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mercoledì 25 marzo 2015

Dalla carta al digitale, un'evoluzione con qualche sorpresa

La "carta digitale" (qui immagine originale)

La rivoluzione digitale si sta compiendo sotto i nostri occhi: la carta sembra ormai obsoleta, a rischio estinzione, con l'affermazione di ebook e testate online adatte anche a tablet e smartphone. Per non parlare degli onnipresenti social network, nuova grande passione anche dei giornalisti della vecchia scuola. La realtà, come sempre accade, riserva sempre qualche sorpresa e rende meno nette queste vittorie annunciate. Perché le persone, ossia le variabili più complesse e imprevedibili di tutto questo discorso, non sempre seguono quello che preannunciano tanti esperti nelle loro bellissime presentazioni. A proposito, sapevate che pure Internet scomparirà?

Sono uscite alcune ricerche che sottolineano risultati in parte sorprendenti visto che siamo abituati a leggere che il digitale vince sempre e comunque sul quel "materiale igroscopico, costituito da materie prime prevalentemente vegetali, unite per feltrazione ed essiccate" che è la carta. Ad esempio, pare che leggendo un libro cartaceo le informazioni restino più impresse che usando un PC, un tablet o un ebook reader (punto di vista personale: non ho avuto questa percezione ma può essere). Inoltre, se si devono prendere appunti, la carta è migliore perché si ha più comprensione dei contenuti. Sul secondo risultato devo dire che sono piuttosto d'accordo, per esperienza personale: su carta i concetti sono più creativi, più miei, seguono la mia logica e le relative connessioni, non quelle di un software per testi fatto da altri. Certo, gli ibridi sono già tra noi ma non divaghiamo.

Parlando di rivoluzione digitale e di "scomparsa della carta", non si può non citare le previsioni e le analisi legate al mondo dei media. Il problema è che se si deve pensare a un nuovo modello di giornale che vada oltre il cartaceo, specialmente se si vogliono ottenere ricavi, è bene prefigurarsi bene la strada da seguire e i concetti da capire. Ad esempio, è vero che Facebook è una piattaforma molto diversa da un sito Web o un quotidiano cartaceo ma il giornale è sempre quello e deve essere coerente con sé stesso. Sta qui il difficile. Pare che al New York Times lo sappiano bene mentre al Messaggero abbiano opinioni diverse. Non è una strada facile, solo ora, dopo anni di parole (vedi qui, anno 2013) sta emergendo qualcosa di davvero concreto e sostenibile.

Stiamo a vedere come evolve tutto il discorso, al di là di presentazioni, eventi e ricerche. Perché vedere cose come la carta digitale dell'immagine sopra fa restare a bocca aperta, ma bisogna usarle quelle cose e qui è tutta un'altra storia. Da sempre ritengo che la carta abbia grandi qualità (semplice, concreta, durevole) e che non sia alternativa al digitale, almeno non nel medio periodo. Perché è dura a morire.

venerdì 14 febbraio 2014

I minori sui media: cinque riflessioni quotidiane


Leggo un bell'articolo di Wired sulla scelta di una mamma di non pubblicare le foto di sua figlia su Facebook, Twitter o altri luoghi. Se mi leggete un po', sapete che la questione delle immagini dei minori è un mio pallino da un po' (vedete qui). Ritengo che ognuno con le sue foto ci fa quello che vuole, e questo vale anche per quelle dei figli, di cui i genitori tutelano i diritti. Proprio per quest'ultimo motivo, non voglio dare consigli, solo qualche spunto di riflessione con cinque semplici domande:

  • Siamo sicuri di conoscere bene le nostre impostazioni di privacy sui vari social network?
  • Sappiamo che le foto che pubblichiamo su Facebook appartengono a Facebook che può farci, più o meno, quello che gli pare?
  • Siamo sicuri che i nostri figli approveranno, quando capiranno cosa vuol dire, la nostra scelta di pubblicare online le loro foto in modo massivo e in totale buona fede?
  • Siamo sicuri di essere così diversi dagli adolescenti che talvolta critichiamo per il fatto che "mettono tutto online"?
  • Siamo sicuri di essere consapevoli del nostro ruolo di produttori di contenuti e di informazioni di cui abbiamo la responsabilità?
Se le risposte sono tutte affermative, c'è già stata una bella riflessione a monte, che è quello che serve davvero. Se non sono tutte affermative, meglio pensarci su due minuti. Non costa quasi nulla. Io cerco di farlo tutti i giorni.

giovedì 28 novembre 2013

Meno tweet, più qualità: mi do una regolata

Sostengo da sempre l'idea che la facilità di pubblicazione di qualsiasi cosa sui social media possa essere controproducente nel lungo periodo. La definirei "la sindrome di whatsapp": è gratuito, semplice da usare e veloce, troppo facile abusarne (come sa il mio povero telefono costretto a vibrare tantissimo alcune sere). Questo può andare a discapito della qualità delle informazioni che si veicolano verso chi ci segue. Ma c'è un altro aspetto: questa abbondanza di aggiornamenti eterogenei e diversificati può dare una percezione fuorviante di quello che siamo e quello che vogliamo dire verso l'esterno. Me l'ha fatto notare una persona che stimo: tutte quelle news davano l'idea che pubblicassi, pur in buona fede, tutto quello che mi passava in mente, senza filtri critici né riflessioni sufficientemente approfondite. Non era così, mi sono detto di getto. Pensandoci su, rileggendomi a freddo e leggendo altre riflessioni, non ho potuto non dargli ragione.

Per questo motivo, visto che parlo spesso dell'importanza delle policy per le aziende nella comunicazione, mi do io una policy, un'autoregolamentazione sulla mia attività sui social media. Voglio dare più qualità nelle cose che dico, scrivo e comunico, quello che ho sempre cercato di fare sul blog (i post esigono tempo, una notizia concreta e più di una riflessione). Per questo, mi do queste semplici regole:

  • Limitare i miei aggiornamenti di stato, selezionando accuratamente le cose che scrivo e dandomi un limite massimo giornaliero (al massimo 5 tweet e 2 aggiornamenti di stato su Facebook e Google+, se in alcuni giorni non ho niente da dire va bene così).
  • Prendermi un tempo minimo di riflessione: pubblicare la mattina presto dopo aver riflettuto la sera oppure pubblicare la sera dopo averci pensato durante la giornata, davanti a un caffè o in un momento di pausa dal lavoro.
  • Puntare alla massima qualità: ogni cosa che scrivo deve essere potenzialmente utile per chi mi legge, ogni foto che pubblico deve avere un livello accettabile di creatività.
Essere online è una parte della mia vita attuale e non ritengo obiettivamente di averla vissuta male o di averne abusato. Però è giusto, ogni tanto, esaminarsi un pochino dall'esterno e provare a giudicarsi senza filtri né facili autoassoluzioni. Io ci provo e vediamo come va. Scommetto da sempre sulla qualità delle informazioni che comunico e non sulla quantità. Continuerò a farlo, con ancora più consapevolezza.  

lunedì 7 ottobre 2013

Non è paura del Web, è non conoscenza del Web

Gli italiani hanno paura "del Web"? Al di là della frase messa così, quelle frasi giornalistiche un po' grottesche se le leggi due volte, un articolo di Repubblica sostiene questa tesi. A mio parere, ha le sue ragioni: il 93% degli intervistati teme che la propria privacy possa essere violata su Internet. Sinceramente, anch'io farei parte di quel campione se me lo avessero chiesto. Tuttavia questo è solo un aspetto della medaglia, ce n'è uno molto più inquietante, riassunto benissimo da Ernesto Bellisario in un tweet.

