giovedì 25 febbraio 2010

YouTube and TheyBlock

Un giorno dopo aver scritto un post su contenuti e controllori accade che leggo cosa ha scritto Marco Massarotto sul suo blog (grazie a FriendFeed): non ci sono più video della canzone di Pupo e del principe su YouTube! Al loro posto, una scritta: "Questo video include contenuti che sono stati bloccati dallo stesso proprietario per motivi di copyright". Anch'io ho provato a cercare, nada.

Un chiarimento immediato: il principe non me lo sono visto neanche dal vivo su mammarai presentato da mammaclerici ma ritengo che sia una semplice, fortissima, inequivocabile conferma del fatto che "i proprietari" vivono sulla Luna, o forse più in là. Eliminano da soli la possibilità che la gente guardi un pezzo per migliaia di volte (si chiama promozione gratuita ed era attiva fino a ieri, ovviamente non per merito loro) e decida poi di comprare il CD (si chiamano vendite). Fortunatissimamente, non è un dramma. Mi consolerò con Elio e le storie tese: loro e "l'elicottèro" del principe sono perfettamente visibili su YouTube, presenti a un programma di mammarai. Per la gioia di milioni di utenti. Mi raccomando: nessuno dica ai "proprietari" che gli utenti possono anche trasformarsi in clienti. Si sa che i Savoiardi sono suscettibili.

mercoledì 24 febbraio 2010

Il biplano (speciale) della settimana


Un omaggio al biplano e all'aviazione. E un ringraziamento al sito Airline Poster Art.

Controllare i contenuti, contenere i controllori

E' la Notizia di oggi. Il giudice Oscar Magi (quello di Abu Omar, fa notare Luca De Biase) ha condannato in primo grado alcuni responsabili di Google Italia per il caso del bambino affetto dalla sindrome di Down pubblicato su Google Video. L’accusa è violazione della legge sulla privacy (sono stati assolti per le accuse di diffamazione). Bene, questo dice la sentenza, ma quali saranno le conseguenze per il futuro degli user generated content? Se io deciderò di pubblicare un video di due amici su YouTube, dovrò avere la loro liberatoria? E se non ce l’ho, il provider ne sarà responsabile?

Come fa notare giustamente Dario Salvelli sul suo blog (il titolo è molto forte), il problema non è nuovo, anzi è sempre quello: chi controlla i contenuti? Purtroppo, i casi vengono tirati fuori quasi sempre da sentenze del giudice di turno (dal crocifisso a Google) che generano conseguenze previste e prevedibili: la nascita di due schieramenti, contrapposti e quasi integralisti. Succederà anche questa volta, con il confronto acceso tra i sedicenti paladini del diritto alla privacy e gli autoproclamati difensori della libertà assoluta di Internet. Come sempre, “in medias stat virus” (non nei “media”, mi raccomando). E’ ovvio ed evidente che se uno gira e pubblica un filmato su un bambino affetto dalla sindrome di Down che viene picchiato non è giusto né accettabile. Ma non è altrettanto giusto che ognuno debba chiedere permessi firmati ed approvati per pubblicare il video del compleanno su YouTube.

Non sono la persona giusta, sono un comunicatore non un legislatore, ma visto che questo latita da un bel po’ sulla questione, mi permetto di fare una considerazione. Per pubblicare un commento su un blog (o su un forum) ho quasi sempre la necessità di aspettare la “moderazione” di ciò che dico da parte del responsabile. E’ una cosa assolutamente normale, nessuno ha mai tirato fuori una supposta negazione della libertà di parola. Bene, ma su YouTube vengono caricate circa 20 ore di video ogni minuto. Come si può fare?

