giovedì 20 dicembre 2012

Post 2012

Maya? No, Inca.

Tra un giorno e mezzo vado in ferie e, visto che ho due bimbi, il blog va in ferie pure lui. Ubi maior. Guardavo oggi le statistiche dei miei post del 2012, per vedere cosa interessa leggere a quei pochi (ma buoni) che mi seguono in vista del 2013. Questa è la top 5 in termini di numeri:
  1. Scrivere un libro, parte prima;
  2. Scrivere un libro, parte seconda;
  3. Appunti dal VeneziaCamp;
  4. La storia di Barilla, degli americani e dell'importanza delle relazioni;
  5. The all-digital future.
Per riassumere, noto che mi legge (nessun lettore medio, sono tutti molto sopra alla media) si interessa di libri per comunicare, di futuro del giornalismo, di storie di aziende e di evoluzione del mondo dell'informazione digitale. Non si interessano così tanto di Social Media, quindi, anche se sono citati spesso qui e là. Mi fa piacere: non sono un promotore aprioristico dei socialcosi, loro, come tutto, servono in certi casi, in altri no.

I numeri contano ma non sono tutto, però. I post 2012 che invece sono piaciuti di più a me che li ho scritti sono:


Non sono numerati perché non c'è un ordine. E domani ce ne potrebbero essere altri cinque qui sopra, perché si cambia, si evolve, quello che interessa oggi può non essere quello che ci intriga domani. Tuttavia, nel 2013 terrò in considerazione quello che mi hanno detto indirettamente quelli che mi leggono, questo è certo. Lasciandomi però la libertà di parlare di cose meno di impatto, più mie. Sono "libero non professionista", no? Non mi resta che augurarvi buon Natale e un grande 2013. Crisi o non crisi, chi vale ce la fa, di questo sono certo. 

Niente sui Maya? Mi sono sempre stati più simpatici gli Inca. E pure gli Aztechi.

martedì 18 dicembre 2012

Instagnam! E retromarcia


Oggi Instagram, la famosa applicazione che permette di realizzare foto con filtri particolari, ha pubblicato un aggiornamento sulle sue policy di utilizzo e sulla privacy. Due i punti sui quali mi soffermo velocemente, altri lo fanno molto meglio, in particolare sulla nuova policy:

  • By displaying or publishing ("posting") any Content on or through the Instagram Services, you hereby grant to Instagram a non-exclusive, fully paid and royalty-free, worldwide, limited license to use, modify, delete from, add to, publicly perform, publicly display, reproduce and translate such Content, including without limitation distributing part or all of the Site in any media formats through any media channels, except Content not shared publicly ("private") will not be distributed outside the Instagram Services.

    Traduzione veloce e diretta: voi che postate le foto ci date il diritto di usarle come ci pare, gratis, ovunque nel mondo, in ogni canale o media che noi decidiamo. 
  • Some of the Instagram Services are supported by advertising revenue and may display advertisements and promotions, and you hereby agree that Instagram may place such advertising and promotions on the Instagram Services or on, about, or in conjunction with your Content. The manner, mode and extent of such advertising and promotions are subject to change without specific notice to you.

    Traduzione veloce e diretta: noi facciamo i soldi con la pubblicità per cui vi ringraziamo del diritto implicito che ci date, senza che lo sappiate, di abbinare l'advertising con i vostri contenuti. Senza dirvelo, ovviamente, decidiamo noi e grazie.

Insomma, Instagram si può "pappare" le nostre foto: non è detto che lo faccia ma lo può fare e decidono loro di Facebook quando e come. In verità, queste policy non sono affatto strane per un social network ma anche per Google, ad esempio. Sono multinazionali che si riservano il diritto di decidere di cambiare le cose in modo unilaterale e, sembra strano, lo dicono in modo diretto anche se in legalese. Non sono nato ieri e non mi straccio le vesti per questo, anche se ci sono delle belle eccezioni come Flickr. Però ritengo che è bene farci una profonda riflessione (vedi qui e qui). Partendo dalla traduzione ben più efficace della mia che si fa qui.
Dear Users: You are not our customers, you are the cattle we drive to market and auction off to the highest bidder. Enjoy your feed and keep producing the milk.And keep telling us everywhere you go and what you see there. We'll do the rest. It is our content, not your content. Your content is stored on your server that you pay for with your money. That is all. 

L'ultimo punto potrebbe essere davvero il più interessante. Un collega me lo dice da tempo. Ha ragione lui. 