Come accade spesso a chi non conosce bene qualcosa, si passa dalla paura del non conosciuto alla fiducia totale in un amen. Si è insicuri, ci si fida e si spera che tutto vada bene. Conosco decine di persone che sono del tutto restii a fare operazioni normali su Internet (tipo comprare qualcosa), ed è legittimo. Poi tuttavia queste stesse persone si trasformano completamente se l'ambiente è un Social Network, allora mostrano anche le foto dei figli nella vasca da bagno. Sono matti? No, si illudono di conoscere qualcosa in base a un paio di elementi. Come se uno si convincesse di saper guidare perché capisce come accendere il motore e come si accelera con un pedale. 

Non è mia abitudine fare analisi sociologiche, non è il mio campo e non mi compete. Faccio un semplice esempio personale. In un'altra vita ho fatto rilevazioni statistiche per l'Istat e mi ricordo ancora i minuti davanti alle mute porte di casa per convincere anziane signore ad aprirmi la porta. Tutto giusto, per carità: uno sconosciuto con un tesserino che vuole entrare in casa mia, siamo matti? La questione interessante però arriva quando mi aprivano: dopo 5 minuti mi offrivano il tè coi biscotti, mi lasciavano solo per andare a prendere il contratto d'affitto e altre cose. Si passava quasi istantaneamente dalla non fiducia alla fiducia smodata. Io dicevo loro: "signora, può aprire l'elenco telefonico, chiamare il centralino del Comune, chiedere dell'ufficio XY e il mio responsabile le confermerà la mia identità". Nessuno l'ha mai fatto e mi sono sempre chiesto cosa gli costava.


Lo stesso atteggiamento viene seguito dalle aziende. Alcune passano da una sfiducia totale verso l'Internet "che fa perdere solo tempo" ad aprire avventurose pagine su Facebook solo perché "l'ho letto sul Sole 24 Ore" oppure, peggio ancora, "perché l'hanno già fatto i miei concorrenti". Non si tratta di fiducia, si tratta di conoscenza, di cultura, di consapevolezza. Se uno si impegna a conoscere le cose, le paure restano ma si conoscono molto meglio. E non si superano perché ci si fida ma perché ci si prende una piccola ma ben valutata responsabilità. Cambia tutto. Non è saltare nel vuoto (non lo faccio, non lo faccio, ok, mi butto), è arrampicarsi per raggiungere una vetta.

(Photo credits: http://www.zwiglhof.com/aktivitaeten/)

giovedì 29 agosto 2013

La sottile linea che unisce le conversazioni


Qualche giorno fa ho avuto una bella discussione su Google+ (sì, avvengono anche lì, la trovate qui) sulle conversazioni e su come alcuni social network, che teoricamente dovrebbero facilitarle, di fatto non le rendono così semplici da iniziare e seguire. Un esempio significativo di questo era Twitter: ottimo per fare tante cose ma non per conversare, con botta e risposta slegati tra loro e difficili da seguire sulla propria timeline. Bene, Twitter ha ascoltato noi e tanti altri e ha annunciato un update molto importante sia delle app mobili che di Twitter.com proprio per semplificare la vita agli utenti e permettere loro di "vedere" le conversazioni che fanno loro e le persone che seguono. Il tutto è già operativo: se aprite Twitter trovate una sottile linea colorata (rossa, grigia o altro, le differenze cromatiche sono uno dei misteri non risolti) che collega, anche visivamente, vari tweet.

Era ora, come dice Massimo Cavazzini (aka Max Kava) e altri. Devono avere lavorato un bel po' dentro Twitter per trovare questa soluzione, il che è positivo perché dimostra che ascoltano i loro utenti su questioni non secondarie. I mercati sono conversazioni dice un vecchio e sempre attuale mantra e questi devono essere alimentati. Certo, come sottolinea bene Vincenzo Cosenza questo porterà anche delle conseguenze piuttosto complesse: saranno molto più visibili anche le conversazioni che includono critiche o segnalazioni non proprio positive. Penso sia uno stimolo in più a conoscere meglio lo strumento da parte di chi lo usa per motivi di business, penso a nuove policy definite e a tempistiche di risposta certe. E non sono cattive notizie.

Non esprimo pareri sommari, voglio vedere come mi trovo con questa nuova modalità. Però una cosa mi fa piacere: quando si replica ad un tweet, la conversazione viene spinta in alto nella timeline. Una soluzione che alimenta naturalmente lo scambio dialettico e che era una delle prerogative principali di un vecchio social network il cui sistema è servito a sviluppare Facebook. Tra il serio e il faceto, sostengo da tempo che possa essere un possibile modello di riferimento per i social network del futuro. Una piccola conferma c'è, nella forma di una sottile linea rossa (o grigia). 



martedì 28 maggio 2013

I minori sui media, social e non: iniziamo a rifletterci su


Leggo oggi un bel post di Massimo Melica sulla sempre troppo poco trattata relazione tra minori e giornalismo/comunicazione. Come gestire correttamente una notizia, di quelle brutte della cronaca ma non solo, che riguarda un minore? I giornalisti hanno regole piuttosto precise, che talvolta non rispettano ma che ci sono e sono molto chiare (essendo giornalista, le ho studiate). Consiglio a tutti di leggersi la Carta di Treviso, un manifesto di rara sensibilità che sottolinea non solo la tutela giuridica degli under 18 ma anche le responsabilità che si assume il maggiorenne giornalista che ne scrive e li fotografa. E c'è di più. Viene tutelato il principio di "difendere l'identità, la personalità e i diritti dei minorenni vittime o colpevoli di reati, o comunque coinvolti in situazioni che potrebbero comprometterne l'armonioso sviluppo psichico".

