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venerdì 4 gennaio 2019
Il lungo periodo (il ritorno del blog)
Il 2019 è l'anno del blog. Ritorno al futuro, insomma. Per chi come me ha sempre scritto di marketing e comunicazione, il luogo della conversazione ormai è un altro. Si scrive più brevemente negli ambienti sociali, magari più frettolosamente e seguendo molto hashtag e trending topic. Ma è lì che si dibatte.
Detto questo, il "troppo breve" non mi ha mai conquistato. Come in tutte le cose della mia vita, io sono di medio e lungo periodo. Anche nella scrittura e nella riflessione, sono di lungo periodo. Long form come stile di vita, insomma. Per questo niente mi ha dato più soddisfazioni di questo blog: tanti mi hanno chiesto perché l'ho congelato, mi leggevano volentieri. Ma, come scrivevo sopra, avevo scelto altri luoghi.
Io a questo ritorno del blog non ci credo fino in fondo. Tuttavia il mai dire mai è il mio vero mantra, nel bene e nel male. Per cui, dopo 3 anni e mezzo, nasce oggi un nuovo post. Perché spero ardentemente in un ritorno all'approfondimento, all'analisi e alla dialettica. Necessario in un settore, come il mio, dove 3 anni e mezzo sono a velocità luce e ci vuole gente che metta ordine alle idee.
Ma anche perché, in fondo, sono un romantico. Bentornati.
Una novità: le foto a corredo saranno solo mie. Le trovate anche su Facebook, Instagram e Twitter. Per ribadire il concetto.
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venerdì 10 luglio 2015
Apple, il Wrestling marketing e le PR ai tempi dei social media
Sto finendo i miei 15 giorni a casa in malattia (niente di grave, tranquilli) e ho potuto leggere molto più del solito. Ho avuto una sensazione: Apple sta cambiando strategia di marketing e comunicazione. Ne è nato un post lungo.
L'azienda che ha inventato il mistake marketing sta reinventando le care, vecchie PR al tempo dei social network. Riassumo: sta lanciando Apple Music per far ascoltare la musica in streaming e la cantante Taylor Swift si indigna (molto, troppo educatamente) perché pare che non le paghino i diritti per i primi tre mesi, gratuiti per gli utenti. Apple risponde molto, troppo velocemente che accoglie la richiesta della cantante e lo fa via Twitter (non con un comunicato stampa, per la prima volta) con le parole di un executive (non di Tim Cook). Cose impensabili ai tempi di Steve Jobs. A pensar male si fa peccato ma ne escono tutti troppo bene. Tutto premeditato? No, dai, il complottismo estivo no.
Poi leggo un'altra news: Rdio, un servizio che offre streaming di musica come Spotify, riprende una storica pagina pubblicitaria di Apple di 34 anni prima per "augurare il benvenuto" ad Apple stessa in quel mercato. Sottolineando che non innova ma è follower. Come ne esce Apple? Come un'azienda innovativa da 34 anni che ora si butta su un mercato nuovo con tutti i rischi del caso (facendo dimenticare, per un attimo, che fa soldi a palate vendendo smartphone e tablet costosissimi). Non male, mi pare. Anche questa potrebbe essere una cosa studiata a tavolino? Tutto legittimo, eh.
In un periodo dove i social network sono brutte gatte da pelare, la società potrebbe aver adottato questo schema: entro in scena, mostro i muscoli (Apple Music ma vale anche per Apple Watch), vado in difficoltà (sono un'azienda normale), attendo il momento giusto (chiamo a raccolta i miei supporter e testimonial) e poi ne esco con estrema signorilità (accolgo richieste e accetto l'ironia). Fantasia? Nel wrestling, dove lavorano geni di marketing e storytelling, è lo schema usato da sempre. Il grande limite è che tutti gli attori devono operare sotto una regia coordinata. Non proprio uno scherzo.
Ecco alcuni fatti, non sensazioni. Katie Cotton, la storica PR Chief di Apple (e probabile mente del mistake marketing), ha lasciato Apple l'anno scorso. Al suo posto c'è Steve Dowling che, insieme a Tim Cook, gestisce la comunicazione. Un approccio diverso dal precedente, meno chiuso, più aperto e collaborativo. Apple comunica anche al mondo della musica e della moda, non solo al mondo IT e tecnologico. Non solo, coinvolge star del settore non solo come testimonial ma come esperti nei propri progetti (un esempio? Trent Reznor).
Quindi niente complotti, solo un cambio di strategia e di passo. Non sono l'unico a pensarla così.
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L'azienda che ha inventato il mistake marketing sta reinventando le care, vecchie PR al tempo dei social network. Riassumo: sta lanciando Apple Music per far ascoltare la musica in streaming e la cantante Taylor Swift si indigna (molto, troppo educatamente) perché pare che non le paghino i diritti per i primi tre mesi, gratuiti per gli utenti. Apple risponde molto, troppo velocemente che accoglie la richiesta della cantante e lo fa via Twitter (non con un comunicato stampa, per la prima volta) con le parole di un executive (non di Tim Cook). Cose impensabili ai tempi di Steve Jobs. A pensar male si fa peccato ma ne escono tutti troppo bene. Tutto premeditato? No, dai, il complottismo estivo no.
Poi leggo un'altra news: Rdio, un servizio che offre streaming di musica come Spotify, riprende una storica pagina pubblicitaria di Apple di 34 anni prima per "augurare il benvenuto" ad Apple stessa in quel mercato. Sottolineando che non innova ma è follower. Come ne esce Apple? Come un'azienda innovativa da 34 anni che ora si butta su un mercato nuovo con tutti i rischi del caso (facendo dimenticare, per un attimo, che fa soldi a palate vendendo smartphone e tablet costosissimi). Non male, mi pare. Anche questa potrebbe essere una cosa studiata a tavolino? Tutto legittimo, eh.
In un periodo dove i social network sono brutte gatte da pelare, la società potrebbe aver adottato questo schema: entro in scena, mostro i muscoli (Apple Music ma vale anche per Apple Watch), vado in difficoltà (sono un'azienda normale), attendo il momento giusto (chiamo a raccolta i miei supporter e testimonial) e poi ne esco con estrema signorilità (accolgo richieste e accetto l'ironia). Fantasia? Nel wrestling, dove lavorano geni di marketing e storytelling, è lo schema usato da sempre. Il grande limite è che tutti gli attori devono operare sotto una regia coordinata. Non proprio uno scherzo.
