venerdì 30 aprile 2010

Un codice a barre fa male ai polmoni?

Il Times solleva una questione che sarà passata per la testa a ogni appassionato di Formula 1. Perché la Ferrari ha un codice a barre enorme sulla livrea? E' pubblicità occulta, quasi subliminale, di un noto marchio di sigarette? Non esattamente. E' una geniale idea di marketing e di pubblicità. Per nulla subliminale.

Negli ultimi anni, molti Paesi hanno bandito la pubblicità di sigarette (e non entro nel merito della questione, diciamo che rimango piuttosto scettico sull'efficacia di questa normativa) e, per questo, anche le monoposto di Formula 1 si sono dovute adattare. In alcuni stati si poteva fare, in altri no. Per questo motivo, le aziende che avevano investito ingenti capitali in questo sport hanno dovuto inventarsi qualcosa per "riempire" gli stessi spazi, già profumatamente pagati. Chi non si ricorda la scritta "Go!!!!!!!" sulla Yamaha di Valentino Rossi (il suono e le battute, punti esclamativi compresi, ricordano una nota marca di sigarette francesi che propongono "Liberté Toujours", Libertà sempre)? O Fisichella alla Jordan, con la scritta "Be on edge" sulla fiancata (mettete nel primo spazio "ns", poi è facile). Ma il caso più eclatante è stato sicuramente il codice a barre. Bollato come una scelta quasi inspiegabile, un'anticamera del ritiro dalla Formula 1, un "se peso el tacòn del buso" (è peggio la toppa del buco) come si dice a Venezia. Invece, è stata una soluzione geniale e lungimirante.

Quel codice a barre non lancia messaggi subliminali, scorretti, occulti ma esprime un pezzo di storia della Formula 1. Quei tre colori ne hanno fatto la fortuna. E' dal 1968 che i brand di questa società entrano in pista. Ayrton Senna ce lo ricordiamo tutti con casco giallo e verde su una monoposto bianca e rossa mentre lotta con Prost o contro il tempo. Il codice a barre non esprime nulla visivamente ma qualunque appassionato di questo sport lo collega immediatamente a quel brand, senza indugiAi suoi successi, ai suoi eroi, alla sua storia gloriosa. Senza indurre gli stessi appassionati a decidere di accendersi una sigaretta. "The Formula One Grand Prix in the UK does not involve any race cars, team apparel, equipment or track signage carrying tobacco product branding" dice la società. E hanno pienamente ragione. Hanno trasformato una situazione potenzialmente devastante in un'idea straordinaria. Non mi sono mai stati simpatici, vendono prodotti che non mi piacciono (e fanno male) ma hanno avuto un'intuizione geniale. E bisogna dargliene merito.

Guardo la Formula 1 dal 1980 e non ho mai fumato una singola sigaretta. Sinceramente, non credo che un codice a barre mi farà cambiare idea.

P.S. Questo post è nato parlando della questione con mia moglie, Francesca. Cosa che fa capire quanto sia fortunato ad avere una compagna a cui piace la Formula 1 e il marketing. E ha pure smesso di fumare.

martedì 27 aprile 2010

Low Cost, Big Results: un caso di successo

Oggi ho finito di leggere "Marketing Low Cost" di Cristina Mariani, che è un'amica, un'ottima consulente e, ora lo posso dire, una brava autrice (ecco anche il suo blog). E' il classico libro che ogni libero professionista e piccolo-medio imprenditore dovrebbe tenere sempre sopra la scrivania, possibilmente accanto al PC. Una fonte sempre utile di informazioni, dritte e "buon senso" sull'applicazione del marketing a basso costo (e ad alta produttività). Nella parte finale del libro, sono elencati alcuni consigli su come investire al meglio le proprie risorse per gestire il customer service. "I migliori clienti sono coltivati, non trovati" è una frase citata (Mercer Management Consulting) che condivido in pieno. Per questo, è approfondita la parte dedicata alla formazione da fare ai dipendenti per gestire bene questo servizio, un fattore decisivo per rafforzare il rapporto con i clienti e contribuire, al tempo stesso, a migliorare la percezione dell'azienda grazie a quel formidabile strumento chiamato passaparola.