La Carta di Treviso è del 1990, è stata successivamente rinnovata e rivista nel 1995 e nel 2006. Per adeguarla alle nuove necessità, soprattutto in termini di strumenti di comunicazione, c'è stata un'attività di promozione della stessa nel 2012 ma, come appare subito evidente, c'è un grosso limite: è riservata ai "media" tradizionali. Era il 1990 e Tim Berners-Lee avrebbe definito il protocollo HTTP, il cuore di Internet, solo un anno dopo. Ora è evidentemente inadeguata a gestire il panorama mediatico attuale, il tempo passa per tutti, anche per le buone cose. Come dimostra anche il caso citato da Massimo Melica: c'era fretta di pubblicare la notizia, si è lasciata la foto di un amico (forse un minore) che non c'entra nulla col fatto. Una scelta infelice: io, lettore, avevo intuito che era il fidanzato presunto colpevole. Non una cosa da poco se si vuole tutelare l'armonioso sviluppo del ragazzo ritratto.

Il giornalista però si pone il problema, sa le proprie responsabilità, può spiegare le motivazioni (come fa a Melica) ed è già un atto importante. Se c'ero io col mio smartphone e i miei, diciamo, 10mila follower su Twitter (ne ho 1/25, per la cronaca), mi sarei fatto dei problemi a fotografare la scena e a condividerla? E se c'erano dei bambini? E se avessi legato alle immagini giudizi affrettati e non verificati (a proposito dei giudizi sommari 2.0, leggete qui)? Il problema non è piccolo: ognuno di noi oggi è produttore di contenuti e le responsabilità sul web sono difficili da attribuire e tutelare. Lungi da me pensare alle censure ma, lo voglio sottolineare bene, la Legge vale anche su Internet. Per questo, è bene iniziare a porsi il problema di gestire le immagini online di qualcuno. Iniziando da quelle dei nostri figli, ma questo sarà per il prossimo post.

(Photo credits: l'immagine, famosissima, è di Anne Geddes, modificata da me)

martedì 30 aprile 2013

Trovare notizie d'oro in un fiume di chiacchiere


Prendo spunto da un post di Massimo Melica sugli "imbecilli digitali" per fare una velocissima riflessione. Quando si parla di un fatto di cronaca piuttosto rilevante, ormai vediamo sempre la stessa struttura. I media cercano di rincorrere (inutilmente, gara persa in partenza) i social network per vedere di dare scoop continui per soddisfare la voglia di informazione di lettori e utenti. Con il risultato di dare notizie non controllate e trovate su fonti non verificate, danneggiando proprio quei lettori che vorrebbero informare. Dall'altra, ci sono i Social Network, dove inizia una gara spasmodica alla ricerca della battuta dell'anno (il 99% delle quali sono un misto di cattivo gusto, facili giochi di parole e sfoghi estemporanei fuori dal contesto). Una persona che cerca informazioni online fa una fatica incredibile a trovarle. Paradossale, no?

Cosa voglio dire con questo? Che abbiamo mezzi potentissimi, come abbiamo visto per i fatti di Boston, ma li stiamo utilizzando male. Gli imbecilli ci sono ovunque, in rete come per strada, e ogni facile generalizzazione (da "il popolo della rete" in giù) non avvantaggia nessuno e danneggia tutti. Come ho sempre detto, l'esempio nella gestione delle notizie lo devono dare i giornalisti, che mai come ora hanno trovato un ruolo vero: non trovare lo scoop cercando nel cestino di un ricercato ma setacciando e controllando la Rete per trovare un filo conduttore che faccia capire a noi cittadini cosa succede accanto a noi. Noi, coi nostri smartphone e i nostri tablet, possiamo essere molto utili a dare informazioni in tempo reale su un accadimento. Senza però illuderci di essere i nuovi Montanelli e neanche i nuovi Totò.

Come ho sempre detto, tra utenti e giornalisti ci deve essere collaborazione, non contrapposizione. E i giornalisti devono dare il buon esempio. Se no sfrutteremo male i mezzi e i dispositivi che abbiamo, perdendoci in una marea di chiacchiere del tutto inutili. E nemmeno divertenti.

(Photo credits: blog Certi momenti).

venerdì 19 aprile 2013

Caccia all'uomo a Boston e gestione della comunicazione


A Boston, in questo esatto momento, è in corso una caccia all'uomo per prendere uno dei sospetti degli attentanti della Maratona di Boston. "Stay in your home" è ripetuto ossessivamente da ogni rappresentante della polizia, in particolare nella conferenza stampa. Tre note a caldo a livello di gestione della comunicazione e degli strumenti di comunicazione:

  • In tre giorni, i team dedicati a trovare i colpevoli hanno setacciato i Social Network, le immagini presenti online per vedere se ci fossero elementi utili per le indagini. Come ci segnala Riccardo Scandellari, per tutti Skande, è impressionante la mole di informazioni a disposizione grazie all'uso degli smartphone. Altro che telecamere di sicurezza. E, cosa ancora più significativa, le più interessanti sono state raccolte qui. Al di là di tutto, il caso è ben lungi dall'essere chiuso, un esempio fenomenale di gestione integrata delle informazioni tra autorità, cittadini e media. Il tutto, ripeto, organizzato in tre giorni.
  • La competenza degli ufficiali di polizia americani, dei dottori e dei politici locali nella gestione delle conferenze stampa è, ai nostri occhi, incredibile. Sanno esattamente cosa dire e come dirlo a poche ore di distanza da sparatorie e fughe precipitose (il che significa manuali già pronti per il crisis management, policy definite e organizzazione capillare, non buon senso). E la cosa più interessante dal nostro punto di vista è che hanno la priorità di informare i cittadini attraverso i media, già sul campo, sulla strada, con le sirene e i lampeggianti intorno. Mica facile, eh.
  • Io sono nella provincia modenese e sto consultando attraverso Internet informazioni, ufficiali e ufficiose, in tempo reale. Come può fare qualsiasi cittadino americano. Le migliaia di chilometri di distanza sono irrilevanti. WCVB Boston, una TV della città, nella sua copertura streaming offre anche i sottotitoli in inglese in tempo reale, cosa che permette a chiunque abbia problemi di comprensione di quanto si dice (a causa di lingua, di udito, etc.) di interpretare correttamente il tutto.
A tre giorni da un attentato, i cittadini americani, e non solo, sanno che la autorità sono sulle tracce di alcuni sospetti e hanno soprattutto informazioni ufficiali, non solo "user generated tweets". Non traggo altre conclusioni perché non ci sono fatti confermati al momento, teniamo sempre a mente che il fact checking è un'arte difficile. Mi limito a sorprendermi di quanto sto vedendo e leggendo. Semplicemente.