Se un controllo a priori è praticamente impossibile, lo si faccia a posteriori. Ogni provider potrebbe creare un team in ogni paese dedicato a ricercare video che ledano la dignità e/o la privacy delle persone. Con l’aiuto delle segnalazioni degli utenti, di quel 99,9% (periodico, ovviamente) a cui non è mai passato neanche per l’anticamera del cervello più piccolo di pubblicare immagini di un bambino affetto dalla sindrome di Down che viene picchiato. User Generated Monitoring? Quello che si sa di sicuro è che penalizzare centinaia di milioni di utenti che pubblicano su YouTube filmati che coniugano genio e divertimento, informazione e creatività non è la soluzione giusta. Legislatori di tutto il mondo, svegliatevi. Con una priorità: l’esigenza è controllare i contenuti, contenendo i controllori. I giudici hanno già un sacco di cose da fare.

lunedì 22 febbraio 2010

Rebranding: il primo passo è guardarsi allo specchio


"Il rebranding è quel processo con cui un prodotto o un servizio sviluppato e distribuito con un nome, un marchio o sotto il nome di una ditta, viene reimmesso nel mercato sotto un altro nome o una diversa identità" (Wikipedia). E' un ambito molto interessante della comunicazione aziendale, pensiamo solo al caso di Philip Morris che si trasforma in Altria Group per rilanciarsi e ritrovare una certa verginità (almeno temporaneamente). Ma anche in Italia i casi sono numerosi, specialmente in caso di acquisizioni. Il settore multiutility ne contiene numerosi, dalla lombarda A2A (nata dalla fusione della milanese Aem e di Asm Brescia) alla veneziana Veritas (creata dall'unione di Vesta, Asp e Acm). Ma se si cerca un approfondimento per comprendere bene questo processo, molto complesso e delicato al tempo stesso, si trova pochissima bibliografia, quasi tutta statunitense.

Un ottimo punto di riferimento per avere informazioni e, soprattutto, casi di successo è il portale www.rebrand.com. Questo mi è stato molto utile per iniziare a valutare come gestire un processo di questo tipo, anche perché ce ne sono numerosi, dall'evoluzione del marchio per scelta aziendale al cambiamento del brand dell'azienda o di un prodotto a seguito di acquisizioni. In un mondo sempre più "relazionale", il brand non è più un messaggio unidirezionale che viene dall’azienda ma è quello che la gente, gli utenti, i clienti pensano dell’impresa stessa. E' un processo di affermazione che si traduce in un nuovo approccio a 360 gradi, non solo in un nuovo logo. Ci vuole una strategia che consenta di:
  • Comprendere a fondo la situazione reale, analizzando soprattutto come un marchio sia percepito dall'esterno;
  • Realizzare un progetto specifico e personalizzato di rebranding;
  • Organizzare un gruppo di lavoro (che può includere professionisti interni ed esterni alla società) preposto per portare avanti questo progetto;
  • Mantenere il progetto in costante evoluzione (il rebranding si trasforma in brand management).
Il rebranding è un processo complesso perché porta l'azienda e il suo management a doversi analizzare in modo obiettivo e concreto, evidenziando quello che va e, soprattutto, quello che non va. E questa è una strada difficile, specialmente per la grande maggioranza delle aziende italiane. "Noi acquisiamo loro per cui tutto quello che facciamo noi è migliore" o "da noi si è sempre fatto così, non si può cambiare" sono concetti insiti nel DNA di molte imprese nostrane. Ma per portare avanti un nuovo brand, si deve prima sapere "chi siamo" per poi valutare "chi vogliamo diventare". E questo si fa coinvolgendo numerosi responsabili interni (che hanno il polso reale della situazione) ed esterni (che hanno una valutazione più obiettiva sulla percezione del brand), senza temere la "lesa maestà". Il primo passo per un progetto di rebranding è molto chiaro: un'autocritica costruttiva.

martedì 16 febbraio 2010

La lezione di YouTube

YouTube ha compiuto 5 anni. E questo formidabile strumento di comunicazione, alla portata di tutti, non accenna minimamente a passare di moda. Perché è semplice da usare, perché si può inserire in due click all'interno del proprio sito e del proprio blog (il suo segreto, secondo Luca De Biase), perché è la cosa più intuitiva che possa esistere. Mette d'accordo il più autorevole dei media con il più spartano dei blog personali. A proposito, Nòva (Il Sole 24 Ore) "festeggia" l'anniversario pubblicando i filmati più cliccati della storia. Sembra incredibile a vederli ma è proprio così. E questo ci offre una lezione clamorosa: mai prendersi troppo sul serio. South Park (altra geniale invenzione) ce lo dice a modo suo.