Aggiornamento: per curiosità, mi sono andato a leggere i Termini di Servizio (ToS) di Twitter. I contenuti sono degli utenti, detto chiaro e tondo al punto 5, ma certe formule legalesi non sono così diverse da quelle di Instagram.

Instagram fa retromarcia (il giorno dopo)

Viste le numerose proteste di migliaia di utenti, anche prestigiosi come il National Geographic, Instagram ha fatto marcia indietro, promettendo modifiche ai termini di servizio. Bella notizia ma stiamo a vedere, le considerazioni fatte sopra rimangono da qui al prossimo futuro. 

lunedì 17 dicembre 2012

Il giornalismo deve credere nel proprio futuro

Il Guardian, testata di cui apprezzo da tempo la visione strategica nel proporre un nuovo modo di fare giornalismo e di relazionarsi con i lettori, ha deciso di chiudere la sua applicazione "sociale" per condividere i suoi contenuti su Facebook. Non perché non funzionasse, al contrario funzionava troppo bene ma spostava il baricentro del sistema di informazione verso le logiche del Social Network (più like, più visibilità) e non le sue (più "notizia", più visibilità). Avevo detto la mia mesi fa ma lo sviluppo dell'argomento, di interesse primario per chiunque si interessi del futuro dell'informazione e del giornalismo, mi porta ad approfondirlo. Ne hanno parlato molti addetti ai lavori in Italia, ne cito quattro, tra i più brillanti, con un estratto che ho scelto per riassumere il fulcro dei loro ragionamenti (leggeteli tutti i post, ne vale assolutamente la pena):
  • Luca De Biase: Un giornale deve servire alle persone anche ciò che non sanno di voler sapere. La sorpresa dell’inchiesta su un argomento nuovo è uno dei piaceri che aprono la strada alla crescita della conoscenza. E se un giornale non svolge questa funzione perde troppo valore.
  • Pier Luca Santoro: «The Guardian», da un lato, prosegue con coerenza straordinaria, senza esitazioni, il proprio percorso di apertura e trasparenza nei confronti dei lettori e, dall’altro lato, riporta all’edizione online, al sito web del quotidiano la centralità di “luogo” che favorisce il contatto e la relazione  con e tra le persone sulla base dei loro distinti interessi, dimostrandosi “SociAbile” e non predatorio come invece insistono ad essere la stragrande maggiornaza delle testate. Come scriveva Sun-Tzu nel suo celeberrrimo “Arte della Guerra” la strategia senza tattica è la strada più lenta per la vittoria, la tattica senza strategia è rumore prima della sconfitta.
  • Gigi Cogo: Il problema è la scarsa propensione a negoziare che, badate bene, è tipica di tutto ciò che viene erogato nel cloud. [...] Le cose, però, stan cambiando e molti provider di servizi cloud hanno capito che rischiano di perdere i fornitori di contenuti. La favola che i social media e i social network possono sopravvivere SOLO con gli user generated content, è finita. Ergo le parti, prima o poi, si siederanno a un tavolo, dinamica che nel cloud rappresenta un vero paradosso.
  • Marco Dal Pozzo: La mia visione è che non ci sarà nessun negoziato. Saranno gli editori a dover cedere, a meno di scelte diverse di cui PierLuca Santoro ha più volte disquisito nel suo spazio. La speranza che ho, invece, è che tali negoziati ci siano, purchè al centro di ogni trattativa venga posto il Cittadino, il lettore (mi piacerebbe, cioè, prevalesse più la logica secondo cui tra i due litiganti il terzo gode che quella del terzo incomodo).
I quattro post già bastano e avanzano per farsi un'idea dell'importanza e della complessità del tema. Aggiungo una mia personalissima riflessione. «Il cliente può licenziare tutti nell'azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i suoi soldi da un'altra parte» ha detto Sam Walton, fondatore di Wal-Mart (la più grande azienda al mondo per fatturato e dipendenti nel 2010). Questa frase, citata nel mio libro, si può adattare perfettamente al nostro caso: se il lettore/utente va da un'altra parte, può licenziare tutti sia in un Social Network che in una testata giornalistica. Il lettore sta al centro, come auspicato da Marco Dal Pozzo, anche se spesso ce ne dimentichiamo, per pigrizia e un po' per rassegnazione.