La gestione delle relazioni è importante con i clienti ma anche con tutti coloro che "gravitano" attorno a una società. Un esempio l'ho avuto proprio oggi. Ho chiamato l'amministrazione di un'azienda (alla fine saprete chi) per avere informazioni sul pagamento di una fattura: chi fa il libero professionista, sa a cosa generalmente si va incontro. Persone diverse, scuse diverse, cavilli diversi, identico atteggiamento (tra lo scocciato e il puntiglioso). Insomma, un'odissea. Oggi no, tutt'altro. Ecco, cos'è successo:
  • Ieri sera: mandata mail con richiesta di conferma di pagamento al mio contatto operativo e alla responsabile acquisti (ossia le persone che mi avevano mandato l'ordine approvato);
  • Questa mattina presto: risposta del mio contatto operativo che mi dice che stanno verificando;
  • Questa mattina tardi: risposta della responsabile che mi conferma il pagamento nei prossimi giorni sia della vecchia fattura che dell'ultima inviata, segnalando che il ritardo è dovuto a lei.
Riassumendo: in poco più di mezza giornata, l'azienda (di cui io sono fornitore, non cliente) dimostra di avere un atteggiamento positivo verso di me e la mia richiesta, mi comunica velocemente cosa sta facendo, gestisce il mio problema, lo risolve e la responsabile si assume la responsabilità (era stata assente dall'ufficio). E non stiamo parlando del customer service, ma dell'ufficio acquisti. I miei complimenti. Questo modus operandi ha fatto sì che io parlassi molto bene delle due persone alla responsabile marketing e comunicazione della società. E non sarà sicuramente l'ultima con cui lo farò. Due mail hanno fatto sì che il brand di una società ne uscisse rafforzato in modo semplice, diretto, naturale. Un caso di successo semplice e chiaro, valido per ogni società, agenzia e imprenditore. Chi è l'azienda? La trovate qui, se lo meritano.

venerdì 23 aprile 2010

La fiera dell'utilità

Aprile, periodo di fiere. Come da molti anni non mi capitava, non ho eventi da gestire in una fiera e allora ho tempo di riflettere. La Fiera (con la F maiuscola) è, per qualsiasi azienda italiana, uno dei momenti chiave delle attività di marketing e comunicazione, il momento perfetto per promuovere i propri prodotti, la propria innovazione, i propri vantaggi competitivi accanto ad aziende che operano nel medesimo settore. Ci sono investimenti costosi, risorse dedicate, commerciali iperattivi e presenza del management a confermare l'importanza di questo momento. Questo dicono i manuali. Ma la realtà?

