venerdì 27 luglio 2012

Social Olympics



Oggi è il mio ultimo giorno di lavoro, poi ferie in famiglia (e anche il blog avrà le sue meritate vacanze). Insieme ci godremo le Olimpiadi. Come seguirle? Con la cara, vecchia TV? O con Social Media, smartphone e altre cose molto più cool? Intanto questo evento mondiale sottolinea il grosso momento di passaggio che sta vivendo la comunicazione, sportiva e non, dove non ci sono più certezze sul "lancio della notizia". Come descrive bene questo articolo, è la prima Olimpiade nella quale i social network possono avere un ruolo importante nella gestione e nella fruizione delle news. Come in tutti gli altri settori della nostra vita, i creatori di notizie stanno diventando tantissimi, forse troppi, e rompono i vecchi schemi top-down. Tuttavia, è ancora presto per avere certezze e soluzioni già pronte, come si vede bene dalla situazione degli ultimi giorni.

Convivono speciali editoriali che sfruttano le potenzialità di Instagram per dare "belle foto"dell'evento alla possibilità di seguire una cerimonia inaugurale "in salsa social" con Google+. Vediamo decisioni su fantomatici silenzi olimpici con multe salatissime e la nascita di hashtag, come #savethesurprise, per provare a controllare la fuga di notizie da parte di tutte le persone coinvolte nella cerimonia inaugurabile su VIP presenti, ultimi tedofori e altre cose. Insomma idee paradossali convivono con belle idee, il problema è distinguere le prime dalle seconde prima dell'Olimpiade. Appunto, qui sta il problema, visto che sui Social Media tende a non esserci la via di mezzo: epicfail o epicwin.

Non faccio previsioni, mi limiterò a guardare le Olimpiadi cercando di trovare le informazioni che mi interessano su vari luoghi e vediamo cosa succede. Sicuramente, il "social" entrerà in posti dove non dovrebbe stare, si saranno incomprensioni e quesiti. Chissà cosa accadrebbe se un olimpionico facesse vedere al resto del mondo una foto direttamente dal podio, con medaglia al collo e smartphone. Per darci davvero un punto di vista del tutto irripetibile e mai visto. Magari non entrerebbe nella leggenda come Tommie Smith e Jonh Carlos nel 1968 ma sul rivoluzionario ci saremmo, eccome. Buone ferie a tutti!


(Photo credits: in alto Flickr, Threefishsleeping)

martedì 24 luglio 2012

La storia di Barilla, degli americani e dell'importanza delle relazioni



L’importanza delle relazioni. Se fate una ricerca su Google, trovate un sacco di roba che mette insieme filosofia, sociologia, tecnologia e tanto, troppo altro. Storia però se ne trova poca ed è di questo che voglio parlare. Tornando in auto dal mare, un lunedì mattina molto molto presto, mi è capitato di ascoltare “voci d’impresa”, un programma di Radio24 che parla delle aziende italiane, della loro storia e dei loro protagonisti. Uno di quelli che vorrei ascoltare sempre, altro che chiacchiere fumose e inutili. C’era la replica di una puntata che parlava di Barilla. Vabbé, Barilla, speravo in un’azienda nuova, interessante, sconosciuta. Ma guido, non ho fretta e ascolto lo stesso.

Bene, ma l’importanza delle relazioni? Un attimo di pazienza. Ascoltando, scopro una cosa che non sapevo di uno dei più conosciuti marchi italiani: Barilla, quella di “dove c’è Barilla c’è casa”, è stata venduta agli americani, alla multinazionale Grace. Nel 1970. Per 9 anni, durante i quali ha comprato la Voiello e ha creato il Mulino Bianco, è stata sotto controllo yankee. Poi Pietro Barilla è riuscito a ricomprarsela. Bene, dove sta la notizia? C'è riuscito grazie all’importanza delle relazioni. Perché lui non aveva abbastanza soldi per riprendersela, sembrava un’operazione fallimentare e tutti gli avevano sconsigliato di farla, dai consulenti alle banche. I soldi, miliardi di lire dell’epoca, glieli prestò la moglie di un pianista svizzero conosciuta a teatro. Una signora ricca che credette nella sua idea, ebbe fiducia in lui, nelle sue doti, nei suoi progetti. E Barilla ritornò italiana.

Ora, non so quanto romanzata possa essere questa storia, non è questo il punto. Se due persone non si fossero conosciute in un teatro e non avessero avuto fiducia l’uno nell’altra, la storia italiana sarebbe stata diversa. Questo è valso nel 1979 per Barilla come potrebbe valere per progetti, idee e imprese di oggi. La situazione economica non era florida neanche allora. Ho parlato spesso dell’importanza che attribuisco alla partecipazione agli eventi e ai Camp, alla conoscenza di persone diverse con professionalità diverse, al fatto di creare relazioni che oggi sembrano inutili e domani ti cambiano la vita. Quando lavoravo da solo, i più bei progetti sono arrivati grazie alle persone, non a brillanti strategie. “Esiste un solo vero lusso, ed è quello dei rapporti umani” (Antoine de Saint-Exupéry).

