martedì 29 giugno 2010

Comunicazione? Fammi capire meglio

Ma i comunicatori sanno comunicare cosa fanno? La domanda è complessa, meglio fare un passo indietro. Una mattina qualunque, sono al parco col mio piccolo e parlo con un ex Presidente (P rigorosamente maiuscola) di un'azienda locale, in pensione da poco e ormai stabilmente nonno. Mi chiede cosa faccio, io gli rispondo. Lui mi guarda un po' pensieroso e mi dice, a bruciapelo: "se io fossi ancora Presidente, ti chiederei di farmi capire meglio. E anche da nonno, ti faccio la stessa domanda". Davanti a uno scivolo, dove due bambini si contendono il posto, ho realizzato che le aziende italiane rimangono sicuramente un po' sorde quando si tratta di ascoltare i vantaggi che possono offrire il marketing e la comunicazione. Ma, forse, è altrettanto vero che noi spesso parliamo un linguaggio "difficile" da capire per loro. C'è spesso una barriera fatta di generazioni ed esperienze diverse a dividerci (ad esempio, c'è un interessante punto di vista di Luca De Biase). Per questo, si deve trovare un terreno comune, un linguaggio condiviso, un rapporto più semplice e diretto.

Per questo motivo, mi metto nei panni di un responsabile di una PMI italiana. Comunicazione in azienda? Ho tagliato i budget per la pubblicità e le fiere, mentre i cataloghi sono da rifare al più presto. Ho letto sul Sole 24 Ore che questo Facebook è un fenomeno in grande crescita su Internet (i miei figli, sempre connessi con decine di amici sul cellulare) e un impiegato al caffè mi ha parlato di blog aziendali. Ma ho già un sito e ci ho speso pure dei bei soldi. Tutti questi nuovi strumenti, così di moda, mi possono essere utili? Come possono influire positivamente sul mio business? In generale, rendere la mia azienda più "moderna" in questo senso mi gioverà oppure è solo seguire la corrente?

Walking in their shoes direbbero gli anglosassoni. Perché è opportuno partire dal modo di vedere il mondo che un'azienda ha per capire quali possano essere le dinamiche reali che devono affrontare. Per vedere se mi possono capire quando dico loro che non ci sono ricette magiche, anche se qualcuno gliele propone. Loro hanno bisogno di comprendere cos'è un piano di marketing e comunicazione, come si realizza, quali strumenti possono essere usati e quali sono i migliori per la loro specifica situazione. L'obiettivo è quello di migliorare la percezione del loro brand da parte degli stakeholder. "Stake ... cosa?!" mi direbbe l'ex Presidente nel parco. Semplicemente, i soggetti che "hanno un interesse" nei confronti dell'impresa e che ne alimentano la sopravvivenza stessa:  i clienti, i fornitori, i finanziatori (banche e azionisti), i collaboratori, gli enti locali e molti altri. Coloro a cui l'azienda deve parlare. "Ah, ora capisco!" mi sentirei rispondere. Vale nel parco come in azienda.

martedì 22 giugno 2010

Content is king, curation is queen

Parto da un "provocatorio" articolo che ho trovato su Business Insider: "Content Is No Longer King: Curation Is King". Secondo l'autore (ringrazio lafra che l'ha segnalato su Friendfeed), i contenuti regnavano quando erano scarsi, di qualità, come un articolo sul NY Times, i film della Miramax e il resto del "best of the best". Ora, sul Web, c'è sovrabbondanza di contenuti per cui il re è cambiato, è la "cura" dei contenuti a sedere ora sul trono. Questo approccio, volutamente provocatorio, non mi trova del tutto d'accordo. Ho sempre pensato che il contenuto, per regnare, doveva essere per forza qualcosa di curato, di qualità, di interessante. Doveva avere, appunto, quei "quarti di nobiltà" che lo facevano emergere dal resto, per farlo diventare un fattore decisivo per convincere una persona a leggerlo, ascoltarlo, vederlo.

I contenuti devono "contenere" qualcosa da dire e devono comunicarlo bene, con cura. Non sono qualsiasi cosa messa sul Web, come non erano qualsiasi cosa pubblicata sulla carta stampata né qualsiasi cosa trasmessa in TV. Mica prima c'erano solo il NY Times e la Miramax. In un mare magnum di quotidiani, riviste, serie televisive, film, programmi TV e radio, si sceglievano le fonti da consultare in base a parametri di serietà, autorevolezza, cura e innovazione. Sul Web sta accadendo la stessa cosa. Siamo ancora in una fase di espansione, un momento di passaggio in cui i contenuti di qualità emergeranno per diventare sempre più protagonisti. Comunicare non è trasmettere un'informazione, ma "far conoscere". E' un compito difficile perché si deve creare un legame forte tra chi parla e chi ascolta. E questo può succedere solo se si tratta di contenuti realizzati con cura. Content is king, curation is queen. And kingdom come.