Nella mia esperienza, la parola "successo" non è stata nominata quasi mai dopo una fiera. Come mai? Dato l'investimento consistente che fa l'azienda (diciamo 50mila Euro come minimo della pena), si dovrebbero analizzarne i risultati secondo alcuni parametri, quantitativi e qualitativi:
  • Numero di visitatori passati per lo stand (database basato sulle informazioni disponibili, come biglietti da visita, moduli compilati, etc.);
  • Numero di clienti, fornitori e partner tra i visitatori passati per lo stand;
  • Numero di richieste di informazioni per prodotti specifici (moduli compilati o feedback dei dipendenti in fiera, per valutare quelli che hanno suscitato maggior interesse);
  • Numero di persone incontrate a diventare clienti (e che lo sono diventati, facendo una valutazione a posteriori);
  • Feedback avuti allo stand su pro e contro sulla partecipazione, sul personale e sui prodotti;
  • Feedback su comunicazione post fiera inviata alle persone incontrate per sapere se hanno trovato interessanti le nostre novità e annunci;
  • Feedback su apprezzamenti, curiosità e richieste fatte dai partecipanti.
Non sono dati così difficili da reperire, analizzare e utilizzare, "formando" adeguatamente le persone che dovranno operare in fiera. E sono informazioni potenzialmente utilissime. Ma poche aziende fanno analisi di questo tipo, per vari errori:
  • Mancanza di coordinamento: le varie persone presenti allo stand (standiste, commerciali, addetti stampa, persone del marketing, etc.) operano senza avere un'organizzazione generale, non sapendo cosa devono fare gli altri;
  • Mancanza di condivisione delle informazioni: i biglietti da visita vengono raccolti da persone differenti e non vengono condivisi, generando "buchi" negli elenchi dei partecipanti.
  • Disinteresse verso i risultati qualitativi: si contano le presenze ma nessuno sa quanti e quali visitatori hanno espresso pareri positivi o negativi.
  • Disinteresse verso i feedback: nessuna comunicazione viene inviata ai visitatori, ringraziandoli di essere venuti e chiedendo di far sapere eventuali suggerimenti.
L'azienda non deve mai dimenticare che anche per un visitatore andare in fiera costa tempo e denaro. Per questo, fa liste di contatti e di persone da vedere. Per attirare l'attenzione, spesso il brand dell'azienda non basta: ci vuole attenzione nella gestione del rapporto che si ha con il potenziale visitatore. Si ritorna, sempre, alla gestione della relazione, che può essere valorizzata dall'utilizzo consapevole e organizzato delle proprie risorse. Ha senso spendere 50mila Euro (e un sacco di tempo per i propri dipendenti) per una fiera quando, per esempio, il sito Internet è vecchio e non aggiornato? E se il visitatore scegliesse le aziende da andare a vedere proprio utilizzando il Web? Ma, soprattutto, nell'era della comunicazione digitale e dei social media, le fiere sono ancora così prioritarie? E ancora: il futuro è in Web-fiere accessibili solo via Internet? Ma questa è un'altra storia (per un altro post).   

mercoledì 21 aprile 2010

Imparare di nuovo a leggere

Un bellissimo post di Andrea Beggi e un convegno su eBook reader/tablet al festival del giornalismo di Perugia mi hanno fatto pensare. "Non so più leggere" è un'ammissione che tutti, prima o poi, abbiamo fatto affacciandoci a un nuovo sito, blog, aggregatore o giornale online. Abbiamo troppa offerta, troppe immagini, troppi link, troppe possibilità da scegliere. E alla fine abbiamo l'impressione di aver letto l'articolo sbagliato, che probabilmente ce n'erano altri di più interessanti che abbiamo, involontariamente, snobbato. Un esempio è Il Post, la nuova creatura di Luca Sofri. E' fatto bene, è una bella idea ma ... è un "superblog" che aggrega notizie, altri blog dei redattori, notizie internazionali. Troppo per me, se mi perdo una volta al suo interno, di sicuro non lo faccio una seconda. Un giudizio sintetico, molto duro e molto vero, è già stato espresso qui.

Decisamente, siamo un po' troppo focalizzati sulle straordinarie potenzialità dello strumento che vogliamo avere in mano (iPad, Kindle e tablet vari) o sull'idea meravigliosa che abbiamo in testa (Il Post, Blognation e altri). Ma chi legge ha sempre gli stessi occhi, la stessa testa e, probabilmente, sempre meno tempo. Per questo, la riflessione da fare è sulla persona che guarda nello schermo: come coniugare le enormi potenzialità del Web e dei suoi fratelli digitali con le sue esigenze? Un quotidiano messo online in modo "tradizionale" (un esempio, la demo di Repubblica) può essere una risposta soddisfacente? La carta vincente potrebbe essere quella di realizzare media evoluti in grado di fare un duplice filtro: darmi quello che voglio in termini di contenuti, anche molto specifici (l'esigenza di informazione), segnalandomi quello che i miei 50 contatti preferenziali vogliono dirmi (l'esigenza della relazione). Una sorta di integrazione tra un portale, un blog e un social media.