Ecco alcuni fatti, non sensazioni. Katie Cotton, la storica PR Chief di Apple (e probabile mente del mistake marketing), ha lasciato Apple l'anno scorso. Al suo posto c'è Steve Dowling che, insieme a Tim Cook, gestisce la comunicazione. Un approccio diverso dal precedente, meno chiuso, più aperto e collaborativo. Apple comunica anche al mondo della musica e della moda, non solo al mondo IT e tecnologico. Non solo, coinvolge star del settore non solo come testimonial ma come esperti nei propri progetti (un esempio? Trent Reznor).
Quindi niente complotti, solo un cambio di strategia e di passo. Non sono l'unico a pensarla così.
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venerdì 19 giugno 2015
Juventus, un problema d'immagine (non solo suo)
Immagini, calcio e polemiche. No, non è la solita storia di tifoserie e di violenze ingiustificate, qui si tratta di un problema di immagine, anzi di un'immagine. La Juventus ha dato inizio alla propria campagna abbonamenti con una campagna di comunicazione (sì, è tutta campagna). Questa è incentrata su una foto ad effetto, quella che si vede qui sopra. Bene, é venuto fuori che la stessa immagine, o quasi, era stata usata da una squadra spagnola di terza divisione circa due mesi fa. E son partite le polemiche su plagio e affini. Spiega tutto molto bene Michele Boroni qui: la foto, la stessa, è stata presa legittimamente da entrambe le società (o dai loro partner) da un portale specializzato (Shutterstock). Infatti il Badajoz, la squadra spagnola, l'ha presa benissimo.
Il problema è che spesso quelle foto sono belle e "parlano" ma non nella nostra lingua e con la nostra voce aziendale. Quante foto della stessa modella vediamo sul catalogo di prodotti di un'impresa e, allo stesso tempo, su un sito di incontri? Quante riunioni di manager 30enni di ogni etnia vediamo in centinaia di siti di Pmi nostrane (fossero verosimili sarei contentissimo, sia chiaro)? Tante, troppe. Foto che parlano ma non comunicano niente della nostra unicità, anzi.
Shutterstock non fa nulla di male, soddisfa una necessità. Il problema sta in chi compra, in chi non spende tempo e risorse per provare a parlare davvero ai propri clienti. L'alta qualità delle foto è un limite, ma per provare basta una Reflex o un iPhone. La vera questione è questa: non si sa cosa dire, allora si fa come gli altri. Non si perde due ore a sperimentare. Non si coinvolge un fotografo freelance per vedere l'effetto che fa. Perché no?
Care aziende, sperimentate! Shutterstock e i suoi simili sono sempre lì. Al massimo si rischia di dover giocare un'amichevole con una squadra di terza serie spagnola. Avere rispetto dei nostri utenti e dei nostri clienti, di chi ci guarda e ci legge, quello sì che è difficile.
P. S. Nell'azienda dove lavoro, le foto sono tutte nostre, senza alcuna eccezione. L'ispirazione l'abbiamo presa da altri, certo, però l'esecuzione è tutta nostra, con i difetti e le imperfezioni. Noi siamo quelli lì.
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Ciao @juventusfc, non ti preocupare, tutto bene con una partita di calcio in Badajoz tra bianconeri. Saluti. (2/2) pic.twitter.com/jRvuddeirK
— C.D. Badajoz (@CDBadajoz1905) 16 Giugno 2015
Qual è allora la questione? Le foto spiegano più di mille parole, si dice, ed è verissimo. Il problema è che fare belle foto, quelle che "parlano" da sole, non è affatto facile. E un fotografo costa. Ci sono portali che hanno migliaia di immagini a portata di mano, per pochi euro. Problema risolto e tutto a posto quindi? Non proprio.Il problema è che spesso quelle foto sono belle e "parlano" ma non nella nostra lingua e con la nostra voce aziendale. Quante foto della stessa modella vediamo sul catalogo di prodotti di un'impresa e, allo stesso tempo, su un sito di incontri? Quante riunioni di manager 30enni di ogni etnia vediamo in centinaia di siti di Pmi nostrane (fossero verosimili sarei contentissimo, sia chiaro)? Tante, troppe. Foto che parlano ma non comunicano niente della nostra unicità, anzi.
Shutterstock non fa nulla di male, soddisfa una necessità. Il problema sta in chi compra, in chi non spende tempo e risorse per provare a parlare davvero ai propri clienti. L'alta qualità delle foto è un limite, ma per provare basta una Reflex o un iPhone. La vera questione è questa: non si sa cosa dire, allora si fa come gli altri. Non si perde due ore a sperimentare. Non si coinvolge un fotografo freelance per vedere l'effetto che fa. Perché no?
Care aziende, sperimentate! Shutterstock e i suoi simili sono sempre lì. Al massimo si rischia di dover giocare un'amichevole con una squadra di terza serie spagnola. Avere rispetto dei nostri utenti e dei nostri clienti, di chi ci guarda e ci legge, quello sì che è difficile.
P. S. Nell'azienda dove lavoro, le foto sono tutte nostre, senza alcuna eccezione. L'ispirazione l'abbiamo presa da altri, certo, però l'esecuzione è tutta nostra, con i difetti e le imperfezioni. Noi siamo quelli lì.
venerdì 29 maggio 2015
Mobile first? Forse abbiamo avuto troppa fretta
Negli ultimi mesi, meglio anni, il mantra per chiunque volesse consigliare le aziende nella loro promozione online è stato: mobile first. Riassunto breve: tutti abbiamo uno smartphone, quasi tutti abbiamo un tablet, a breve i PC saranno morti e sepolti, facciamo contenuti e contenitori adatti ai piccoli schermi. Tutto giusto, no? Non esattamente. Stanno nascendo alcune riflessioni, come questa che ritengo molto interessante e che va più in profondità. Oltre al first c'è di più. Mi focalizzo su un punto:
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It’s true that for many people their mobile screen is their primary screen most of the time. What’s not true is that this is the only screen that matters.Non è tanto importante lo schermo che guardo (qui lo smartphone vince facile) ma lo schermo che conta per riflettere e decidere. Guardiamo l'immagine qui sotto: stiamo 8-10 ore al giorno davanti a un PC, contro le 2/3 ore davanti a un tablet o uno smartphone.