P.S. Trovato anche un interessante contributo sul tema di Kristina Halvorson (grazie a Cristina Mariani per la segnalazione).

giovedì 17 giugno 2010

Energie rinnovabili e Web, un rapporto da "alimentare"

Le energie rinnovabili mi interessano molto. Perché collaboro con aziende che ci lavorano, perché si stanno studiando soluzioni molto innovative, perché la tutela dell'ambiente è una priorità di tutti (senza che diventi, a tutti i costi, un'ideologia o una bandiera di alcuni). Sono andato al Solarexpo 2010 nel maggio scorso, ho parlato con professionisti del settore, ho assistito ad alcune presentazioni. E mi sono chiesto una cosa: quello delle rinnovabili è un settore piuttosto giovane, emergente, creativo. Come comunicano? Come usano un altro strumento giovane, emergente e creativo come il Web nelle loro attività di marketing?

Su Google non ho trovato nulla di particolarmente interessante e recente. Allora la ricerca me la sono fatta in casa. Ho preso il catalogo delle aziende presenti a Solarexpo, mi sono andato a vedere i siti delle aziende e li ho analizzati in base ad alcuni parametri (struttura grafica, aggiornamento news, disponibilità di riferimenti e "apertura" verso i social media). I risultati? Eccoli.
Il 51% delle aziende italiane attive nelle energie rinnovabili ha un sito "vecchio" o "obsoleto", solo il 16% ha un portale "allo stato dell'arte". Più di un'impresa su due (il 52%) non ha news aggiornate. E, dato molto rilevante, il 91% dei siti non prevede alcun "collegamento" coi Social media (Facebook, Twitter, YouTube, blog, etc.). Ossia, 9 aziende su 10. Questo cosa significa? Che c'è molto lavoro da fare. In un momento in cui Google è interessata a investire nel settore delle energie rinnovabili, anche in Italia, e la green economy sta diventando una priorità in molti stati, ci sono enormi opportunità da cogliere per "comunicare la sostenibilità". E l'ambito sociale, quello con cui si creano relazioni e conversazioni con le singole persone, è prioritario, come si capisce molto bene dall'immagine sottostante.
Il Web è uno strumento efficace e relativamente poco costoso per iniziare a parlare in modo adeguato con i propri stakeholder. C'è una strategia di marketing e comunicazione da pensare, realizzare e sviluppare, di cui il sito Internet può e deve essere solo un primo step. Ma "un viaggio di miglia miglia inizia sempre con un solo passo" diceva il filosofo cinese Lao Tzu. Lo stesso che sosteneva che "fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce". Iniziamo intanto a farla crescere, questa foresta.  

lunedì 14 giugno 2010

"Ho un'azienda, sono su Facebook: e adesso?"

Venerdì sono stato al pmicamp a Siena. Raramente mi è capitato di partecipare a un evento così riuscito da punti di vista così diversi: persone molto competenti in un'atmosfera del tutto tranquilla, presentazioni riuscite e complementari tra loro, clima altamente professionale con un approccio ricco di passione e determinazione. Nonostante un caldo devastante (e senza aria condizionata nel pomeriggio), si è stati davvero bene. E non posso non ringraziare Doctor Brand e Daniele Vinci per avermi invitato. Grandi protagonisti del pmicamp sono stati i Social media, ovviamente. Analizzati da vari punti di vista, alcuni molto approfonditi, altri relativamente semplici. Tutto questo ha portato a un momento di confronto davvero significativo. Una signora, durante la presentazione di Stefano Epifani, ha fatto una semplice ma fondamentale domanda: "Io ho un agriturismo, ho aperto una pagina su Facebook e ho 20 amici: e adesso?" La questione sta tutta qui.

Durante i vari interventi, mi sentivo rinfrancato. Tanta gente che capisce di comunicazione e Web, atmosfera partecipativa, chiacchiere molto interessanti in assoluta libertà. Poi ho realizzato che, uscendo dall'Università di Siena, sarei tornato al mondo reale, alle imprese che bloccato Internet ai dipendenti, ai siti oscurati dal CED aziendale, agli sguardi scettici per qualsiasi cosa che vada oltre il sito Internet. Altro che le domande della signora dell'agriturismo, estremamente illuminanti nella loro semplicità, un concentrato di curiosità e interesse per un mondo che si conosce poco e lo si ammette con franchezza. Allora, alla fine dell'intervento di Allen Montrasio, ho chiesto a lui un consiglio: come iniziare a comunicare con le aziende e spiegare loro cos'è Facebook? La sua risposta, diretta e puntuale, è stata "boh!" In un mondo professionale in cui tutti abbiamo sempre la soluzione per tutto, a parole ovviamente, lui è stato sincero. Perché tra noi addetti ai lavori ci capiamo. Alla fine, abbiamo approfondito l'argomento, ne è nato un bellissimo brain storming spontaneo in un corridoio insieme ad Alessandro Prunesti: probabilmente, l'utilizzo di case history è il modo più semplice e, allo stesso tempo, efficace per iniziare un discorso con un'azienda.