lunedì 15 aprile 2013

Puntare sulle persone, non su strumenti o diete


Luca Conti, non proprio l'ultimo tra i professionisti esperti di Rete e comunicazione online, ha fatto un interessante esperimento: una dieta ragionata da Social Media, informazioni in tempo reale e commenti in serie sulle news offerte da Internet. Prima molto drastica, poi più equilibrata. Sgombro subito il campo da ogni equivoco: non voglio fare analisi sociologiche spicciole, analisi di produttività o altre cose che non mi competono, voglio solo sottolineare una personale riflessione sul tema che sto facendo da molto tempo:

  • Abbiamo troppe informazioni che ci arrivano;
  • Gli strumenti che abbiamo per scegliere cosa leggere spesso ci fanno perdere più tempo rispetto a quello che ci fanno guadagnare;
  • Scegliere come o dove essere "social" sembra un comportamento da asociali (lo so che è singolare metterla giù così), da dandy o da gente fuori dalla realtà. Non è così.
Come già dicevo qualche tempo fa, forse ci stiamo facendo troppi viaggi. Il mondo è anche come appare sulle varie timeline ma non è tutto lì. Facciamo un esperimento: proviamo a guardare 50 tweet e vediamo, oggettivamente, quanti ci interessano e quante volte clicchiamo per approfondirne il contenuto. Io, fatto ora, sono a 6 su 50. E seguo gente che ho verificato per bene, molti addetti ai lavori. Significa che ho perso tempo a leggere cose che non mi servivano in 44 casi su 50. Acqua calda o latte versato, direte voi. Ma il problema rimane: il nostro tempo è limitato ed è meglio spenderlo bene.

I Social Network fanno perdere tempo? Come sempre, dipende da noi, da come li usiamo, da come li scegliamo. Il problema è complesso, non esistono risposte giuste o sbagliate. Quello che sembra certo è una cosa: a un anno di distanza ci si chiede spesso come mai spendessimo tanto tempo a far cose che sapevamo già essere inutili. Che l'uomo tenda per natura alla conoscenza lo diceva già Aristotele e anche Platone aveva scritto un bel po' di cose su conoscenza sensibile e conoscenza intellegibile. Ma io non voglio fare filosofia, voglio trovare metodologie che mi aiutino a setacciare la rete per trovare le mie pepite informative in modo più efficace, più veloce e più utile (vedi anche qui). Niente diete, per carità, vanno oltre i miei limiti. L'unico rimedio è quello di puntare sulle persone, come ho sempre fatto, e non sugli strumenti. Per quello ci vuole fiuto e devo affinarlo ancora.

giovedì 31 gennaio 2013

Guardando il Sole

Ho sempre pensato che in periodi di forte evoluzione, nel settore della comunicazione così come in altri, bisogna seguire una duplice via: investire molte risorse su uno o due punti fermi, sicuri e magari un po' conservativi, e puntarne meno su qualche progetto innovativo, più rischioso, che può andare tanto bene o tanto male. Più o meno quello che si dovrebbe fare in Borsa o nel gioco in generale. Tornando alla comunicazione, ho sempre pensato che il sito Internet possa essere un perfetto punto fermo. Un'opinione non così di moda ultimamente però ha indubbi vantaggi: il sito aziendale è dell'impresa che lo crea, che lo gestisce come gli pare, nel bene e nel male, senza dover dipendere da policy esterne (i Social Network, ideali luoghi di sperimentazione, sono di proprietà di altri) tranne che per quanto previsto dalla legge.

Una bella conferma della mia idea è il nuovo sito del Sole 24 Ore: curato in ogni aspetto, dalle font all'impaginazione, così simile a un quotidiano di carta (comprese le singole rubriche, tra cui Impresa e Territori, la mia preferita) e, allo stesso tempo, arricchito dalle tante possibilità offerte dalla comunicazione online. Si vede che dietro ci sono professionisti che di rete, e di comunicazione, ne capiscono parecchio (uno su tutti, Stefano Quintarelli), un messaggio che arriva subito, forte e chiaro, al lettore/utente. Un hub informativo unico, facile da trovare e da consultare. In più, si intuisce che non ci si ferma qui e che dietro c'è un progetto e una strategia di medio/lungo periodo. Ci sono progetti di nuovi prodotti digitali (rischio di insuccesso medio/basso), nuove forme di abbonamento che integrano carta e bit (rischio di insuccesso medio) e idee nuove per la fruizione dei contenuti (rischio medio/alto).

Io non ho niente a che fare col Sole 24 Ore, sia chiaro. Qualche mese fa facevo il tifo per La Stampa, ora per loro, da semplice utente. Il sito mi piace moltissimo, l'applicazione per Windows Phone è favolosa e veloce. Perché provano a integrare carta e digitale con un'idea solida. Non si fermano a una piattaforma ("facciamo il quotidiano per iPad?") ma provano a fondere le informazioni su diversi luoghi e dispositivi per andare verso l'utente, il lettore. Un ottimo esempio di progetto aziendale che va oltre l'editoria.

Il sito conta, e conta tanto, cari responsabili aziendali. Prima di buttarsi sul nuovo social network del momento perché l'avete letto sul Sole, guardate il Sole stesso. Non fa male agli occhi, ve l'assicuro.  

mercoledì 12 dicembre 2012

L'Internet delle cose disconnesse


La piccola guerra nata tra Instagram/Facebook e Twitter, con attacco da una parte e rappresaglia dall'altra, è un sintomo dell'evoluzione che stanno prendendo i social network. Anzi, un'involuzione. Perché sono sempre meno social e prendono in considerazione solo il loro, limitato, network. Dal mio piccolo punto di vista, i risultati che ottengono sono questi:
  • Danneggiano della credibilità del proprio marchio, perché per futuli guerriglie legate a obiettivi di business piuttosto limitati, danneggiano chi li ha resi colossi, cioé gli utenti stessi. 
  • Rendono più difficile fare le cose che tecnicamente sono diventate semplici, come realizzare una foto, personalizzarla e condividerla. Nessun utente può essere contento di decisioni che complicano la sua vita online, perché si attende che questi cerchino di semplificarla, non fare l'esatto contrario.
  • Rendono meno divertente essere in quei luoghi, perché si ha la sensazione di essere meno liberi in luoghi che si stanno chiudendo intorno a noi. 
  • Ammettono di non avere una strategia di lungo periodo: i vari social network hanno avuto fortuna perché erano in grado di soddisfare esigenze specifiche e interessi diversi. Neanche Facebook, il più orizzontale, è riuscito a essere onnicomprensivo: la costosa acquisizione di Instagram e le difficoltà che incontra nell'adeguarsi alla rivoluzione mobile (vedi qui e qui) sono due esempi chiari di questo.
Insomma, stiamo vedendo l'Internet delle cose disconnesse, come si dice qui. Su Twitter ho detto frettolosamente la mia su questa guerra tra ragazzini digitali.