lunedì 15 febbraio 2010

La (dura) realtà colpisce ancora

Così tante novità in così poco tempo. Così avrebbe probabilmente detto il Joker di Jack Nicholson assistendo ai numerosissimi annunci degli ultimi giorni. Stavo iniziando a capire come funzionasse Google Wave che Steve Jobs e compagni lanciano l'iPad (poco dopo lo Slate di HP). Io subito oriento le antenne verso quell'oggetto di (futuro) desiderio, eccitato da tutti quegli aggettivi che ne hanno arricchito la presentazione (sotto una sintesi capolavoro, ovviamente da YouTube).


E pochi giorni dopo, Google presenta Buzz, il nuovo social network integrato con Gmail. Rivoluzionario! E allora mi butto "anema e core" anche là. Ma allora mi sorge un dubbio: non è che mi sto facendo troppe aspettative su questi nuovi strumenti? Non ho un iPad (e non solo io) e ho postato una sola cosa su Google Buzz. Invece sto litigando con l'ufficio acquisti di un cliente per due righe del contratto in burocratese e devo fare due telefonate con le responsabili europee di un altro cliente. Reality strikes back.  

mercoledì 10 febbraio 2010

Blog aziendale: passato, presente e ... futuro?


Come siamo messi col Corporate Blogging? Stephen Davies sul suo blog ha pubblicato la presentazione che ha tenuto al Communication on Top Conference di Davos. Offre una situazione del passato (dove i blog erano i new kid in town), del presente (percepiti da alcuni come signori di mezza età, sagaci ma non troppo cool) e del futuro (con alcune previsioni, fatte anche da frequentatori del suo blog). In Italia siamo decisamente ancora alla fase del "new kid": molti responsabili aziendali chiedono spesso come il blog possa influire con decisione sull'andamento del loro business e quale sia il ROI. Talvolta chiedono anche cosa sia un blog aziendale (apprezzo almeno la sincerità).

Sto sperimentando questa situazione sul campo, ogni giorno. Non so se sia una bella o una brutta cosa in senso assoluto, quello che so per certo è che abbiamo una grande opportunità. Se le aziende la coglieranno, potranno iniziare a dialogare davvero con i propri utenti (che non sono tutti clienti) usando uno strumento facile da fare, poco costoso e potenzialmente molto efficace. Ma non è magico. Dovranno utilizzare molta costanza, volontà e passione. Molto di più che per aggiornare l'ennesimo catalogo aziendale. Che stia proprio qui il problema?

martedì 9 febbraio 2010

Viaggio al centro di Google

La notizia è forte: GMail diventa un Social Network (l'anteprima l'ha data il WSJ). Si twitterizza, dando la possibilità di aggiornare la propria pagina e il proprio status (con Google Buzz). Non resta che stare a vedere come l'armata di Mountain View, già impegnata nel fronte orientale con la Cina, aprirà un secondo fronte contro le divisioni di utenti di Facebook e Twitter. Le metafore belliche finiscono qui. Al contempo, inizio ad avere il forte desiderio di conoscere ancor di più la galassia Google, come mi ero riproposto di fare qualche tempo fa dopo aver visto la presentazione di Google Wave su YouTube.



Bene, come primo passo mi sono scaricato Google Chrome. Explorer 8 ultimamente risultava molto affaticato, così ho deciso di fare un "uno contro uno" (metafora baskettara). Dopo un paio d'ore, il Cromo batte l'Esploratore in modo netto per velocità e semplicità. Non ho tutti i miei vecchi Preferiti, alcuni con militanza pluriennale, e alcune funzionalità non mi sono chiare (ma dove sono i nuovi Preferiti?) ma l'inerzia è tutta dalla parte di Chrome (altra metafora sportiva).