Ritengo che la scelta di mettere al centro il proprio sito Internet e non un social Network sarà, alla lunga, quella vincente. La strategia, come dice Santoro, è ciò che conta davvero, la tattica è necessaria ma non sufficiente. E l'informazione, citando Gigi Cogo, non è solo UGC ma molto di più. Per questo, il futuro del giornalismo dipende da quanto i giornalisti e gli editori credono nel proprio futuro. Perché "un giornale deve servire alle persone anche ciò che non sanno di voler sapere", come dice De Biase. Il Guardian ha fatto la sua scelta e io, nel mio piccolo, faccio un tifo sfegatato per loro e per il modello che propongono. Ne vedremo delle belle.

(Photo Credits: http://www.lsdi.it/2012/il-giornalismo-italiano-e-l-alfabeto-digitale-parte-un-sondaggio/giornalismo-3/)

venerdì 14 dicembre 2012

Il destino è nel nome


Qualche giorno fa c'è stata una bella discussione su Facebook (promossa da Gilberto Dallan, da seguire su Twitter se già non lo fate) sul naming da dare a prodotti e/o aziende, se fosse meglio utilizzare nomi di fantasia o nomi reali. Io ho detto velocemente la mia: per i prodotti, mi sono sempre piaciuti i nomi reali, focalizzati su una caratteristica specifica del prodotto e derivanti da un bel brain storming, per le aziende invece risultava più difficile scegliere un nome reale. Sull'argomento del naming, tema sempre affascinante (vedi qui e qui), ci tornerò più spesso più avanti, anche perché ci sto riflettendo anche per motivi professionali, per l'azienda dove lavoro. Perché "il nome è un soffio divino".

Proprio riguardo al naming, sono sempre rimasto piuttosto freddo sui nomi dei prodotti dati dall'azienda che per inventiva produttiva e comunicativa è, senza dubbio, la numero uno: Apple. Concordo in pieno con quanto dice Seth Godin in uno dei suoi ultimi post su questo tema. Il nome di quei prodotti non ne esprime in pieno la qualità e le potenzialità: l'iPhone è molto più di un telefono, anzi la sua componente telefonica è senza dubbio di peso minoritario rispetto al resto. Allo stesso modo, il naming dell'iPad mi ha sempre lasciato dubbioso, scontato e poco di appeal. Però le vendite danno ragione a loro e questo basta. La cosa che fa riflettere è che questi nomi arrivino da un'azienda che ha scelto un brand con un nome semplice e reale ma che racconta una, o decine, di storie, già solo pensando alla sua genesi. Trasmette un'idea di semplicità, di pulizia, di immediatezza, di riconoscibilità che, diciamocelo, ha contribuito in modo netto al successo della società. La mela luminosa che vediamo in decine di film che lo ricorda ogni sera.

Sembra strano che un'azienda così avanti dal punto di vista della comunicazione non riesca a partorire nomi più brillanti e d'effetto. Ora che la qualità dei concorrenti si avvicina, penso che dovrebbero ripensare anche al naming dei prodotti. Utimamente stanno generando un po' di confusione anche nell'ordine dei prodotti (vedi qui): il Nuovo iPad (il 3) non è più quello nuovo (che è il 4, ossia "l'iPad con display Retina), l'iPhone 5 non viene dopo il 4 ma dopo il 4S (ci sarà un 5S, un 6 o cambiano?). Andate in un Apple Store e un po' di confusione vi nasce. In più, per chi lavorò, come me, alla comunicazione dell'iPaq, palmare Compaq sul quale HP non investì, i dubbi sull'origine rimangono.


In un mercato in cui i concorrenti puntano, e tanto, sul naming per far capire che la competizione si è alzata di livello, vedi la nascita del Lumia come nuovo corso di Nokia, farebbero meglio a rifletterci su. Nomen omen, il destino è nel nome.

mercoledì 12 dicembre 2012

L'Internet delle cose disconnesse


La piccola guerra nata tra Instagram/Facebook e Twitter, con attacco da una parte e rappresaglia dall'altra, è un sintomo dell'evoluzione che stanno prendendo i social network. Anzi, un'involuzione. Perché sono sempre meno social e prendono in considerazione solo il loro, limitato, network. Dal mio piccolo punto di vista, i risultati che ottengono sono questi:
  • Danneggiano della credibilità del proprio marchio, perché per futuli guerriglie legate a obiettivi di business piuttosto limitati, danneggiano chi li ha resi colossi, cioé gli utenti stessi. 
  • Rendono più difficile fare le cose che tecnicamente sono diventate semplici, come realizzare una foto, personalizzarla e condividerla. Nessun utente può essere contento di decisioni che complicano la sua vita online, perché si attende che questi cerchino di semplificarla, non fare l'esatto contrario.
  • Rendono meno divertente essere in quei luoghi, perché si ha la sensazione di essere meno liberi in luoghi che si stanno chiudendo intorno a noi. 
  • Ammettono di non avere una strategia di lungo periodo: i vari social network hanno avuto fortuna perché erano in grado di soddisfare esigenze specifiche e interessi diversi. Neanche Facebook, il più orizzontale, è riuscito a essere onnicomprensivo: la costosa acquisizione di Instagram e le difficoltà che incontra nell'adeguarsi alla rivoluzione mobile (vedi qui e qui) sono due esempi chiari di questo.
Insomma, stiamo vedendo l'Internet delle cose disconnesse, come si dice qui. Su Twitter ho detto frettolosamente la mia su questa guerra tra ragazzini digitali.