Tutto questo è successo in poche ore, meno di una giornata. Grazie alla passione di chi l'ha organizzato, di chi ha parlato, di chi ha ascoltato e di chi ha fatto domande. Tutti hanno avuto la stessa importanza. Sono momenti che non capitano spesso. Spero che molti responsabili aziendali avranno l'opportunità di partecipare a un camp come questo. Per capire, chiedere, ascoltare, partecipare. E perché la passione che si respirava vale più di mille presentazioni su Powerpoint (anzi, su Slideshare).  

lunedì 7 giugno 2010

Dead-lines e Live-lines

No, non si tratta di Lost. Niente confronto tra vita e morte, tra linee di vita parallele, tra bene e male. Tutto è iniziato oggi con un post del solito Seth Godin sull'importanza delle deadline per chi lavora. L'incipit è di impatto: alla gente le deadline, ossia le scadenze, non piacciono. E io, in questo specifico caso, sono un perfetto esempio di "gente". Non mi è mai piaciuto che un qualsiasi dirigente, cliente, ente o parente (che finiscono curiosamente tutti in -ente, come gente appunto) mi segnalasse scadenze entro cui fare delle cose. Sono sempre stato uno che ha rispettato i tempi indicati e questo modo di fare ("consegnami questo entro il ...") faceva sì che io reagissi con un implicito moto d'orgoglio, come se non fosse necessario sottolineare la scadenza. Questo fino a ieri.

Da quando lavoro da solo, la prospettiva è cambiata completamente. Essendo drasticamente diminuito il numero di deadline provenienti dall'esterno, ho vissuto un periodo in cui mi organizzavo giorno dopo giorno, avendo un numero di clienti abbastanza limitato. Ma ho scoperto che mi mancava qualcuno in grado di impormi le deadline. Perché, per dirla alla Seth Godin, "le deadline funzionano [...] sono uno strumento utile ed economico per farti prendere una decisione e poi partire". Il loro nome è fuorviante perché sono proprio le scadenze, se prese nel modo giusto, a tenerti in vita. Sono delle "live-lines". Quando chiamare un cliente, quando telefonare a un giornalista, quando finire una presentazione sono tutte scelte che, se sei un libero professionista, devi imporre su te stesso. E non è facile. Perché non puoi essere troppo indulgente, auto-assolverti e via. Le devi scrivere, le devi valutare, le devi rispettare. E devi giudicarti ogni giorno, il tuo capo sei tu. Contemporaneamente, il migliore e il peggiore possibile. Imporsi una deadline è un lavoro sporco ma qualcuno lo deve pur fare. Perché è utile.

giovedì 3 giugno 2010

Free media

«Guai a discendere in una nazione di blogger». Questa dichiarazione è di Steve Jobs. Che prosegue: «Se una democrazia vuole funzionare seguendo un processo libero e sano ha bisogno dell'informazione di qualità. Mi riferisco a giornali come il Washington Post, il New York Times, il Wall Street Journal. Restano centrali al processo …». Qual'è quindi la soluzione per il grande patron della Mela, il creatore del "magico" iPad? Il pagamento del contenuto. Uno può essere d'accordo o meno sulla questione, ma il punto è un altro: il futuro dei media.

Che i blog non possano essere l'unica risorsa informativa del Web penso siamo tutti d'accordo. Hanno una funzione molto importante ma non possono soddisfare tutte le esigenze degli utenti. Tuttavia, i blogger hanno contribuito a far capire ai media una cosa fondamentale: non siete i soli a comunicare. Il giornalismo di oggi ha bisogno di evolversi e in fretta. Non deve arroccarsi su posizioni reazionarie e indifendibili (come sta facendo) per mantenere quello status che ha avuto fino a qualche anno fa. Il pubblico ha bisogno di avere fonti e professionisti che lavorino per fargli capire cosa succede nel mondo e perché. Ma come realizzare i nuovi media? Bella domanda. Ma la risposta non può essere semplicemente "creiamo nuovi contenuti online e mettiamoli a pagamento". Ci vuole un po' di rispetto per chi legge.

Se una rivista cartacea molto costosa da fare come Wired Italia mi permette di abbonarmi per due anni (24 mesi) a 30 Euro (con un risparmio netto di 66 Euro, dato che costa 4 Euro a numero), non è perché sono pazzi. Ma perché i (pochi) investitori pubblicitari fanno si che i (molti) abbonati paghino molto poco per accedere ai contenuti e alle loro pubblicità. Chris Anderson ce l'ha ripetuto più volte su Free. Ora io mi chiedo: cosa impedisce a un editore di realizzare un quotidiano nato e pensato per il Web, con costi sensibilmente inferiori a un'ipotetica versione cartacea e renderlo accessibile in modo gratuito? Ovviamente, dovrebbe trovare un modo intelligente per far apparire una qualche forma di advertising, non troppo invasiva (non se ne può già più delle home page brandizzate del Corriere.it) e "intelligente". Video virali? Gallerie fotografiche dei prodotti? Vedremo. Intanto, pensiamoci. La scelta di mettere a pagamento i contenuti "mobili" del Corriere.it e della Gazzetta.it ha avuto un unico risultato su di me: che leggo lastampa.it.

Non possiamo essere una nazione di blogger? D'accordo. Ma dobbiamo avere un'alternativa seria e gratuita per accedere a notizie, contenuti e informazioni. Se no, il mio Google Reader è sufficiente.