Preso dall'entusiasmo, mi sono buttato senza indugi in Google Docs. Al di là di un naturale disorientamento, derivato dalla domanda persistente "ma davvero non devo scaricare nulla?", anche questo strumento sembra potenzialmente eccezionale. Si, ne avevo già parlato con alcuni amici ma non l'avevo ancora usato. Legge quasi tutti i formati di file (alla faccia del mio Word andato in crisi con i docx), permette di avere i documenti sempre disponibili online e pure di condividerli. Anche qui la capacità di storage limitata (1 Giga) e il fatto di non poter salvare file di formati molto utili (gli .zip ad esempio) sono pecche rilevanti ma pare che a Mountain View ci stiano lavorando (non è una metafora politica, lì lo fanno per davvero).

Conclusioni: la gita nel mondo di Google è stata molto interessante. Proverò ad usare Google Chrome e Google Docs per qualche giorno per testarne davvero le potenzialità e capire se sono strumenti adatti al mio modo di lavorare, di pensare, di cercare. L'unica cosa che un po' mi inquieta è che sto passando dal mondo Microsoft a quello Google con una conversione (quasi) religiosa. Meglio meditarci un po' su, fuor di metafora.

venerdì 5 febbraio 2010

"Noleggio venti partecipanti per un evento"

Partecipanti a noleggio per fare un evento riuscito. In Ucraina c'è un'agenzia che si occupa proprio di destinare una piccola folla a rimpolpare un comizio o un'iniziativa politica. L'idea innovativa (se non geniale) è quella di offrire questo servizio (con tanto di sito Web), non la cosa in sè. Ogni persona che abbia, in vita sua, organizzato un evento ha avuto quantomeno la tentazione di coinvolgere un paio di colleghi e amici per "rinpolpare" i numeri. Ma diciamocelo: l'abbiamo fatto tutti, chi è senza peccato ...

Io ricordo una mia collega di Milano arrivata a un evento con falso nome (e occhiali posticci) per spacciarsi quale giornalista di un portale prestigioso. E non per sua spontanea iniziativa. A me personalmente è capitato di dover andare nella piazza davanti alla location per "catturare" gente in tutti i modi. Un vero e proprio buttadentro. Fossi stato in Ucraina, avrei avuto un budget per pagarli, ottenendo risultati numerici sicuramente superiori con meno fatica. Ma la cosa davvero particolare di quell'esperienza è stata che le persone che avevo portato io si sono dimostrate molto più interessate, coinvolte ed entusiaste di quelle (poche) che avevano accettato il bellissimo e costosissimo invito cartaceo. Forse, nella mia affannosa ricerca, avevo trasmesso passione, interesse ed entusiasmo a quelle persone. Le quali mi hanno pure ringraziato, invece di accusarmi di essermi intromesso nella loro giornata. Forse perché li ho "ripagati" anche con un sorriso, cosa che un invito o una banconota non possono fare. Almeno per ora.

martedì 2 febbraio 2010

C'è sempre tempo per affrontare un foglio bianco

Un post (geniale, as usual) di Seth Godin sulla "modern procrastination" e uno di Alessandro Cosimetti sul suo "Blog in azienda". Cos'hanno in comune? Si parte da due approcci diversissimi per analizzare, a loro modo, la questione del "tempo". Il primo sottolinea come un approccio sbagliato nell'utilizzo delle varie forme di "contatto digitale" (social network in testa) ci porti ad essere costantemente occupati, molto occupati, sempre. Siamo impegnati ma stiamo facendo qualcosa di importante? Spesso, no. L'instant messaging dà l'impressione di essere una reazione, alla ricerca di maggior velocità e produttività, ma spesso è solo una scusa per procrastinare qualcosa. Forse è il momento di affrontare il foglio bianco, di abbandonare un'attività infruttuosa, di rischiare, di essere creativi. "Or you could check your email" chiude Seth Godin.