Siamo così sicuri che, per decidere su tante cose della nostra vita, lo smartphone o il tablet siano l'unica cosa che consultiamo? Magari sì, ma intanto riflettiamoci su.
Un dato di fatto: si accede molto di più al Web con i device mobili. I dati sono sotto i nostri occhi, come lo sono i nostri smartphone, primi testimoni di questo fatto. Ma quello che non ci dicono è che l'accesso da PC non cala, rimane costante. Mobile Isn’t Killing the Desktop Internet, insomma. La torta cresce, smartphone e PC non si rubano le fette tra loro.
Per questo, per comunicare online, la cosa fondamentale è il progetto che ci sta dietro, non il dispositivo che usano le persone per accedere ai nostri contenuti. Un progetto che ci fa capire chi ci guarda e cosa interessa a chi ci legge. Un obiettivo molto più difficile da realizzare rispetto a un sito "mobile first". E qui sta il punto.
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mercoledì 29 aprile 2015
Quattro lezioni di marketing per le PMI
Le PMI possono imparare a "fare marketing" dalle grandi aziende? Un interessante articolo pubblicato da Forbes sostiene che è possibile, anzi che dovrebbero farlo. Condivido. Ovviamente bisogna adattare quelle idee a scenari diversi, con budget e obiettivi più limitati ma, non per questo, meno significativi. A mio parere, l'ordine indicato dall'articolo può essere adattato meglio allo scenario italiano "rimescolando" i vari punti. Si tratta di un punto di vista che potrebbe essere un buon inizio di un buon dibattito.
- Pianificare le notizie da veicolare: le grandi aziende hanno team dedicati, strumenti importanti, budget ad hoc. Le PMI però possono decidere di programmare gli annunci da fare, dando modo e tempo ai propri dipendenti (che al 95% non "veicolano contenuti" per mestiere) di preparare articoli e news interessanti. Questi annunci possono cogliere le opportunità di visibilità offerte da scadenze normative o eventi, che hanno date prevedibili. In più, si genera una costanza di comunicazione che può portare solo benefici alla credibilità aziendale.
- Cercare collaborazioni e partnership: le aziende medio/piccole in Italia sono abituate a vedersi "sole contro il mondo" e a guardare le altre imprese come veri e propri nemici, non come normali avversari che perseguono normali obiettivi di business. In realtà esistono opportunità di collaborazione che potrebbero portare benefici a entrambi i partner, anche solo iniziando a fare quattro chiacchiere su progetti specifici. Solo che si ha paura "che ci rubino quelle idee mirabolanti che non abbiamo ancora ben chiare neanche noi".
- Dotarsi degli strumenti giusti con costi giusti: oggi esistono software a basso costo che permettono a una PMI di fare campagne di direct marketing, gestire il CRM e analizzare nuove opportunità di business in modo efficace e completo (vedi qui). Spesso si pensa che siano strumenti sovradimensionati. Spesso, per questo motivo, neanche li si valuta con attenzione. Spesso si sbaglia.
- Creare un network di media che dia visibilità ai prodotti: spesso le aziende pensano che si possa andare sui media solo pagando cifre esorbitanti in pubblicità e redazionali. In realtà siti e riviste specializzate cercano continuamente buoni contenuti da riprendere, pubblicare e analizzare. Il problema sta spesso nel fatto che non si creano "buoni contenuti" ma articoli autoreferenziali e ripieni di copia e incolla tratti dalle brochure commerciali. Diciamolo insieme: tranne noi, chi li pubblicherebbe?
L'articolo di Forbes cita altri due punti, ossia automatizzare la gestione dei social media e portare avanti iniziative per far si che i nostri partner/clienti parlino di noi. Io consiglierei a chi legge queste righe a fare una riflessione sui primi quattro punti. Sarei già contento.
mercoledì 25 marzo 2015
Dalla carta al digitale, un'evoluzione con qualche sorpresa
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La "carta digitale" (qui immagine originale) |
La rivoluzione digitale si sta compiendo sotto i nostri occhi: la carta sembra ormai obsoleta, a rischio estinzione, con l'affermazione di ebook e testate online adatte anche a tablet e smartphone. Per non parlare degli onnipresenti social network, nuova grande passione anche dei giornalisti della vecchia scuola. La realtà, come sempre accade, riserva sempre qualche sorpresa e rende meno nette queste vittorie annunciate. Perché le persone, ossia le variabili più complesse e imprevedibili di tutto questo discorso, non sempre seguono quello che preannunciano tanti esperti nelle loro bellissime presentazioni. A proposito, sapevate che pure Internet scomparirà?
Sono uscite alcune ricerche che sottolineano risultati in parte sorprendenti visto che siamo abituati a leggere che il digitale vince sempre e comunque sul quel "materiale igroscopico, costituito da materie prime prevalentemente vegetali, unite per feltrazione ed essiccate" che è la carta. Ad esempio, pare che leggendo un libro cartaceo le informazioni restino più impresse che usando un PC, un tablet o un ebook reader (punto di vista personale: non ho avuto questa percezione ma può essere). Inoltre, se si devono prendere appunti, la carta è migliore perché si ha più comprensione dei contenuti. Sul secondo risultato devo dire che sono piuttosto d'accordo, per esperienza personale: su carta i concetti sono più creativi, più miei, seguono la mia logica e le relative connessioni, non quelle di un software per testi fatto da altri. Certo, gli ibridi sono già tra noi ma non divaghiamo.