Nella vita reale, una cosa così c'è già: basta leggere un giornale in spiaggia insieme ai vecchi amici. Bisognerebbe portare questa idea sul Web. Nessuno ha l'impressione di aver perso tempo facendo queste cose. Ma il difficile non è solo portare online la sabbia, il vento e il rumore del mare. Ma anche il divertimento.

venerdì 16 aprile 2010

The next big thing: iRonia

Dopo aver parlato per mesi di eBook, iPad e sviluppi futuri dell'editoria, presentata una nuova, innovativa soluzione.



Perché pensare con ironia non significa che dobbiamo rinnegare qualcosa. Significa che la nostra testa è viva. Nella mia immaginazione, la vedo così: un libro e un ebook che sorseggiano uno spritz insieme, ridendo di coloro che li vorrebbero nemici. "La libertà comincia dall'ironia".

giovedì 15 aprile 2010

Accessibilità, usabilità e... autocritica

Incontrare un potenziale cliente e rimanere soddisfatti della conversazione: non capita tutti i giorni. Mi è successo ieri, a Venezia. Durante un incontro per discutere delle possibili evoluzioni di un sito Web di un'importante realtà lagunare, a un certo punto si è iniziato ad approfondire i concetti di accessibilità e usabilità. Molto interessante. E questo mi ha dato lo spunto per dare una bella "ripassata agli appunti" (che fa sempre bene, soprattutto al sottoscritto). Queste sono le definizioni, chiare e semplici:
  • Accessibilità: è la capacità di un dispositivo, di un servizio o di una risorsa d'essere fruibile con facilità da una qualsiasi tipologia d'utente (da Wikipedia). In pratica, un sito Web deve consentire un accesso facile a individui con ogni tipo di disabilità (psichica o motoria, vedi le linee guida WAI del W3C), di software e di hardware (anche obsoleti). E' una questione più legata all'oggetto (la struttura tecnica e l'interfaccia grafica) che al soggetto (l'approccio mentale dell'utente verso i contenuti).
  • Usabilità: è definita dall'ISO (International Organisation for Standardisation), come l'efficacia, l'efficienza e la soddisfazione con le quali determinati utenti raggiungono determinati obiettivi in determinati contesti. In pratica, un sito Web deve coniugare le esigenze dell'utente con quelle di chi ha progettato il sito, facilitando l'accesso a contenuti completi, accurati e semplici da capire. E' una questione più legata al soggetto (l'utente deve poter trovare quello che cerca in modo semplice e veloce) che all'oggetto.
Partendo da questo assunto, nel corso dell'incontro è stato possibile approfondire alcune questioni specifiche, dato che questo portale ha un target molto ampio e diversificato. Non tutti i partecipanti all'incontro sono entrati nella questione ma questo poco importa. Per chi, come il sottoscritto, è abituato a partire dall'ABC per spiegare il perché un sito Internet deve essere fatto in un certo modo, è stato molto soddisfacente entrare nel merito di questioni più ampie, complesse e, diciamolo, interessanti.

A mio parere, partendo dal presupposto che mi occupo più di contenuti che di interfacce grafiche, l'usabilità è una condicio sine qua non di ogni sito Internet attuale, di qualsiasi tipologia. E' l'approccio che ti consente di raggiungere i tuoi utenti, di far capire loro cosa vuoi dire, di informarli su cosa sei in modo facile, intuitivo, veloce. Per alcuni settori, l'accessibilità è importante ma meno prioritaria (pensiamo, ad esempio, a un'interfaccia dedicata ai dispositivi mobili, utile ma, ad oggi, non vitale per il proprio sito). I criteri di usabilità invece sono fondamentali per ogni portale, devono essere standardizzati ma anche "personalizzati" in base al sito. E' un tema su cui è sempre bene riflettere guardando qualche sito o blog dedicato.