Bene, il risultato di tutto ciò? Ho scoperto l'esistenza e le caratteristiche di IFTTT, ossia "If This Than That". Cos'è lo spiega Alessandra Farabegoli molto meglio di me. La sostanza è: ti registri gratis, imposti una serie di regole e governi in modo automatico il flusso di molte azioni che fai online. Vuoi che i link che metti su Twitter vengano salvati anche da qualche parte? If this than that. Per carità, non sarà il nuovo colosso che avanza ma è un'idea (straordinaria) che raggiunge tre obiettivi: soddisfa una mia esigenza (molto sentita ultimamente), rende semplici le cose complicate, fa capire che Internet è, ancora, un mondo aperto.

Il padre di un amico mi disse una volta: non metto cancelli né inferiate intorno a casa mia, perché ti chiudono all'interno più che proteggerti dall'esternoSarebbe un buon consiglio da dare ai signori degli antisocial network.

mercoledì 5 dicembre 2012

Un social network ibrido


Novembre deve essere il mio mese di riflessione sui Social Business Network. Qualche giorno fa pensavo al fatto che manca un posto online dove aziende e comunicatori si possano incontrare, per parlare, discutere e collaborare. A pensarci bene, avevo parlato di questo, della necessità di trovare un Social Business Network, esattamente un anno fa: quel luogo doveva essere Google+, come avevo ribadito anche qualche mese fa. Ora mi viene in mente LinkedIn. Ognuno ha le sue fisse, che ci volete fare?

Su LinkedIn i professionisti ci sono già, le aziende ci stanno arrivando seriamente, serve solo trovare i modi giusti per fare conversazione. In più, è un Social Network che può permettersi, più di altri, di non essere la cosa più cool del momento, perché ha scelto la sua nicchia di attività. Non deve essere il migliore di tutti, deve essere solo il migliore di quella nicchia. Certo, mica è al sicuro, nessuno lo è nel mondo di Internet però la strada da fare per gli altri è obiettivamente dura.

LinkedIn è già un ottimo e utile social network, perché dovrebbe cambiare? Perché quella nicchia inizia a farsi stretta e ci sono belle opportunità di sviluppo. Sicuramente, i responsabili del social network avranno idee più mirabolanti e sensate delle mie. Mi limito a buttare là due o tre riflessioni, così, per gioco.
  • Perché non fare il primo Social Network ibrido? Quelli che ci sono già sono fatti per le persone, le aziende operano in un terreno, di fatto, non proprio. Si potrebbero creare eventi virtuali, tipo fiere o una sorta di barcamp, per facilitare lo scambio di informazioni reciproche in terreni neutri in cui ognuno, azienda o persona, sceglie di entrare. Gratis ma facendo una scelta chiara.
  • Perché non creare anche dialoghi tra azienda e azienda? I social network oggi non sono adatti al mondo del B2B, non aiutano una PMI a trovare il fornitore, l'agenzia, il partner giusto. Potrebbero essere enormi facilitatori di relazioni, molto più efficaci di Google o di Pagine Gialle perché potrebbero dare garanzie qualitative sul modo di lavorare che un algoritmo o un elenco del telefono non possono offrire. Insomma andare oltre il CV su Internet, il dialogare con gli addetti ai lavori e il recruitment online.
  • Perché non creare "luoghi" divisi per settore? Andare oltre ai gruppi. Trovare un posto dove c'è solo gente specializzata in quel comparto, che parla un gergo differente, non sarebbe un vantaggio secondario sia per i professionisti che per le aziende. Un luogo dove iniziare anche a fare sul serio, con messaggi diretti e privati (ma anche videochiamate o hangout) per approfondire caratteristiche tecniche, componenti e prezzi.   
  • Perché non seguire il modello Tripadvisor in ottica aziendale? Ogni impresa e ogni professionista potrebbe essere giudicato dai suoi stessi clienti per il suo modo di lavorare e di fornire i suoi servizi, con tanto di recensioni e voti utili. Il problema sarebbe sempre nel controllo delle recensioni ("cosa faccio se i concorrenti scrivono pessime cose sulla mia azienda?") ma lo stesso rischio viene corso da 1,5 milioni di attività turistiche e commerciali. Direi che il gioco vale la candela (vedi questo post di Gianluca Diegoli di due anni fa, sempre attualissimo).
Io lavoro in un'azienda che fa software per aziende, solo un esempio. Per trovare collaboratori o partner devo usare gli stessi strumenti che avevo 5 anni fa, soluzioni per niente qualitative né ricche di garanzie. Se trovassi un posto che mi dice che quel noleggiatore di hardware è bravo e affidabile e a comunicarmelo non è lui ma i suoi clienti? Lo so, al di là delle finte recensioni, il problema rimane il tasso di competizione: tra gli utenti di Tripadvisor è piuttosto leggero, tra professionisti e imprese invece è pesante. Ma l'ho detto subito, è una riflessione, un gioco, non un business plan. E magari questo posto esiste già: sai niente a riguardo?

mercoledì 28 novembre 2012

Aziende e comunicatori: ci conosciamo meglio?


Ieri ho partecipato a un evento su social media e dintorni presso la CNA di Modena. Grande protagonista della serata il professore, e amico, Stefano Epifani, una garanzia in questo senso. Al di là dei temi trattati, dei casi di successo e dei consigli, è emerso in modo netto e chiaro il divario culturale esistente tra i responsabili delle aziende e i comunicatori. Si parlano lingue differenti, non ci sono punti di contatto continuativi per aumentare la qualità della relazione e la conoscenza specifica. Se un responsabile di una PMI chiede "ma quanti tweet si dovrebbero fare al giorno?", non ci si può soffermare sull'apparente banalità della domanda perché banale non è. Se un addetto ai lavori ha difficoltà a capire quanto 3.500 euro (il valore ipotetico di un progetto per realizzare una strategia di content management, ad esempio) impattino sulle  risorse di una piccola impresa, la questione si fa difficile. Ma non è solo questione di soldi. Si tratta di cultura.