Parlando di rivoluzione digitale e di "scomparsa della carta", non si può non citare le previsioni e le analisi legate al mondo dei media. Il problema è che se si deve pensare a un nuovo modello di giornale che vada oltre il cartaceo, specialmente se si vogliono ottenere ricavi, è bene prefigurarsi bene la strada da seguire e i concetti da capire. Ad esempio, è vero che Facebook è una piattaforma molto diversa da un sito Web o un quotidiano cartaceo ma il giornale è sempre quello e deve essere coerente con sé stesso. Sta qui il difficile. Pare che al New York Times lo sappiano bene mentre al Messaggero abbiano opinioni diverse. Non è una strada facile, solo ora, dopo anni di parole (vedi qui, anno 2013) sta emergendo qualcosa di davvero concreto e sostenibile.
Stiamo a vedere come evolve tutto il discorso, al di là di presentazioni, eventi e ricerche. Perché vedere cose come la carta digitale dell'immagine sopra fa restare a bocca aperta, ma bisogna usarle quelle cose e qui è tutta un'altra storia. Da sempre ritengo che la carta abbia grandi qualità (semplice, concreta, durevole) e che non sia alternativa al digitale, almeno non nel medio periodo. Perché è dura a morire.
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venerdì 24 ottobre 2014
Il terrorismo della cioccolata
Come può pensare che una persona media possa farsi condizionare dall'acquisto di una barretta di cioccolata se questa si chiama come un'organizzazione islamica che controlla un territorio tra Iraq e Siria? E se domani nasce l'Islamic Brave Movement - IBM dobbiamo porci un problema di acquisto di un server? Ripeto, cambiare la denominazione di un'azienda quasi centenaria per motivazioni come queste la ritengo, oltre che un'idea poco strutturata, un danno di immagine non da poco. C'è da fare un rebranding totale con queste motivazioni? No, semplicemente.
Business is business, amici belgi. Tenete duro, tenete il nome e vedrete che festeggerete i 100 anni senza più patemi tra qualche anno.
(Photo credits: ISIS Chocolates)
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lunedì 24 febbraio 2014
Comunicare (e vendere) con gli sticker
Qualche giorno fa parlavo con un mio collega dell'affare Facebook-Whatsapp, principalmente dei "19 miliardi di dollari". Poi il discorso si è spostato all'utilizzo delle emoticon all'interno dei messaggi di chat, battezzandolo come "una cosa che fanno tantissimo i ragazzi". Aprendo poi il mio profilo Whatsapp, mi sono reso conto anche di quanto io, non proprio un ragazzino, li usi in modo molto più esteso rispetto a quanto mi rendessi conto. Perché? Sono immediati, basta un tap, senza scrivere niente, per commentare qualcosa in modo molto più veloce ed efficace di tanti giri di parole. Ovvio, non sostituiscono le frasi ma per farsi sentire e dire la tua in una chat sono ideali.
Oggi leggo un bel post di Marco Massarotto e scopro che una piattaforma di messaggistica istantanea ha poggiato proprio sugli emoticon, anzi sulla loro evoluzione, una buona parte del suo modello di business. Line, una specie di Whatsapp giapponese molto in crescita, fa molti soldi con la vendita degli sticker, di fatto emoticon evoluti e più complessi che entrano a fare parte integrante della conversazione stessa. Alcuni sono gratuiti, altri si comprano o noleggiano per un tempo limitato. In più, Line propone alle aziende stickers personalizzati per il loro brand o il loro settore di business, in modo tale da usarli per promuovere i propri prodotti o servizi (guardate qui sotto, ad esempio).
Un modello interessante quindi perché non poggia sulla vendita dell’app (scelta complicata per tutti, come appare evidente) né sulla pubblicità. Certo, ci sono anche servizi aggiuntivi, quali giochi e applicazioni per l'intrattenimento, che rendono sostenibile il modello proposto da Line. Forse, ad oggi, non si vive di soli sticker e bisogna vedere se questi, molto utilizzati in Asia, lo saranno altrettanto nei paesi occidentali. Quel che è certo è che battezzarli come "cose per ragazzi" forse è riduttivo, specialmente per quelli della mia generazione. Stiamo a vedere, anche perché il tema "Whatsapp e dintorni" è caldo, come potete leggere qui sotto.
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Oggi leggo un bel post di Marco Massarotto e scopro che una piattaforma di messaggistica istantanea ha poggiato proprio sugli emoticon, anzi sulla loro evoluzione, una buona parte del suo modello di business. Line, una specie di Whatsapp giapponese molto in crescita, fa molti soldi con la vendita degli sticker, di fatto emoticon evoluti e più complessi che entrano a fare parte integrante della conversazione stessa. Alcuni sono gratuiti, altri si comprano o noleggiano per un tempo limitato. In più, Line propone alle aziende stickers personalizzati per il loro brand o il loro settore di business, in modo tale da usarli per promuovere i propri prodotti o servizi (guardate qui sotto, ad esempio).
@robven Ouch! Anche se non intrinsecamente legato all'acquisto da parte di Facebook. @marcomassarotto
— Andrea Contino (@Contz) 24 Febbraio 2014
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venerdì 14 febbraio 2014
I minori sui media: cinque riflessioni quotidiane
Leggo un bell'articolo di Wired sulla scelta di una mamma di non pubblicare le foto di sua figlia su Facebook, Twitter o altri luoghi. Se mi leggete un po', sapete che la questione delle immagini dei minori è un mio pallino da un po' (vedete qui). Ritengo che ognuno con le sue foto ci fa quello che vuole, e questo vale anche per quelle dei figli, di cui i genitori tutelano i diritti. Proprio per quest'ultimo motivo, non voglio dare consigli, solo qualche spunto di riflessione con cinque semplici domande:
- Siamo sicuri di conoscere bene le nostre impostazioni di privacy sui vari social network?
- Sappiamo che le foto che pubblichiamo su Facebook appartengono a Facebook che può farci, più o meno, quello che gli pare?
- Siamo sicuri che i nostri figli approveranno, quando capiranno cosa vuol dire, la nostra scelta di pubblicare online le loro foto in modo massivo e in totale buona fede?
- Siamo sicuri di essere così diversi dagli adolescenti che talvolta critichiamo per il fatto che "mettono tutto online"?
- Siamo sicuri di essere consapevoli del nostro ruolo di produttori di contenuti e di informazioni di cui abbiamo la responsabilità?