Il titolo del post "Come dedicare tempo al blog aziendale anche quando pensate di non averne!" di Alessandro Cosimetti spiega da solo dov'è la questione. Ci si mette 5 minuti a scrivere un post (cronometrati). Aggiungo io altri 10 minuti a rispondere ai commenti. Ma il "non ho tempo" è sempre e solo una scusa. Il problema non sta nei minuti necessari per scrivere un post ma nell’approccio complessivo: in agenda ci deve essere, ogni giorno, un certo tempo da dedicare al blog. Se non si parte da questo assunto, l'opzione “oggi ho troppe cose da fare” (delle quali nessuna salverà il mondo) sarà una costante che inciderà pesantemente sulla vitalità stessa del blog. Un post è, all'inizio, un perfetto foglio bianco. Sta a noi essere creativi, anche durante uno spuntino. Infatti vado a farmi un caffè.

lunedì 1 febbraio 2010

Spam e comunicati stampa, un legame sopravvalutato

La cara, vecchia storia dello spamming dei comunicati stampa. Sul suo blog, Stephen Davies rilancia la questione con un bel video (ammettendo onestamente anche un suo piccolo conflitto di interessi): si sottolinea come l'inondazione di press release verso i media sia paragonabile, se confrontata alla situazione del pianeta, all'inquinamento ambientale. Con una proposta: "come posso fare a ridurre la mia irrelevance oggi?"
Chi non si è posto la questione avendo il compito di dover inviare un comunicato stampa alla sua mailing list? E chi non si è sentito rispondere "la ringrazio, ma questa notizia non mi interessa per nulla"?

La questione sta, ovviamente, a monte. Si ha un messaggio da trasmettere, più o meno "forte", e si deve decidere a chi inviarlo. Il dubbio amletico di ogni addetto stampa: mailing list ristretta o allargata? Ci sono fondamentalisti per tutte e due le filosofie, per cui guru da consultare ce ne sono anche troppi. Mi limito a buttare là qualche considerazione:
  • La "mailing list perfetta" non esiste: anche con una notizia bomba, le probabilità di sentirsi rispondere "non è in target" sono comunque rilevanti. In più, la soggettività dell'opinione su cosa pubblichi una rivista è davvero ampia. Mio parere: fare una mailing list generale da adattare, di volta in volta, alla notizia e non una notizia che da adattare, sempre e comunque, alla mailing list. 
  • I giornalisti non hanno sempre ragione: si ha sempre un certo timore reverenziale a parlare con il caporedattore di riferimento, sapendo che se non porti a casa l'articolo hai 2 ore di riunione col tuo capo. Ma loro stanno lavorando come lo stai facendo tu, con la stessa dignità e rigore professionale. E anche loro, come te, possono sbagliare nel giudicare una notizia. Mio parere: "difendere" sempre, con cortesia e obiettività, il nostro comunicato stampa, non essere sulla difensiva sperando che la telefonata duri meno possibile. 
  • Lo spam, questo sopravvalutato: è assolutamente vero che la grande maggioranza dei comunicati stampa non hanno notizie così interessanti. Ma è altrettanto vero che la grande maggioranza degli articoli pubblicati non sono da premio Pulitzer. Mettiamo che un giornalista riceva 100 comunicati stampa al giorno: in 30 secondi ci dà un'occhiata e a valuta cosa fare. In tutto, 50 minuti delle sue otto ore. Ma poi ha notizie per farci un giornale. Mio parere: non mi pare una situazione così drammatica.
  • Cercare sempre la notizia: il nostro principale compito è comunicare notizie. E non tutte le informazioni che ci danno lo sono. Il nostro compito non è solo quello di inviare email ma, soprattutto, quello di dire, talvolta, una frase difficile: "questa non è una notizia". Facciamo del bene a noi, al nostro capo, al nostro cliente e ai giornalisti a cui dovremmo inviare il comunicato stampa. E cercarne eventualmente un'altra. Mio parere: spesso, le notizie vere non fanno notizia all'interno delle aziende. Dobbiamo cercarle, sempre.
Al di là di tutto, paragonare l'invio di comunicati stampa alla generazione di inquinamento atmosferico mi sembra un po' forzato. E' invece opportuno concentrarsi sulla creazione del comunicato stampa e sul contatto successivo con il giornalista, che sono le due fasi davvero decisive (trovare la notizia e poi "venderla" bene). L'invio è necessario ma non è una fase così fondamentale. Se pensiamo al flusso di informazioni che sono e saranno generate dai social media, i giornalisti rimpiangeranno il giorno in cui dovevano solo aprire le agenzie di stampa e Outlook per scegliere le notizie tra "il caro, vecchio spam".