Bene, il risultato di tutto ciò? Ho scoperto l'esistenza e le caratteristiche di IFTTT, ossia "If This Than That". Cos'è lo spiega Alessandra Farabegoli molto meglio di me. La sostanza è: ti registri gratis, imposti una serie di regole e governi in modo automatico il flusso di molte azioni che fai online. Vuoi che i link che metti su Twitter vengano salvati anche da qualche parte? If this than that. Per carità, non sarà il nuovo colosso che avanza ma è un'idea (straordinaria) che raggiunge tre obiettivi: soddisfa una mia esigenza (molto sentita ultimamente), rende semplici le cose complicate, fa capire che Internet è, ancora, un mondo aperto.

Il padre di un amico mi disse una volta: non metto cancelli né inferiate intorno a casa mia, perché ti chiudono all'interno più che proteggerti dall'esternoSarebbe un buon consiglio da dare ai signori degli antisocial network.

venerdì 7 dicembre 2012

Facile scrivere difficile, il difficile è scrivere facile

Poca leggibilità, poca chiarezza. Questi sono i difetti riscontrati da una ricerca dell'Università di Bristol e della School of Journalism della Cardiff University sul mondo dei giornali e del giornalismo. Se la qualità dell'informazione dovrebbe essere la base fondante sulla quale costruire i giornalisti del futuro, in un'era in cui la quantità di notizie e i mezzi con cui vengono veicolate aumenta esponenzialmente, non stiamo facendo un buon lavoro. Come ci dice Pier Luca Santoro, un buon giornalismo dovrebbe fornire un'informazione di qualità su temi importanti, quali politica, ambiente, business e informazione economica. Invece sono le categorie che presentano il minor livello di leggibilità, di comprensione, da parte del lettore. Il tema viene ripreso sul Foglio, spiegando che questo dovrebbe suggerire un approccio diverso all’argomento.

Il giornalismo ha un futuro se offre qualità. In termini di quantità e velocità delle news, ci sono ormai altre fonti con prestazioni inarrivabili per una testata giornalistica: a noi lettori serve controllo, verifica, metodo, interpretazione, selezione. Non ci serve uno scoop, ci serve una mano per capire il mondo. Ma la qualità non è per nulla in conflitto con la semplicità. Se pensiamo che il giornalista qualitativo sia quello che scrive con latinismi o inglesismi, metafore e figure retoriche, stiamo cercando la persona sbagliata. Ci serve l'esatto contrario. Certo, oltre ai contenuti si può fare molto anche a livello di contenitore per aumentare la leggibilità degli articoli (IL e Plus del Sole 24 Ore stanno aprendo una strada in questo senso) ma, per ora, mi voglio fermare alla sostanza, alle parole, a quello che mi compete.

Parliamo di ambiente, un tema che ci tocca tutti da vicino: l'informazione che riceviamo è complessa, confusa e, spesso, partigiana (vedi qui). Volete un esempio? Quant'è la quota di energia elettrica prodotta attraverso fonti rinnovabili in Italia? E qual è la fonte pulita più importante, oggi? Io ve lo dico qui sotto, in poche slide. Ma ci ho messo ore a trovare, e verificare, quei dati.


"Come è facile scrivere difficile, e come è difficile scrivere facile!" diceva Libero Bovio. Perché scrivere facile presuppone conoscenza dell'argomento, sottointende un'analisi profonda di quello che dobbiamo raccontare e sottolinea, soprattutto, un grande rispetto nei confronti di quello che deve essere l'unico punto di riferimento realmente importante per chi scrive: chi legge. Anche se si è esperti di temi complessi, la strada della comunicazione semplice c'è sempre. "Per un ricercatore o un esperto di un tema complesso e specialistico, è facilissimo cadere e rimanere imprigionato nei propri pregiudizi. Può sbagliare perché non si rivolge al pubblico giusto, perché non sceglie il mezzo giusto, ma soprattutto perché non fa leva sugli interessi e sulle emozioni giuste" dice Giovanni Carrada in questo post. Una lezione per molti giornalisti ma anche per molti comunicatori. Vuoi sapere quant'è la tua leggibilità? Gioca qui.