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giovedì 12 dicembre 2013
La verità attraverso lo schermo
Alla fine, cercare le informazioni su Internet è sempre un'esperienza molto personale e soggettiva e il giudizio di cosa si trova dipende da tanti fattori. Tuttavia, c'è un elemento semplice e chiaro che in molti casi è oggettivo: lo scostamento tra la realtà e la sua percezione attraverso lo schermo. Cosa voglio dire lo spiego subito, un esempio di vita vissuta. La seconda volta che sono andato a New York, anni fa, ho prenotato una camera in un alberghetto al centro del Greenwich Village: camere non enormi ma parevano belle e nuove. Arrivato lì, ho scoperto che le immagini appartenevano alle uniche due camere ristrutturate, il resto erano stanze pessime. Dormito lì, cambiato hotel e allo stesso prezzo ne ho trovato uno molto bello, consigliato da un amica. Risultato: passaparola batte sito Internet 4-0.
La cosa si è ripetuta altre volte, anche se non con lo stesso, drammatico scostamento tra percezione e realtà. Mi sono sempre chiesto il perché. Ok, mi freghi una volta poi io non torno più e non ne parlo benissimo. Ti conviene? Sicuro sicuro? Il problema comunque non è il sito Internet ma chi lo fa, lo riempie, gli da vita. Altro caso di vita vissuta. Ho cercato su Google un bed & breakfast per una notte fuori, ne ho trovato uno nel quale le camere sembravano davvero belle in rapporto al prezzo. Il dubbio c'era: saranno davvero così? Tuttavia ho prenotato, sono andato là e il sito rispecchiava esattamente quello che era la realtà. Anzi, forse la camera vera era ancora meglio. Belle stanze avevano prodotto belle foto ma assolutamente realistiche e reali. Risultato? Cliente contento che ne parla molto in giro e che ci tornerà.
Quello che penso è che quello che trasmettiamo su Internet deve avere un fondo, e bello importante, di verità (vedi anche qui). Puoi abbellire, smussare, ordinare, illuminare quello che vuoi ma, alla fine, devi far trovare quello che le persone si aspettano di trovare. Lo stesso discorso vale per l'immagine di una persona, di un prodotto e, anche, di un servizio. Quante immagini di modelle/i vediamo in un sito aziendale, con finte riunioni, finti call center, finti dipendenti? Quello che mi chiedo è: perché tu, impresa, vuoi nascondermi quello che sei davvero? Preferisco vedere il tuo operaio o la tua addetta stampa al lavoro, anche se non sono biondi, magri e perfetti rappresentanti di una perfetta società multiculturale. Ci dobbiamo fidare di te e di quello che vendi, no?
Ah, volete sapere quali erano i due posti citati? Vi dico solo il bed & breakfast: se volete fare un weekend sulla Riviera del Brenta, tra Padova e Venezia, il posto vale la pena. E rispondono alle mail in 10 minuti. Tutto torna.
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giovedì 5 dicembre 2013
The game of drones
Quando si pensa a un particolare progetto di comunicazione, su centinaia di post su Internet si trova la ricetta giusta per ottenere successo, per raggiungere i propri obiettivi di marketing e di vendita (due cose diverse, sempre utile sottolinearlo) in modo organizzato e coerente. A livello generale, gli ingredienti possono essere riassunti così:
- Avere un progetto chiaro, delineato e condiviso, con tempistiche di progettazione e realizzazione molto definite;
- Scegliere una o più notizie di grande impatto sia verso i propri clienti attuali sia verso quelli potenziali, riguardanti un prodotto o un servizio davvero innovativo;
- Spingere un aspetto importante della propria unique selling proposition, ossia quella caratteristica che distingue la mia azienda da tutte le altre in modo oggettivo;
- Valutare di coinvolgere sia i media tradizionali (giornali, TV, radio) che i social media, in modo diverso perché seguono logiche diverse ma, allo stesso tempo, coordinato;
- Definire obiettivi di breve e medio/lungo periodo molto precisi e misurabili.
Per fortuna, talvolta accade che ci siano casi reali da cui attingere: uno, recentissimo, è quello dei droni di Amazon (vedi qui e qui). Guardiamo al progetto di comunicazione: chiarissimo con tempistiche di realizzazione legate a una scadenza molto precisa, il Cyber Monday. Una notizia di enorme impatto connessa in modo evidente a uno dei punti di forza principali della società, ossia l'efficienza delle loro consegne. Una grande visibilità data sia dai media tradizionali (che presuppone una gestione delle media relations davvero efficace a livello internazionale) che dai social media (che presuppone una precisa conoscenza degli utenti e dei loro gusti a livello di news). Obiettivi raggiunti nel breve periodo, senza alcun dubbio, e vedremo nel lungo. Una cosa sola, e molto grande, non mi è piaciuta: in relazione alla certificazione FAA, si è scelto, consapevolmente, di dire una solenne bugia (vedi qui un parere italiano sulla cosa). Un punto in meno sulla pagella.
Siamo tutti d'accordo, Amazon non è una PMI, è una macchina da guerra di grandi dimensioni. Ma spesso le grandi dimensioni possono esporre a molti più rischi quando ci si muove su progetti così ampi. Per questo, è bene guardare agli esempi positivi sempre e comunque: rifletterci su non può fare male, in ogni caso.
(Photo credits: http://tuttacronaca.wordpress.com/tag/international-news/).
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giovedì 28 novembre 2013
Meno tweet, più qualità: mi do una regolata
Da lunedì nuova policy personale di uso di Twitter: meno tweet, più qualità. Ascolto sempre quello che mi dicono persone che stimo.