Un'ultima cosa, molto importante. Si è anche parlato delle linee guida WAI realizzate dal W3C (World Wide Web Consortium) e, chi sta scrivendo, ha ritenuto opportuno oggi andarsi a riguardare bene le Web Content Accessibility Guidelines (WCAG) 2.0. Perché? Chiamiamolo "arrugginimento". E l'incontro con potenziali clienti deve essere utile anche per una sana e costruttiva autocritica. Come diceva Seneca, "critica te stesso; ti abituerai a dire e ad ascoltare la verità". Oltre a renderti più accessibile e usabile.

martedì 13 aprile 2010

La rassegna stampa al tempo dei Social Media

Notizia di oggi è che il premio Pulitzer per il giornalismo investigativo, uno dei riconoscimenti più prestigiosi, è stato assegnato per la prima volta a una testata online e non profit, ProPublica. Questo dimostra come i media online abbiano ormai gli stessi "quarti di nobiltà" di quelli cartacei. Ed è spuntato un motivo di riflessione. La comunicazione online sarà sempre più al centro del ring delle Relazioni Pubbliche, in particolare per quanto riguarda le media relations. Ma i concetti di "media" e di "relations" si stanno evolvendo, molto rapidamente, su binari paralleli ma non uguali. I media non sono più solo i quotidiani, le riviste ed alcuni portali ma anche gli stessi blog sono considerati allo stesso modo. Negli Stati Uniti questo concetto è già molto chiaro (un esempio per tutti, Huffington Post), in Italia un po' meno. E i Social Media? Non possono essere esclusi da questo discorso. L'evoluzione è in atto ed è un discorso ampio, complesso, con decine di fattori che incidono. Ma proviamo a prendere un esempio, che male non fa.

La rassegna stampa è un momento fondamentale nell'attività di media relations e di comunicazione in generale. Ti fa capire se il tuo messaggio è passato, da chi è stato ripreso, come è stato pubblicato e quanta visibilità ti ha dato. Nell'era della carta, avevi articoli da "ritagliare", scansionare e mandare ai tuoi responsabili. Potevi fare analisi qualitative e quantitative su fattori identificati e comunemente accettati (come numeri, pagine, tirature & diffusioni, readership, etc.). Cose che ti permettevano di quantificare il tuo lavoro e i relativi risultati. Nell'era del digitale ... si pensa ancora seguendo logiche cartacee. Prendi Google, cerchi "articoli", li salvi e li invii ai tuoi responsabili e/o clienti. Non è così semplice. Devi rispondere, in breve tempo, a questioni grosse come case:
  • Quanto "pesa" il post di un blog in termini di rassegna stampa dato che non ho diffusioni certificate?
  • Una discussione sulla news della mia azienda su Facebook la inserisco o meno? E come la analizzo?
  • Come faccio a monitorare tutte le discussioni in atto online su quella notizia? Quali sono rilevanti e quali no? Come gestire quelle positive e quelle negative?
Ho fatto una veloce ricerca online su rassegna stampa (e "press review"): si parla ancora di ritagli, di scansioni e di "numero di articoli". La stessa definizione di "rassegna stampa" è probabilmente da mettere in soffitta. Per questo, ho deciso di iniziare un approfondimento in più post per analizzare questa tematica, cercando i capire come fare al meglio il mio lavoro. Il tutto, insieme a voi, sul blog e su un social media come Friendfeed. Un piccolo esperimento, un "Socialstorming", da fare insieme, se vi va. 

lunedì 12 aprile 2010

Lezioni di convegno

C'è un convegno sul biogas. Vado perché il tema delle rinnovabili mi interessa, perché questo argomento è ancora poco conosciuto e perché nella zona dove vivo la "materia prima" abbonda come il petrolio in Arabia Saudita. In più, ho clienti che operano nel riciclaggio e nella valorizzazione dei rifiuti, per cui mi fa molto bene anche dal punto di vista professionale. Ovviamente, porto con me anche il mio bagaglio di organizzatore di eventi. Avrei fatto meglio a lasciarlo a casa.