Gli eventi come quello di ieri sono molto utili da questo punto di vista perché il problema si vede a occhio nudo. Non servono statistiche, survey o interviste. Da una parte ci sono sguardi perplessi nel sentire parole come "bounce rate" o "klout". Dall'altra occhi allibiti perché non risulta universalmente chiaro che il progetto per realizzare un sito Web o per migliorare il posizionamento di un'impresa su Google (in ottica SEO/SEM) non può costare 300 Euro. Bene che queste cose si vedano chiare perché è la realtà. Non esiste una cultura comune e condivisa su quello che vuol dire fare comunicazione d'impresa perché non ci sono spazi di incontro comuni e condivisi. In parte, il mio libro è nato anche per quello: per spiegare che prima di tutto ci si deve ascoltare a vicenda, ci si deve fidare.

I Social Network potrebbero avere un ruolo importante nel creare questi collegamenti ma, ad oggi, non lo fanno. E non è solo un problema di relazioni sociali, il "cultural divide" (vedi qui e qui) esiste da molto più tempo. Ci sono aziende che aprono i profili Facebook senza avere un company profile o un sito decente, senza avere persone specializzate per "essere" in Rete, senza avere chiaro il perché si sta su Facebook (altro punto emerso chiarissimo ieri sera). Per questo, ieri, ho fatto una domanda a Stefano Epifani: c'è lo spazio per creare degli spazi, una sorta di marketplace ripensati e riprogettati alla luce delle potenzialità di oggi nei quali le aziende e i comunicatori possano iniziare a conoscersi meglio, per creare una cultura tecnica e comunicativa condivisa? Perché non si può andare oltre al tavolo di una riunione o alle due ore di un convegno?

Secondo Stefano Epifani, c'è troppa competizione antropologica, specialmente in Italia, e non funzionerebbe. Ci si farebbe solo una guerra tra poveri più spietata di prima: comunicatori vs comunicatori, aziende vs aziende. Se questo lo dice uno che nel 2003 scrisse un libro intitolato "Business community", c'è poco da stare allegri. Io invece sono più ottimista. Perché ora "fare rete" diventa una strada obbligata per sopravvivere alla crisi economica. Forse quei marketplace che non andavano bene prima possono funzionare oggi. Erano la soluzione giusta al momento sbagliato. "United we stand, divided we fall" lo diceva già Esopo, ben prima di John Dickinson. Davanti a una minaccia comune, si devono mettere via gli antichi rancori e le piccole rivalità. L'obiettivo è conoscersi meglio, dopotutto. Nessuna controindicazione, se non nella nostra insicurezza.

P.S.
Appena finito di scrivere il post, leggo questo. Nonostante tutto, resto ottimista. Un pochino meno, però.

mercoledì 31 ottobre 2012

Il peso delle idee in un mondo di numeri


Oggi ci serebbero tantissimi spunti per approfondire la crisi del giornalismo italiano, uno su tutti il caso job24. Ricordo più di un prestigioso redattore economico che nel 2004 si rifiutava di considerare l'e-mail come canale di comunicazione diretto, preferendo il fax. Esperienza diretta, non sentito dire. E ora hanno la loro bella faccina sorridente su Twitter. Ma rinuncio alla tentazione (è dura e si capisce) e parlo di altro.

Viviamo in un'epoca dove "il numero" sta prendendo un'importanza predominante, quasi esclusiva nel pianificare e gestire le attività di comunicazione. Certo, ci sono solide e nobili ragioni (vedi qui) ma riportare ogni cosa alla quantità di follower, ai dati di Google Analytics, agli obiettivi misurabili e al calcolo del ROI può essere limitante. Le aziende non sono solo dati e business, sono soprattutto persone che lavorano insieme per crescere insieme. Anticipo la domanda: no, non sto facendo filosofia. La qualità di un contatto con un potenziale cliente, l'empatia che si crea durante una riunione per motivazioni diverse e imprevedibili, la firma su un piccolo progetto considerata improbabile fino alla settimana prima sono tutte cose non quantificabili. Ma è anche grazie alla somma di questi fattori che le aziende crescono in Italia.

Pensiamo al ROI. Se un potenziale imprenditore dovesse calcolare il ROI legato alla creazione di una nuova impresa in Italia, obiettivamente dovrebbe lasciar perdere. E invece ci sono pazzi che nonostante un carico fiscale incredibile, una burocrazia illogica e l'impossibilità di assumere qualcuno nel breve periodo, ci provano. Cosa li spinge? Passione, convinzione, competenza, fiducia, visione, tutte cose non "pesabili", non oggettive. E spesso riescono nel miracolo. Come il calabrone, che ha le ali troppo piccole per volare ma, non sapendolo, vola lo stesso (vedi qui un bell'articolo su questo paradosso aeronautico).

Io ho lavorato spesso, e lo faccio tuttora, con imprenditori che hanno iniziato da una passione che, col tempo, si è trasformata in lavoro. Quasi tutti non avevano percepito l'importanza di comunicarla adeguatamente, loro stessi non la consideravano un fattore rilevante. Per questo, al di là di progetti infarciti di numeri da raggiungere e di dati da ottenere, noi addetti ai lavori dobbiamo ricordarci cosa fa andare avanti un'azienda nei nostri progetti di comunicazione: un insieme di idee, entusiasmo e fiducia in noi stessi. Quanto pesa, nessuno ve lo può dire.

(Photo credits: http://www.johnelkington.com/activities/ideas.asp)

martedì 16 ottobre 2012

Only good companies have good followers


Un giorno come tanti altri, vai a vederti il sito di un grosso brand, per cercare informazioni, per avere idee, per tanti motivi. Ti accorgi che c'è qualcosa che non va, niente di grave ma lo noti subito in un portale fatto con tutti i crismi. Il logo dell'azienda, mentre ci navigi dentro, viene tagliato. In realtà, anche alcune altre parti del sito sono strane, i caratteri diventano troppo grandi e poco "usabili". Nasce la tentazione "#epicfail": vai su Twitter, segnali la cosa ai tuoi follower e fai vedere che anche i grandi sbagliano. A me invece quell'azienda, quel brand sta simpatico, mi piace il loro modo di fare. Non ho loro prodotti, non ci ho mai lavorato insieme, non ho alcun "conflitto di interessi". Allora uso Twitter e segnalo loro il problema, semplicemente, direttamente, mettendo @nomeutente all'inizio, così la conversazione è tra me e loro. Sperando di fare cosa utile. Magari è solo un problema mio, penso.


Invece succede che poco dopo il grande brand mi risponde. Su Twitter. E mi ringrazia per aver segnalato il problema, prontamente girato al loro reparto IT e già risolto. #IEproblems, sottolineano. Eh, sì, lo so, ogni sito aziendale ha i suoi #IEproblems.