— Riccardo Polesel (@riccardopolesel) 27 Novembre 2013
Sostengo da sempre l'idea che la facilità di pubblicazione di qualsiasi cosa sui social media possa essere controproducente nel lungo periodo. La definirei "la sindrome di whatsapp": è gratuito, semplice da usare e veloce, troppo facile abusarne (come sa il mio povero telefono costretto a vibrare tantissimo alcune sere). Questo può andare a discapito della qualità delle informazioni che si veicolano verso chi ci segue. Ma c'è un altro aspetto: questa abbondanza di aggiornamenti eterogenei e diversificati può dare una percezione fuorviante di quello che siamo e quello che vogliamo dire verso l'esterno. Me l'ha fatto notare una persona che stimo: tutte quelle news davano l'idea che pubblicassi, pur in buona fede, tutto quello che mi passava in mente, senza filtri critici né riflessioni sufficientemente approfondite. Non era così, mi sono detto di getto. Pensandoci su, rileggendomi a freddo e leggendo altre riflessioni, non ho potuto non dargli ragione.Per questo motivo, visto che parlo spesso dell'importanza delle policy per le aziende nella comunicazione, mi do io una policy, un'autoregolamentazione sulla mia attività sui social media. Voglio dare più qualità nelle cose che dico, scrivo e comunico, quello che ho sempre cercato di fare sul blog (i post esigono tempo, una notizia concreta e più di una riflessione). Per questo, mi do queste semplici regole:
- Limitare i miei aggiornamenti di stato, selezionando accuratamente le cose che scrivo e dandomi un limite massimo giornaliero (al massimo 5 tweet e 2 aggiornamenti di stato su Facebook e Google+, se in alcuni giorni non ho niente da dire va bene così).
- Prendermi un tempo minimo di riflessione: pubblicare la mattina presto dopo aver riflettuto la sera oppure pubblicare la sera dopo averci pensato durante la giornata, davanti a un caffè o in un momento di pausa dal lavoro.
- Puntare alla massima qualità: ogni cosa che scrivo deve essere potenzialmente utile per chi mi legge, ogni foto che pubblico deve avere un livello accettabile di creatività.
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mercoledì 20 novembre 2013
Cinquantatré idee per un sito web
Tante volte mi chiedono "ma come è fatto un bel sito?" e io rispondo con vari esempi illustri, come Apple ad esempio. Però Apple e gli altri esempi illustri hanno budget stellari per la comunicazione, essendo aziende molto grandi. Allora ne propongo altri (vedi qui). Se siete un'azienda con meno di 50 dipendenti e due prodotti di punta, oggi ne ho uno nuovo da far vedere: http://www.fiftythree.com/
L'ho navigato per 10 minuti, in modo semplicissimo ma quasi trattenendo il fiato. I prodotti (due, Paper e Pencil) sono descritti in modo affascinante, con un'integrazione tra testi, immagini e video praticamente perfetta. Tutto è semplice. Volete saperne di più dei prodotti? Pagine con scroll lungo ma non infinito che vi fanno vedere tutto. Volete sapere quanto costano? Scritto tutto, nero su bianco. Volete comprarli? Mettete nel carrello e via. Certo, è un'azienda di cui parla Chris Dixon e che ha vinto barcate di premi compreso quello di "app of the year", non sono certo gli ultimi arrivati. Ma se volete spunti e idee su come promuovere i vostri prodotti, guardate loro come fanno rendere "carta" e "matita". Incantevole.
Ah, un particolare: l'applicazione non c'è per Android, solo per iPad. Lascio a voi le riflessioni.
mercoledì 13 novembre 2013
Il tester della strada - la recensione
Come anticipato qualche giorno fa, è quasi concluso il mio esperimento quale "tester della strada" di un prodotto di punta di Nokia, ossia il Lumia 1020, quello con la fotocamera da 41 Megapixel. L'opinione che mi è stata richiesta dall'azienda l'ho fatta qui (come da accordi), ho cercato di essere il più obiettivo possibile e di darmi delle regole. Se volete vedere le foto, oltre al tramonto qui sopra, cercate #testerdellastrada su Twitter (vedi qui). Se all'azienda non piacerà quello che ho scritto (ma non credo accadrà), non farò altri test ma, ripeto, era una piccola esperienza che volevo fare e l'ho fatta, per cui no problem. Se a chi mi legge non piacerà questo post e lo definirà "una marchetta anche se fatta bene", pazienza, come sopra: la volevo fare, ho spiegato bene come e perché, l'ho fatta e pazienza.
Non voglio fare una recensione del prodotto in sé, non sono un tecnico per cui è inutile. Ne farò una dal punto di vista del marketing e della comunicazione del prodotto Lumia 1020. Nokia ha puntato forte sulla fotocamera "da 41 megapixel", in parte condivido la scelta. Deve differenziarsi dagli altri produttori e, visto il successo delle foto online (basti pensare a Instagram e vari cloni), è una scelta condivisibile. Ma c'è un problema: all'utilizzatore medio, quello della strada, non serve avere una bomba del genere. Gli basta avere una buona fotocamera, una buona app per scattare la foto (con messe a fuoco lavorabili anche da chi non è esperto, come si riesce con Nokia Pro Cam dopo qualche esperimento) e una buona app per lavorare le immagini (diciamo Instagram o sue evoluzioni). Queste caratteristiche le può avere anche su un telefono di fascia media di prezzo. Con 700 euro uno si compra una buona reflex entry level e un buon Lumia. Così come con il costo di un Microsoft Surface ci si compra un iPad mini (per non dire un Nexus 7 o un Kindle Fire HDX) e un discreto notebook.
La partita si giocherà sull'equilibrio di più fattori nel prossimo futuro. Non basta avere il top player in attacco se non hai due centrali difensivi all'altezza (pensate a una delle due squadre di Milano). Windows Phone è un ottimo sistema operativo e sui prodotti di fascia media (200/300 Euro) surclassa alla grande gli omologhi con Android (ne uso uno). Bisogna puntare su questa fascia e lo dice anche gente più esperta di me: un buon Lumia da 250 Euro, con una fotocamera da 10 Megapixel, due belle app per scattare e pubblicare foto. Ma non solo. Bisogna lavorare tanto sulle applicazioni: non è possibile che, ad oggi, non si sia ancora Instagram, non è accettabile. E se quando ce l'hai lo presenti come una novità, hai una strada molto stretta davanti a te.
Ringrazio Nokia per l'opportunità e per la velocità di risposta alle mie mail ("ma quando arriva il corriere?" e "ma come devo fare?") e ai miei tweet. D'ora in poi vado avanti con i miei post spontanei (perché leggo buoni consigli). Se cambio idea, vi avviso.