Iniziamo con la cronaca. Il presidente dell'ente organizzatore fa un intervento di 5 minuti leggendo, parola per parola, da un foglio sul leggio davanti a 200 persone. Il moderatore successivo, un "esperto di marketing territoriale", parla ai relatori dando spesso le spalle al pubblico, approfondendo temi di una fiera concomitante e non citando quasi mai la parola biogas. Un altro moderatore cita dati italiani (finalmente) ma con slide ricolme di numeri, senza un contesto generale. Arriva il primo relatore, direttore di una rivista sufficientemente prestigiosa: si piace molto ma alla quarta slide, di qualità pessima (gialle e blu, a quadratoni), dalla prima fila gli dicono di "tagliare", sta sforando coi tempi. Nello stesso momento, tutti i relatori si alzano dalle sedie (mi scappa un "la grande fuga?") e si siedono in platea ad assistere. Un tavolo vuoto davanti a 200 persone che riassume perfettamente il tutto: un'ora di nulla.

Sto pensando di andarmene quando interviene il coordinatore del consorzio del Biogas, l'unico che non ha un "dott", "prof" o "ing" davanti al nome. Un intervento serio, completo e interessante con una presentazione fatta bene. Meno male. L'ultima slide riporta i suoi contatti (cellulare e mail compresi): sono le uniche cose che ho scritto finora. Subito dopo arriva un docente. Si definisce "un economista" per quattro volte in due minuti, inizia a parlare del libro che ha appena scritto e usa slide praticamente incomprensibili con caratteri minuscoli. Salta il proiettore per tre volte (niente per caso, citando Richard Bach) e, senza slide a supporto, temporeggia per 5 minuti prima di proseguire. Quando arriva il responsabile di un'azienda, dove la prima slide riporta il nome del suo prodotto con tanto di "TM", me ne vado. Insieme a me se ne va il Presidente della Provincia di Modena, da solo, con una cartellina in mano. Mi scappa una battuta sul fatto che è strano vedere uno nella sua posizione girare senza un codazzo variopinto di persone, mi risponde sorridendo che finché ce la fa e ha gambe buone, gli piace girare da solo col suo autista. Sorrido anch'io.

Conclusioni: ho voglia di contattare il coordinatore del consorzio, mi sono fatto un'ottima opinione del Presidente della Provincia e ho visto come tanta gente avrebbe bisogno di consigli su come fare questo tipo di eventi. I primi tre: dimenticare di essere "Ing", focalizzarsi davvero sul tema e mettersi nei panni della gente che è venuta al tuo evento. E tanta, tanta semplicità.  

mercoledì 7 aprile 2010

Distruggere un iPad? Un'idea straordinaria

Navigo sul portale del Corriere, leggo, vedo cosa succede nel mondo e una notizia attira la mia attenzione. "L'iPad finisce nel frullatore". Visto che la giornata è pesante, sto litigando con amministrazioni varie di clienti vari su fatture varie, mi voglio un po' rilassare. Allora guardo il video: c'è un tizio che prende un iPad nuovo di zecca e, dopo aver opportunamente scritto "non provate a far questo a casa", lo sbatte contro il supporto di un frullatore, lo piega e lo inserisce dentro. Dopo pochi secondi, lo strumento dei desideri di Apple è un mucchietto di pezzettini grigi. Che potenza, mi dico. Ma guarda te cosa fanno questi pazzi sul Web. Poi intuisco che c'è qualcosa sotto.