Rimango sempre sorpreso dell'estrema facilità e immediatezza con cui si può dialogare con un grosso brand: io ho segnalato loro un problema e loro mi hanno ringraziato. Penso a cosa sarebbe successo anni fa, con gli strumenti di anni fa: mando una mail, ok, a chi la mando, alla info, mah, chissà se la leggono, figurati se mi rispondono, ok lo faccio, ma devo accendere il PC, uffa... e dopo 5 minuti ti passava la voglia. Ora è bastato uno smartphone e un tweet. Ed è nata una conversazione. Poteva anche non nascere ma è mutato l'approccio.

Non è cambiato il mondo, per carità. Io probabilmente continuerò a non comprare i loro prodotti ma la prossima volta che vedrò quel marchio stampato mi ricorderò di questa conversazione, una piccola storia che finisce, ovviamente, con un Tweet: only good companies have good followers.


lunedì 1 ottobre 2012

Passione da vendere

Il 90% del tempo speso a parlare di Social Network e marketing è un mix di filosofia, sociologia, teoria della comunicazione e sensazioni umane. Il che è molto utile per rifletterci su ma abbiamo bisogno anche di casi pratici, diretti, semplici da capire per avere nuove idee da sviluppare. E non solo quelli di colossi e multinazionali con budget enormi, spesi non sempre bene, ma anche di aziende più piccole e, a mio parere, più interessanti.

Questi casi ti arrivano quando meno te li aspetti. A un convegno di Confindustria Modena, per esempio. Una case history raccontata molto semplicemente, con linguaggio diretto, in modo chiaro. Sorprendente, no? Come ha fatto Maurizio Cutrino spiegando come hanno gestito la fiera Macef, trovate la presentazione qui sotto. In breve, ci sono numeri, strumenti e strategie. Se mettono il video, aggiorno il post.


Il caso è interessante perché è una fiera principalmente B2B, in cui i Social Network sono stati utilizzati con successo. Soprattutto per creare relazioni con resposabili aziendali esteri, va detto. L'ultima edizione, quella di settembre 2012, ha visto un leggero calo di presenze (onore a loro che lo comunicano, in un mondo di fiere che dicono di andare sempre, e dico sempre, bene anche coi padiglioni vuoti) ma con un aumento notevole della visibilità online. Inoltre, c'è qualche bella idea: date un'occhiata al Socialike.

Mi è piaciuto molto il loro modo di presentarsi. Perché? Perché ci hanno messo soprattutto passione, una cosa che non puoi comprare né vendere: o ce l'hai o non ce l'hai. Cutrino ce l'ha, glielo si legge negli occhi. E questo la platea lo vede subito e chiaramente.

Nessun blogger ha ricevuto qualsiasi tipo di compenso, in euro o beni alternativi, nella preparazione di questo postQui si scrive solo per passione e in totale libertà. :-)

giovedì 30 agosto 2012

Google+ può diventare il primo Enterprise Business Network?


Da un po' di tempo rifletto sul fatto che non esista ancora un vero e proprio Business Social Network, ne ho già parlato qui e qui. Ossia non esiste un luogo sociale pensato e progettato per le aziende e per il loro business. Il focus è sempre stato la persona, l'utente, con i suoi interessi e le sue peculiarità, anche LinkedIn rientra perfettamente in questa logica. Le aziende hanno sempre "giocato fuori casa", entrando in posti pensati per le persone e dovendo adattarsi a regole troppo sbilanciate a loro sfavore. Ma i vantaggi offerti dai Social Network possono essere molto utili nell'ottica di un'impresa: comunicazioni in tempo reale, facilità nel creare relazioni, ampia disponibilità di strumenti a basso costo per supportare i vari progetti. Invece, ad esempio, vedo ancora tanti responsabili aziendali prendere auto, aerei e treni per fare riunioni dal vivo, con un rapporto tra costi/benefici nettamente sfavorevole. Forse, ora, qualcosa sta cambiando.

Notizia recente: Google aggiunge delle funzionalità Enterprise a Google+, un'esigenza che si stava facendo sempre più sentire nel mondo business. Chiariamoci, si tratta solo dei primi passi seri in questa direzione ma, a mio parere, non è un caso che proprio Big G sia la prima, anche se non la sola, a muoversi in grande stile. Google porta già oggi le proprie applicazioni nelle aziende, da Gmail a Google Docs, solo che non le integrava in un'unico luogo. Lo sviluppo degli Hangout dimostra come la società voglia venire incontro a una delle primarie esigenze di qualsiasi impresa: vedersi, parlarsi, discutere, fare progetti. Ma non solo (vedi qui e qui). Ora si può, con un semplice PC e una connessione, fare videoconferenze, tavole rotonde, conferenze stampa virtuali e altre cose.

Il principale vantaggio competitivo che può avere Google in quest'ottica è che le imprese non hanno la necessità di utilizzare strumenti sempre nuovi e "di moda", sono molto più conservative delle persone. Gli strumenti di base li ha già, molto potenti e affidabili, ora deve integrare tutto in un luogo sociale che sia anche proficuo per fare business: non solo il suo, anche quello dei milioni di aziende a cui fornisce i propri servizi. Un posto dove trovare clienti sia nel B2C che nel B2B, dove le aziende possano parlare con potenziali fornitori in tempo reale. Spesso in azienda si seguono ancora logiche molto, troppo arretrate, anche solo per trovare uno stampatore o un grafico: "un amico di...", "guarda su Google...", "ne avevamo uno tre anni fa...". Google non è esente da fallimenti nella sua volontà di integrare i suoi strumenti in salsa sociale (pensiamo solo a Google Wave) ma forse queste lezioni sono servite. Stiamo a vedere. Voi che ne pensate?

(Photo credits: "io e MS Paint")

giovedì 23 agosto 2012

Viaggi sociali


Sono rientrato dalle ferie con una chiara sensazione: noi addetti ai lavori ci stiamo facendo un po’ troppi viaggi. Mentali, non vacanzieri. Ritornato alla connessione costante, ai Social Network e a tutto il resto del mondo online, ho ritrovato quello che conoscevo (anche altri hanno fatto esperimenti di sconnessione sociale). Ma non era la realtà che avevo visto fino a poche ore fa. Che non è fatta di Wi-Fi potenti e gratuiti, di Social Media dominanti, di riviste e libri digitali su tablet. Quello che ho visto sono iPad lasciati senza appello ai bambini, reti wireless presenti solo nei cartelli degli stabilimenti e un sacco di foto di tramonti messe online invece che fatte vedere alla fine della vacanza. Nulla di male, per carità. Internet ci ha sicuramente cambiati ma non così tanto come noi, addetti ai lavori, forse ci illudiamo.