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martedì 12 novembre 2013
L'importanza delle piccole cose
La relazione con i propri clienti si gioca davvero sulle piccole cose. Non sugli slogan delle campagne pubblicitarie, non sul numero di follower su Twitter, non sulla quantità di informazioni che si danno. Si gioca su cose come la precisione, il rispetto e l'attenzione verso chi ci ascolta. Esempio: un grande brand di software organizza un Webinar gratuito per presentare una nuova suite. Una cosa normalissima, quasi banale. Bene, accade che non funzioni l'audio: strano, vista l'importanza dell'azienda e il settore dove opera, ma sono cose che accadono. Come viene gestita questa piccola crisi?
C'è un sacco di gente connessa che si è ritagliata uno spazio apposta dal proprio lavoro e aspetta news. Non si sente e il video va a scatti. Silenzio interminabile a livello di chat da parte degli organizzatori. La gente, che ha speso un bel po' di soldini per quei prodotti, inizia ad arrabbiarsi. Riavviano il PC, staccano e attaccano le casse, le provano tutte ma il problema non è loro. Silenzio da parte di chi dovrebbe parlare, in ogni senso. Dopo che la chat sta diventando un massacro, la società annuncia (finalmente) che la chat sarà rimandata. La cosa strana è che la gente connessa spesso ringrazia dell'informazione e se la mette via. Incredibile, no? Ma il bello deve ancora venire. Dopo un po' viene annunciato, sempre in chat, che la nuova data verrà comunicata su Facebook (!). "E chi non ha Facebook?" la ovvia domanda. Riparte l'incazzatura, giustamente. "Ci avete tenuto qui 25 minuti e ora non ci date neanche le informazioni?" il commento che sintetizza il tutto.
Non importa se sei un brand mondiale, il rispetto per le persone che comprano i tuoi prodotti deve essere sempre al primo posto, anche se organizzi una cosa semplice che è andata bene altre 1.000 volte. Le persone ti giudicheranno per quella volta che andrà male. Prima o poi, accade che un piccolo ingranaggio della macchina si rompe. Il problema è che inizia a funzionare male tutto il resto.
(Photo credits: http://lastregadelnord.files.wordpress.com/2011/10/ingranaggio.jpg)
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lunedì 11 novembre 2013
Il tester della strada
Qualche giorno fa avevo scritto un post sulla credibilità relativamente alla recensione di prodotti e eventi. Il caso, e Facebook, hanno voluto che ora sia io a trovarmi nel ruolo di tester di uno dei prodotti dei quali accennavo. Se mi seguite su Twitter, avrete visto qualche foto con l'hashtag #testerdellastrada: l'ho creato per sottolineare che le mie opinioni riguardano un preciso caso, ossia che una società produttrice di smartphone mi ha mandato un suo telefono di gamma alta in prova per avere un mio giudizio. Non l'ho comprato, non mi è stato regalato, mi è stato semplicemente spedito per un test perché ero curioso di provare quest'esperienza. Su questo prodotto scriverò a breve, ma sempre sottolineando perché lo sto facendo e che è un post sincero ma non spontaneo (diversamente da tutti gli altri).
Detto questo, mi sono dato queste 5 piccole regole di correttezza, sicuramente migliorabili (lo sono sempre):
- Dire sempre a chi legge cosa sta accadendo e perché accade all'inizio del testo (non in altri luoghi sociali, troppo comodo): l'azienda mi ha mandato un prodotto e io lo sto giudicando, una scelta per reciproco vantaggio chiara e semplice. Io uso un prodotto nuovissimo, l'azienda può dare visibilità alla mia opinione in merito.
- Non essendo un tecnico, non fingere di dare giudizi oggettivi e obiettivi sulle caratteristiche del prodotto, dire semplicemente come mi trovo da utilizzatore. Darò le mie opinioni, positive o negative che siano, magari prendendo qualche cantonata ma assicurando sempre correttezza e sincerità.
- Inserire nei miei giudizi sempre l'hashtag #testerdellastrada (come "uomo della strada", ossia uno senza particolarità peculiari che ha chiesto di giudicare una cosa e gli hanno detto che andava bene).
- Creare, quando possibile, delle chiacchierate su quello che sto facendo, sia online che offline. Voglio raccontare un'esperienza curiosa, che forse non ripeterò perché mi piace essere libero di scrivere quello che mi pare quando mi pare ma che ho scelto io di fare.
- Restituire il prodotto all'azienda produttrice, perché l'accordo è chiarissimo in questo senso e perché lo farei comunque.
Ci sentiamo tra qualche giorno, quando scriverò un post con un giudizio su quel prodotto.
(Photo credits: Gapingvoid)
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martedì 5 novembre 2013
Pasta e pomodoro
Due notizie recenti portano alla ribalta due aziende molto conosciute, una produttrice di pasta e l'altra di pomodori, con iniziative e obiettivi molto diversi. Ho un paio di considerazioni da fare su ognuna delle due.
Iniziamo dalla pasta. Un marchio molto conosciuto ha dovuto gestire un crisis management piuttosto complesso qualche settimana fa: ieri ha annunciato che sta portando avanti iniziative su "Diversità e Inclusione" (con le maiuscole, bah). Nella sostanza, si crea in azienda un board di persone per migliorare la qualità della cultura aziendale "in merito a orientamento sessuale, parità tra i sessi, diritti dei disabili e questioni multiculturali e intergenerazionali". In più, la società comunica la nomina di un "Chief Diversity Officer" (...) e di partecipare al Corporate Equality Index (trovate tutto qui).
Per carità, qualsiasi cosa che possa provare a migliorare la qualità della cultura e della comunicazione aziendale non è mai negativa. Però mi sembra una reazione più di pancia che di testa a quella crisi che, ripeto, aveva un unico problema: il capo aveva espresso un parere personale, opinabile e criticabile quanto si vuole ma pur sempre legittimo, scambiandolo per quello aziendale. Da questa nuova iniziativa io, uomo della strada, capisco che quella azienda aveva problemi più grossi di diversità e inclusione rispetto a quella dichiarazione se deve nominare un responsabile specifico per risolvere questo problema. Se non è così, come credo, allora l'azienda non sta facendo bene il suo lavoro perché mi sta dando un'immagine sbagliata.