Leggo la marca del frullatore e mi si dice che costa "999 verdoni". Mi informo e scopro che tutto questo è il frutto di una campagna di viral marketing della Blendtec (che produce i devastanti frullatori) e il tizio che frulla l'iPad è il fondatore dell'azienda stessa. Distrugge vari prodotti, cose da provare o non provare a casa (pistole ad aria compressa no, avocado sì), per dimostrare le qualità del suo prodotto. Questo permette di promuovere un frullatore su YouTube attraverso un "caso di successo" particolare e di grande impatto, in un minuto e quaranta secondi, con costi praticamente irrisori (tranne l'iPad, ovviamente). Un'idea fenomenale. Sarei curioso di vedere un imprenditore italiano fare qualcosa di simile. Il frullatore l'avrò usato 10 volte in vita mia ma, in questo momento, pensare di spendere 999 dollari per quel tritatutto fenomenale non mi sembra affatto una follia.

giovedì 1 aprile 2010

La gentile arte della semplicità

L'importanza delle piccole, semplici cose. Quando ero in agenzia, sottolineavo sempre a colleghi e colleghe l'importanza di fare bene le cose apparentemente più elementari, più veloci, più scontate. E' inutile passare ore a valutare se la notizia del comunicato stampa è stata espressa in modo perfetto se poi si sbaglia a mandare la mail con cui lo stesso documento arriva al giornalista di riferimento. Allo stesso modo, per gli eventi si facevano interminabili riunioni per stabilire se il "taglio" dell'invito fosse perfetto per poi mandarlo (sempre bellissimo, creativo, colorato) solo pochi giorni prima della data prefissata. L'approccio doveva essere quello di mettersi nei panni dell'altro, di chi riceve i nostri documenti, di chi viene ai nostri eventi, di chi guarda il nostro sito Internet. Pensare semplice. Se le immagini non sono incredibilmente creative non sarà un danno, ma se c'è un errore di grammatica o un refuso (maledetti correttori automatici) questo avrà un impatto notevole sulla percezione del nostro lavoro (e del brand, ovviamente).

Un esempio semplice: c'è da distribuire il materiale per una conferenza stampa ai giornalisti, qual'è la soluzione migliore? Gli approcci sono spesso molto estremisti: o si danno cartelline con 50 fogli, Cd, chiavette USB e gadget giganteschi praticamente "non trasportabili" oppure due striminzite paginette di comunicato stampate in b/n. La regola, per me, è sempre quella: "mettiti nelle scarpe" (spesso coi tacchi) di chi deve avere e poi utilizzare quel materiale. Uno o due comunicati stampa cartacei con le notizie "vere" (dove si possono prendere anche appunti in velocità) e un supporto digitale dove trovare gli stessi documenti (copiaeincollabili, ça va sans dire), immagini, video e altre cose. Il gadget ci può essere ma non deve essere ingombrante, sull'utilità non mi esprimo (ci vorrebbe un post dedicato). L'importante è che tutti abbiano le stesse cose, fatte allo stesso modo. Cioè, bene.

Una delle mie regole è sempre stata quella di realizzare "in casa" i supporti digitali, se possibile. Si, è semplice masterizzare un CD o salvare file su una chiavetta USB ma tu, e solo tu, sai "dove far trovare i file giusti". Semplificare la vita a chi lo darai con poche, semplici operazioni. Bene. Ho trovato una giornalista che rientrava da una prestigiosa fiera all'estero: dopo i saluti e i baci, mi dice che durante un media event le hanno dato un CD "sbagliato" (documenti che non si riferivano per nulla a quell'evento) e che ha dovuto ricontattare l'azienda per farsi mandare i file giusti. Quell'evento è stato gestito da una persona che conosco, con 15 anni di esperienza. Che ha dimenticato di fare bene le cose semplici. "In ogni arte la semplicità è essenziale" diceva Schopenhauer. Sottoscrivo.