Altro input da vita reale. Alcune persone mi hanno dato giudizi sul mio libro, tra cui alcuni responsabili aziendali ed ex clienti. La cosa che mi ha sorpreso sono le idee che li hanno colpiti: “per comunicare su Internet saper scrivere è necessario ma non sufficiente” e “intervistare un responsabile aziendale spesso offre un compromesso ottimale tra qualità e quantità delle informazioni, risultato ben più significativo rispetto al rifare o al riscrivere il materiale già fatto”. Certamente non concetti rivoluzionari. E, soprattutto, li ha colpiti il fatto che non considero affatto i Social Network obbligatori e che ogni azienda fa storia a sé. Mi dicevano che tanti professionisti e agenzie proponevano esclusivamente progetti legati al mondo social, ignorando o quasi il fatto che la loro azienda avesse un sito di 6 anni fa, che non avesse documentazione aziendale aggiornata, che operasse in un settore dove i potenziali clienti, di fatto, non stanno sui Social Network.

Spesso noi addetti ai lavori ci facciamo contagiare, anche in buona fede, dalle passioni del momento. Non necessariamente sono la cosa migliore da proporre ai nostri potenziali clienti. Ho letto un post titolato “Facebook non funziona come modello di business”: non è vero, ci sono settori in cui le pagine aziendali funzionano più che bene (un esempio), sempre che si sappiano gli obiettivi da raggiungere e i risultati che si possono ottenere. Tuttavia le opinioni espresse nel post e soprattutto nei commenti sono più che condivisibili. Altro esempio di logica un po’ distorta del mondo online: la dicotomia tra #epicfail ed #epicwin, dove pare non esistere una via di mezzo. Nel mondo reale non va così, le aziende possono ottenere frutti diversi da ogni progetto che attuano, non solo ottimo o pessimo. Il vero problema è che spesso non sanno come analizzare i risultati e lì tanti di noi possono davvero dare di più. Anche se è meno divertente.

(Photo Credits: www.laurentchehere.com)

venerdì 27 luglio 2012

Social Olympics



Oggi è il mio ultimo giorno di lavoro, poi ferie in famiglia (e anche il blog avrà le sue meritate vacanze). Insieme ci godremo le Olimpiadi. Come seguirle? Con la cara, vecchia TV? O con Social Media, smartphone e altre cose molto più cool? Intanto questo evento mondiale sottolinea il grosso momento di passaggio che sta vivendo la comunicazione, sportiva e non, dove non ci sono più certezze sul "lancio della notizia". Come descrive bene questo articolo, è la prima Olimpiade nella quale i social network possono avere un ruolo importante nella gestione e nella fruizione delle news. Come in tutti gli altri settori della nostra vita, i creatori di notizie stanno diventando tantissimi, forse troppi, e rompono i vecchi schemi top-down. Tuttavia, è ancora presto per avere certezze e soluzioni già pronte, come si vede bene dalla situazione degli ultimi giorni.

Convivono speciali editoriali che sfruttano le potenzialità di Instagram per dare "belle foto"dell'evento alla possibilità di seguire una cerimonia inaugurale "in salsa social" con Google+. Vediamo decisioni su fantomatici silenzi olimpici con multe salatissime e la nascita di hashtag, come #savethesurprise, per provare a controllare la fuga di notizie da parte di tutte le persone coinvolte nella cerimonia inaugurabile su VIP presenti, ultimi tedofori e altre cose. Insomma idee paradossali convivono con belle idee, il problema è distinguere le prime dalle seconde prima dell'Olimpiade. Appunto, qui sta il problema, visto che sui Social Media tende a non esserci la via di mezzo: epicfail o epicwin.

Non faccio previsioni, mi limiterò a guardare le Olimpiadi cercando di trovare le informazioni che mi interessano su vari luoghi e vediamo cosa succede. Sicuramente, il "social" entrerà in posti dove non dovrebbe stare, si saranno incomprensioni e quesiti. Chissà cosa accadrebbe se un olimpionico facesse vedere al resto del mondo una foto direttamente dal podio, con medaglia al collo e smartphone. Per darci davvero un punto di vista del tutto irripetibile e mai visto. Magari non entrerebbe nella leggenda come Tommie Smith e Jonh Carlos nel 1968 ma sul rivoluzionario ci saremmo, eccome. Buone ferie a tutti!


(Photo credits: in alto Flickr, Threefishsleeping)

martedì 17 luglio 2012

L'app fa il monaco?


L'abito non fa il monaco, si dice. Il monaco fa il monaco, sostiene sapientemente Seth Godin. Tuttavia questa massima, saggia ed equilibrata, si scontra un po' con la mia esperienza di questi giorni sui Social Media. Semplificando un po' il tutto, diciamo che uso molto Twitter (dialogando con addetti ai lavori), abbastanza Facebook (con amici e persone che conosco bene) e poco G+ (solo per dire le mie cose, con pochissime interazioni). Tralascio di citare altri luoghi "social" perché non è della mia intera esperienza sociale quello di cui voglio parlare. Voglio citare un esempio, non essere noioso. Questa insomma è la situazione di quando uso il PC, ho abbastanza tempo e una connessione molto veloce. Quando passo al mobile, non cambia tutto ma molto sì. Principalmente per colpa dell'abito. Mi spiego meglio.

Per Twitter, l'applicazione del cellulare su Android va molto bene. Leggo meno tweet ma diciamo che l'esperienza è sufficientemente omogenea rispetto a quella col PC. Le app per Facebook, e ne ho scaricate tre diverse negli ultimi mesi (per Android e, lo confesso, Symbian), proprio non funzionano: lente, complicate e, soprattutto, con una user interface sempre improponibile. Io ci provo ma dopo 5 minuti mi passa la voglia. Riguardo a G+, ho scaricato l'ultima app per Android: una bomba. Interfaccia fantastica, accattivante, semplicissima da usare. Il problema è che là dentro, oggi, parlo pochissimo. Tuttavia, riflettevo, le potenzialità sono davvero grandi in un'ottica di mobile experience.

La mia esperienza da social user quindi si riassume così, lasciando fuori Twitter che va bene in entrambi i casi. Ci metterà più tempo Facebook a "credere" davvero nel mobile o Google a lanciare davvero Google+ al di là dei gretti numeri? A livello logico, il primo appare favorito (e consapevole dell'importanza della sfidama forse non è così semplice. Parliamo di guerra tra titani e io, da semplice utente, mi limito a guardare il mio orticello, il mio comportamento quando sono a letto e guardo cosa si dice in giro o l'ultima news relativa a un prodotto che mi interessa. Il cellulare è sempre più presente nella mia vita di persona informata sui fatti. E ieri sera guardavo G+ (e io su G+ non ci ho mai creduto davvero). L'abito magari non fa il monaco ma l'app forse sì.


(photo credits: AsiaNews e Il Post)