La seconda news riguarda un famoso produttore di pomodori, sul quale si è scatenata una polemica su un'iniziativa di comunicazione con un tempismo molto preciso. Qui la mia idea è piuttosto chiara: la società promuove da sempre la provenienza dei propri prodotti e il legame con il territorio di appartenenza, si tratta della sua unique selling proposition. Ora la ribadisce con forza con una campagna ad hoc. Lo dico chiaro e tondo: ha tutto il diritto di farlo. Perché non sfrutta il momento per realizzare una campagna nuova e molto mirata in reazione a una notizia (pensiamo al caso della pasta citato sopra) ma sottolinea quello che è, cosa fa e che prodotti produce. Si tratta di normale concorrenza di mercato, dove un'azienda punta a rafforzare il proprio posizionamento nei confronti dei competitor. Se da altre parti hanno grossi problemi di altro tipo, sarebbe meglio far polemiche su chi doveva controllare il rispetto di certe norme e non fissarsi su fantomatiche "campagne di discriminazione territoriale indirette". Perché perdiamo tempo, tutti, e non ne abbiamo bisogno.
(Photo credits: http://pennaeforchetta.blogspot.it/2010/08/basta-poco.html)
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giovedì 31 ottobre 2013
Mission drives the business
Sta tutto qui, non serve aggiungere altro (grazie a Pier Luca per averlo twittato).
Buon ven... giovedì!
(Photo credits: quel genio di Gapingvoid)
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Buon ven... giovedì!
(Photo credits: quel genio di Gapingvoid)
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mercoledì 30 ottobre 2013
Cose che contano e che non possono essere contate
I numeri non sono tutto, anzi diventano pericolosi se diventano l'unica cosa alla quale si corre dietro. Si rischia di essere attratti da sistemi e scorciatoie che permettono di avere numeri gonfiati ma del tutto inutili se si guarda alla sostanza. Gli obiettivi professionali e aziendali non possono limitarsi a un numero, perché questo conta ma non è tutto. Come la pesi la qualità di un'informazione, di un prodotto, di una persona? I fattori sono tanti, alcuni non sono numerabili esattamente. Correre dietro a profitti, follower, amici, articoli pubblicati, mentions e tante altre cose è utile se fatto con professionalità, serietà e buon senso. Come le pesi queste cose? Si tratta di un'analisi lunga, con parametri oggettivi e soggettivi, non si scappa.
"La fabbrica non può guardare solo all'indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia" diceva Adriano Olivetti, di cui ho guardato la serie sulla RAI e della cui vita approfondirò molte cose perché finora, semplicemente, non l'ho fatto. Sostituite "fabbrica" con "professionista" e ottenete lo stesso risultato. Guardando solo ai profitti o ai numeri, si scelgono inevitabilmente le vie che sembrano e ripeto sembrano, più facili per ottenere risultati di breve, brevissimo periodo. Si investe poco sulla qualità e su tante altre cose meno tangibili ma altrettanto importanti. Ora viviamo una specie di ideologia legata ai numeri semplicemente perché li abbiamo lì', tanti, facili, ci pensano le macchine a fare il lavoro sporco. E, ripeto, è facile esserne affascinati e convincersi che possono darci tutte le risposte. Non è così. Ci dicono tanto (vedi anche qui), non tutto.
Per ottenere certi risultati servono anche cose come empatia, intuito (vedi qui), fiducia, sicurezza nei propri mezzi e sincerità nei confronti di chi ci guarda, ci legge, ci valuta. Cose non pesabili ma che contano e contano tanto.
martedì 15 ottobre 2013
Sperimentare
"Non riuscirai mai a fare una foto bella di quel prodotto, lavora molto bene ma è brutto da vedere, c'è poco da fare". Questa fu la piccola provocazione fatta tempo fa da un collega, uno che stimavo e stimo tuttora. E, diciamocelo, aveva ottime possibilità di aver ragione lui visto che il prodotto in sé non era obiettivamente carino dal punto di vista del design. Ma non era colpa sua, non "doveva" essere bello, era solo un componente di un sistema. Io la presi come una piccola sfida, una scommessa simbolica. Non sono un fotografo, non ho rudimenti particolari di tecnica, obiettivi ed esposizione. Ma sono uno che ci prova ("un testone" direbbe mia moglie, non solo in senso negativo). In passato, avevo fatto belle foto di autobetoniere e di vibratori industriali (no, sono molto diversi da come li pensate), semplicemente perché ci avevo provato con entusiasmo e caparbietà.
Andai davanti a quel prodotto e mi misi a pensare, provare e riprovare. Scattai qualche foto in posizioni assurde, quasi senza guardare quello che scattavo ma solo per avere una prospettiva insolita. Il vantaggio di avere una macchina digitale è che non costa nulla scattare dieci foto in più, l'unica variabile di peso è il tuo prezioso tempo. Mi sono dato un limite temporale poi le ho provate tutte. Risultato? Il 90% di quelle foto erano brutte, per una miriade di ragioni. Il 5% era accettabile e non bastava. Il restante 5% ha stupito anche me. Erano belle, quasi futuristiche. Ed erano quelle che avevo scattato quasi senza guardare l'obiettivo. Un caso? Forse, però erano venute bene, quello contava. Le feci vedere ad altri, concordavano con me. Ora una di quelle è stata usata per una significativa iniziativa di comunicazione dell'azienda, una bella grossa in cui il prodotto si vede molto bene. E ho vinto la scommessa: un caffè.
La morale? Se siamo convinti di una nostra idea, restiamo convinti, teniamo duro e proviamoci. Diamoci un limite di tempo definito e sperimentiamo senza limiti e senza regole predefinite. Spesso non porta esiti positivi, mica è un film la vita, ma qualche volta ce la si fa. Senza sapere neanche il perché. Non serve aver studiato né avere competenze, spesso sono limiti che ci imponiamo da soli. Se va male, pazienza, si riproverà su altre cose. La vita stessa è "un viaggio sperimentale, fatto involontariamente" dice Fernando Pessoa. Andare in ufficio il giorno dopo aver vinto una piccola scommessa è particolare. Anche il caffè chimico della macchinetta sembra più buono. Incredibile, no?
P. S. La foto sopra ritrae un bicchier d'acqua.
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