(L'immagine è un omaggio al genio di Erberto Carboni)

mercoledì 18 luglio 2012

Un'immagine vale più di mille foto


Da sempre, sono dell'idea che una foto vale più di mille parole. Mica sono il solo, per carità, ma sono un accanito sostenitore di questa tesi e la metto in pratica mettendoci più tempo a scegliere le foto a corredo dei post che a scrivere gli stessi. Oggi, però, ho un leggero ma pesante conflitto di interessi. Vivo a Mirandola, zona devastata dai recenti terremoti, e la tentazione di documentare a dovere questo momento particolarissimo e drammatico mi è venuta molte volte. Sono già stato testimone diretto degli avvenimenti (un esempio qui, ma anche la foto qui sopra) ma sempre con pulsioni sporadiche e spontanee, mai con premeditazione. Per cui capisco bene motivi e obiettivi di campagne e progetti che vogliono raccontare la mia realtà odierna attraverso le immagini, come questa. Però, ripeto, ho un conflitto di interessi: essere dalla parte di chi guarda e, allo stesso tempo, essere dalla parte di chi è guardato.

I giorni successivi al primo terremoto giravo per il centro storico della mia città. Non essendo ancora zona rossa, si poteva girare abbastanza liberamente. C'erano decine di persone che fotografavano tutto. Molti di loro erano là esclusivamente per quello: documentare. Non erano cittadini, non erano là per dare una mano, erano là per fotografare, punto. E io ho provato un senso di leggero disgusto, lo ammetto. Vedere gente che scattava senza tregua verso case di persone che erano là a raccogliere le loro cose, che cercavano di salvare il salvabile, tra cui la loro tranquillità, mi ha dato fastidio. Perché io, forse per la prima volta, ero dall'altra parte dell'obiettivo. Ho pensato alle decine di foto che vediamo tutti i giorni di gente in perenne emergenza, in povertà, in disgrazia e penso cosa possono provare loro nel vedere chi li fotografa. Quello che provo io alla millesima potenza.

Non voglio schierarmi perché non ha senso. Nessuno dei due, né il fotografante né il fotografato, fa qualcosa di sbagliato. Però il primo forse dovrebbe avere un approccio diverso, più attento anche al lato umano e relazionale. Spesso la voglia di scattare viene prima della voglia di capire. Si cerca la foto ad effetto di un essere umano triste, piangente, disperato in una condizione difficile perché colpisce l'occhio di chi guarda. Ma guardiamo bene prima l'occhio di chi fotografiamo: un'immagine che non viene cristallizzata su pixel ma che vale più di mille, belle foto. Spesso si chiama emozione.

P.S. A un mese e mezzo dai terremoti, quasi tutti siamo ancora in tende, container e strutture momentanee. Perdonateci, siamo ancora un po' suscettibili.

martedì 17 luglio 2012

L'app fa il monaco?


L'abito non fa il monaco, si dice. Il monaco fa il monaco, sostiene sapientemente Seth Godin. Tuttavia questa massima, saggia ed equilibrata, si scontra un po' con la mia esperienza di questi giorni sui Social Media. Semplificando un po' il tutto, diciamo che uso molto Twitter (dialogando con addetti ai lavori), abbastanza Facebook (con amici e persone che conosco bene) e poco G+ (solo per dire le mie cose, con pochissime interazioni). Tralascio di citare altri luoghi "social" perché non è della mia intera esperienza sociale quello di cui voglio parlare. Voglio citare un esempio, non essere noioso. Questa insomma è la situazione di quando uso il PC, ho abbastanza tempo e una connessione molto veloce. Quando passo al mobile, non cambia tutto ma molto sì. Principalmente per colpa dell'abito. Mi spiego meglio.

Per Twitter, l'applicazione del cellulare su Android va molto bene. Leggo meno tweet ma diciamo che l'esperienza è sufficientemente omogenea rispetto a quella col PC. Le app per Facebook, e ne ho scaricate tre diverse negli ultimi mesi (per Android e, lo confesso, Symbian), proprio non funzionano: lente, complicate e, soprattutto, con una user interface sempre improponibile. Io ci provo ma dopo 5 minuti mi passa la voglia. Riguardo a G+, ho scaricato l'ultima app per Android: una bomba. Interfaccia fantastica, accattivante, semplicissima da usare. Il problema è che là dentro, oggi, parlo pochissimo. Tuttavia, riflettevo, le potenzialità sono davvero grandi in un'ottica di mobile experience.

