l'importanza della qualità in quest'ambito. Come segnala un post del sempre ottimo Tagliablog, Google sta introducendo un nuovo algoritmo di ricerca, denominato Google Panda, che vuole aiutare gli utenti a trovare nelle loro ricerche contenuti "high quality". Un attimo: come fa un modello matematico, per quanto evoluto, a decidere quali sono le informazioni di qualità? Provano a spiegarlo qui, ammettendo alla fine che è molto, molto difficile. I parametri più interessanti per determinare la qualità tra quelli citati sono questi:
  1. Evitare duplicazioni di informazioni e testi ripetitivi e ridondanti;
  2. Evitare errori di ortografia e sintassi;
  3. Realizzare contenuti e ricerche originali, non copiati da altre parti;
  4. Evitare troppi spazi pubblicitari all'interno dei contenuti;
  5. Realizzare una completa e precisa descrizione del tema che si sta affrontando;
  6. Valorizzare gli autori dei contenuti e la loro competenza in materia;
  7. Analizzare gli input dati dagli utenti, in termini quantitativi (numero visitatori, tempo di permanenza sul sito, etc.) e qualitativi (commenti, suggerimenti, critiche, etc.).
Pur essendo sicuro che i contenuti realmente validi possano essere valutati davvero solo da una mente umana, almeno per il momento, restano indicazioni molto utili e pienamente condivisibili. Perché la via tracciata per i motori di ricerca del futuro prossimo si riassume in "diamo sempre maggiore qualità ai nostri utenti". Parlo al plurale e non è un refuso, giusto per restare coerenti col punto 2. Anche Bing, il motore di ricerca di Microsoft, sta andando nella stessa direzione. Una delle prove è questo documento, anch'esso realizzato per segnalare agli utenti l'importanza di creare contenuti di qualità per essere trovati più facilmente. I consigli sono molto simili a quelli già segnalati, si aggiunge il fatto di non mettere video troppo lunghi (concordo) e di evitare l'utilizzo di strumenti di traduzione automatica perché le lingue vanno trattate con molta attenzione (sottoscrivo).

Non voglio addentrarmi di più sulla questione, non sono un esperto di SEO e sono un accanito sostenitore dell'assunto "a ognuno il suo mestiere". Tuttavia questa ricerca di qualità nel grande mare dei contenuti che è, oggi, Internet non può lasciarmi indifferente. In un post di qualche tempo fa (Giugno 2010) sottolineavo come fossimo in un momento di passaggio (tra vecchi e nuovi media) ma che i contenuti di qualità erano destinati ad emergere per diventare sempre più protagonisti. Sono contento che Google e Microsoft, perennemente in guerra fredda, siano concordi su questo. L'algoritmo ha preso punti oggi ma io preferisco sempre, e di gran lunga, l'uomo, soprattutto colui che scrive quei contenuti di qualità.


Photo credits: Flickr, Beniamino Baj