(Foto presa dal blog del mio amico Alessandro Cosimetti, ricco di spunti in termini di leggibilità dei blog).

mercoledì 5 dicembre 2012

Un social network ibrido


Novembre deve essere il mio mese di riflessione sui Social Business Network. Qualche giorno fa pensavo al fatto che manca un posto online dove aziende e comunicatori si possano incontrare, per parlare, discutere e collaborare. A pensarci bene, avevo parlato di questo, della necessità di trovare un Social Business Network, esattamente un anno fa: quel luogo doveva essere Google+, come avevo ribadito anche qualche mese fa. Ora mi viene in mente LinkedIn. Ognuno ha le sue fisse, che ci volete fare?

Su LinkedIn i professionisti ci sono già, le aziende ci stanno arrivando seriamente, serve solo trovare i modi giusti per fare conversazione. In più, è un Social Network che può permettersi, più di altri, di non essere la cosa più cool del momento, perché ha scelto la sua nicchia di attività. Non deve essere il migliore di tutti, deve essere solo il migliore di quella nicchia. Certo, mica è al sicuro, nessuno lo è nel mondo di Internet però la strada da fare per gli altri è obiettivamente dura.

LinkedIn è già un ottimo e utile social network, perché dovrebbe cambiare? Perché quella nicchia inizia a farsi stretta e ci sono belle opportunità di sviluppo. Sicuramente, i responsabili del social network avranno idee più mirabolanti e sensate delle mie. Mi limito a buttare là due o tre riflessioni, così, per gioco.
  • Perché non fare il primo Social Network ibrido? Quelli che ci sono già sono fatti per le persone, le aziende operano in un terreno, di fatto, non proprio. Si potrebbero creare eventi virtuali, tipo fiere o una sorta di barcamp, per facilitare lo scambio di informazioni reciproche in terreni neutri in cui ognuno, azienda o persona, sceglie di entrare. Gratis ma facendo una scelta chiara.
  • Perché non creare anche dialoghi tra azienda e azienda? I social network oggi non sono adatti al mondo del B2B, non aiutano una PMI a trovare il fornitore, l'agenzia, il partner giusto. Potrebbero essere enormi facilitatori di relazioni, molto più efficaci di Google o di Pagine Gialle perché potrebbero dare garanzie qualitative sul modo di lavorare che un algoritmo o un elenco del telefono non possono offrire. Insomma andare oltre il CV su Internet, il dialogare con gli addetti ai lavori e il recruitment online.
  • Perché non creare "luoghi" divisi per settore? Andare oltre ai gruppi. Trovare un posto dove c'è solo gente specializzata in quel comparto, che parla un gergo differente, non sarebbe un vantaggio secondario sia per i professionisti che per le aziende. Un luogo dove iniziare anche a fare sul serio, con messaggi diretti e privati (ma anche videochiamate o hangout) per approfondire caratteristiche tecniche, componenti e prezzi.   
  • Perché non seguire il modello Tripadvisor in ottica aziendale? Ogni impresa e ogni professionista potrebbe essere giudicato dai suoi stessi clienti per il suo modo di lavorare e di fornire i suoi servizi, con tanto di recensioni e voti utili. Il problema sarebbe sempre nel controllo delle recensioni ("cosa faccio se i concorrenti scrivono pessime cose sulla mia azienda?") ma lo stesso rischio viene corso da 1,5 milioni di attività turistiche e commerciali. Direi che il gioco vale la candela (vedi questo post di Gianluca Diegoli di due anni fa, sempre attualissimo).
Io lavoro in un'azienda che fa software per aziende, solo un esempio. Per trovare collaboratori o partner devo usare gli stessi strumenti che avevo 5 anni fa, soluzioni per niente qualitative né ricche di garanzie. Se trovassi un posto che mi dice che quel noleggiatore di hardware è bravo e affidabile e a comunicarmelo non è lui ma i suoi clienti? Lo so, al di là delle finte recensioni, il problema rimane il tasso di competizione: tra gli utenti di Tripadvisor è piuttosto leggero, tra professionisti e imprese invece è pesante. Ma l'ho detto subito, è una riflessione, un gioco, non un business plan. E magari questo posto esiste già: sai niente a riguardo?