La mia esperienza da social user quindi si riassume così, lasciando fuori Twitter che va bene in entrambi i casi. Ci metterà più tempo Facebook a "credere" davvero nel mobile o Google a lanciare davvero Google+ al di là dei gretti numeri? A livello logico, il primo appare favorito (e consapevole dell'importanza della sfidama forse non è così semplice. Parliamo di guerra tra titani e io, da semplice utente, mi limito a guardare il mio orticello, il mio comportamento quando sono a letto e guardo cosa si dice in giro o l'ultima news relativa a un prodotto che mi interessa. Il cellulare è sempre più presente nella mia vita di persona informata sui fatti. E ieri sera guardavo G+ (e io su G+ non ci ho mai creduto davvero). L'abito magari non fa il monaco ma l'app forse sì.


(photo credits: AsiaNews e Il Post)

mercoledì 11 luglio 2012

La velocità? Sopravvalutata


Un bel post di Massimo Mantellini ripropone un mio vecchio cavallo di battaglia: la "velocità smodata" di pubblicazione di una notizia ormai è un fattore secondario per un media. I Social Media da quel punto di vista sono imbattibili perché le notizie vengono generate e pubblicate dalle persone che quei fatti li vivono, in tempo reale. Una gara persa in partenza da ogni giornalista. Quello che manca a noi lettori non è la velocità, ma l'approfondimento, l'analisi, la spiegazione, ossia contenuti di qualità che gli utenti che twittano raramente possono garantire. In più, i media possono (teoricamente) offrire un autorevole ed efficace fact checking, ossia il controllo della notizia stessa. Ne avevamo già parlato io e PierLuca Santoro al Veneziacamp qualche mese fa ma rilancio la questione.

"I still don’t care who yells “first!” in the giant comments section that is modern journalism": questo il riassunto di questo bel pezzo di Poynter (grazie alla segnalazione di Giuseppe Granieri) Ormai i lettori hanno decine di fonti dirette da cui attingere, quello che vogliono in verità è la qualità. Quantità e velocità sono secondarie. Verissimo che gli scoop in anteprima, poco controllati o verificati, possono dare ottimi risultati nel brevissimo periodo ma sono gli obiettivi di medio-lungo periodo quelli che contano davvero. Io trovo molte più notizie interessanti su ProPublica che su decine di altri siti. Leggetevi questo approfondimento sulla "autosopravvalutazione" dei risultati ottenuti dalla polizia newyorkese nei confronti di possibili attacchi terroristici. Fatti, prove, verifiche, argomentazioni. Nella sostanza, pura qualità giornalistica. Questo vogliamo.

venerdì 6 luglio 2012

L'onore della carta


Finalmente ho in mano il mio libro, cartaceo: una sensazione davvero particolare. La cosa mi ha fatto anche riflettere: su questo blog ho probabilmente molte più persone che mi hanno letto e mi leggeranno rispetto a quelle che lo faranno sulla carta. Perché il blog lo trovi in un secondo con Google, quando vuoi, non lo devi cercare e tantomeno comprare. Vedo tanta gente online che parla di comunicazione online però finisce immancabilmente per scrivere un libro: va benissimo, c'è anche l'ebook, ma non è tutto qui. Ora capisco molto meglio il perché, soprattutto tenendo conto del titolo stesso del mio libro. Pensare a una persona che legge le parole di inchiostro scritte da me mi da più soddisfazione, come se ci fosse un rapporto più intimo e particolare.

Ho scritto un libro sulla comunicazione online ma rimango stregato dalla vecchia e conservatrice carta. Perché? Forse siamo in una fase di transizione in cui anche noi, addetti ai lavori, che la meniamo con Internet, relazioni online e dialoghi in tempo reale, non siamo ancora sufficientemente maturi per abbandonare davvero la carta. Forse è solo un pizzico di romanticismo o la realizzazione di vecchi sogni di gioventù, quando scrivere un libro o diventare giornalista era l'aspirazione ideale e idealizzata. Poi, con l'andare degli anni, ti accorgi che con queste cose non ci campi. Però i sogni rimangono vivi e vegeti, dentro di te, da qualche parte.

In più, vedi la reazione delle persone, anche quelle più vicine a te. Mio padre va in libreria a comprare copie per i parenti. Mia suocera aspetta trepidante di vedere il mio nome sulla copertina. E anche gli amici, miei coetanei e under 40 (ancora per poco), subiscono il fascino di questa cosa. Ho già descritto le sensazioni provate nella fase di scrittura (qui e qui), ora volevo solo dire cosa si prova ad avere in mano il volume cartaceo. Ripeto, non sono numeri o risultati a contare. "Scrivere è leggere in sé stessi" diceva Max Frisch. Forse sta tutto qui.