Visualizzazione post con etichetta brand. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta brand. Mostra tutti i post

venerdì 24 ottobre 2014

Il terrorismo della cioccolata

Leggo oggi la notizia che un'azienda belga che produce e vende cioccolato (ripeto, cioccolato) ha deciso di cambiare la propria denominazione che usa dal 1923. Come si chiama? ISIS Chocolates. Come capiranno tutti, il motivo è legato all'assonanza con un'organizzazione islamica diventata molto famosa nei media negli ultimi tempi. Al di là del fatto che spero vivamente sia una bufala (non ho avuto tempo di controllare ma lo farò e rettificherò in caso, da buon amante del fact checking), resta l'idea che il terrorismo ci possa condizionare in molti modi anche se non dovrebbe.

Come può pensare che una persona media possa farsi condizionare dall'acquisto di una barretta di cioccolata se questa si chiama come un'organizzazione islamica che controlla un territorio tra Iraq e Siria? E se domani nasce l'Islamic Brave Movement - IBM dobbiamo porci un problema di acquisto di un server? Ripeto, cambiare la denominazione di un'azienda quasi centenaria per motivazioni come queste la ritengo, oltre che un'idea poco strutturata, un danno di immagine non da poco. C'è da fare un rebranding totale con queste motivazioni? No, semplicemente.

Business is business, amici belgi. Tenete duro, tenete il nome e vedrete che festeggerete i 100 anni senza più patemi tra qualche anno.

(Photo credits: ISIS Chocolates)

martedì 17 dicembre 2013

Trovare clienti? Fa rima con dipendenti (e non con social media)


Lavoro da sempre nel B2B, spesso poco citato in statistiche, trucchi e "10 modi di..." presenti in tanti post in giro per il Web. Spesso prevalgono le logiche generali dei "clienti come persone" (B2C) anche quando questi sono aziende. Invece si tratta di un mondo a parte, con propri parametri e regole. Spesso è difficile spiegarlo in modo semplice.

Ci riesce, molto bene, una ricerca pubblicata da poco, sintetizzata in un'infografica (tipo di contenuto che non amo perché spesso privilegia la grafica e il numero ad effetto rispetto ai freddi dati, questa sembra una bella eccezione). Nella sostanza, come si trovano nuovi clienti nel B2B? Non ci sono scorciatoie 2.0, strumenti magici o pozioni "social" miracolose. Ci vuole tanto lavoro nell'utilizzare, al meglio, strumenti molto tradizionali come le mail, il telefono e gli eventi. In più, i case study e i testimonial funzionano. Sorpresi? Io non molto, è quello che vedo da anni.

L'analisi è chiara e interessante, mi limito a sottolineare tre aspetti:

  • Chi lavora in azienda (Internal/Inside Sales) trova più clienti: le motivazioni, la voglia di essere parte di un gruppo, l'impegno quotidiano portano più risultati degli "specialisti" esterni delle vendite. Spesso le PMI italiane si affidano a consulenti o a esperti esterni per fare il salto di qualità ma, come ho sempre visto fare, solo il duro lavoro quotidiano di gente con passione, e non così legata a premi e provvigioni, fa trovare buoni clienti. I soldi contano ma altre cose spingono anche di più.
  • Gli eventi contano ancora: in un periodo dove sembra che il contatto fisico sia quasi superfluo, superato dalla velocità e dalla facilità del virtuale, appare invece chiaro che ha una grande importanza. Difficile generare empatia, fiducia, entusiasmo attraverso uno schermo. Chiaro, si può generare un mix di iniziative per incontrare il cliente in più luoghi, reali e digitali, ma la stretta di mano, lo sguardo d'intesa, una battuta azzeccata conta ancora e tanto.
  • I Social Media non sfondano, anzi: tutti i luoghi "social" sono nella parte bassa dell'infografica, caratterizzati da una bassa efficacia nel trovare clienti nel B2B. Questo sottointende due fenomeni, complementari, ai quali assisto tutti i giorni: l'esagerazione della potenza dei network digitali che vedo in tanti addetti ai lavori (ne ho parlato spesso) si affianca a una sfiducia delle aziende verso luoghi nuovi, che non conoscono, strutturati per le persone e non per loro. Sono due posizioni estreme che tra qualche anno sono destinate ad avvicinarsi, senza dubbio. Ma i clienti bisogna trovarli oggi e questo è un fatto.
Fa bene ogni tanto leggere dati interessanti in posti che generalmente si snobbano, come le infografiche nel mio caso. Ma le lezioni si imparano spesso nei luoghi più disparati, basta provare a tenere sempre gli occhi aperti.

martedì 17 settembre 2013

Un nuovo logo? Prima fai un progetto, poi fai Yahoo!


Yahoo ha cambiato logo, come molti di voi sapranno. Tra le miriade di articoli che hanno commentato questa notizia mi è piaciuto soprattutto questo, apparentemente molto duro ma, a leggerlo bene, condensa una critica costruttiva talmente strutturata che non si trova spesso in un unico post. Ne estrapolo solo alcune frasi, che ritengo molto utili soprattutto come consigli da dare a chi deve fare un rebranding. Rimangono valide anche per molte altre iniziative di comunicazione.
1. Redesigning a logo for a $10 Billion Dollar company that is in deep trouble is not a matter of talented designers and personal preferences for design. It is not about fiddling. Doing it in a weekend is simply unprofessional. 
2. Branding doesn’t start with the logo. It is not primarily a visual discipline. Your brand is what you stand for. Branding is more about content than shape. It is who you are, not how you look. 
3. The hard part is defining what your brand is and what it aims to become. Your brand strategy follows your brand ambition, and your visual identity mirrors your overall brand ambition. Identity is not just how you look, it is what you say, what you do, what you are. What is Yahoo? Yahoo is not associated with being whimsical or sophisticated, rather it is mostly boring and dull. It doesn’t portray modernity or freshness, it feels obsolete and dated. There is no humanity in the brand identity, it’s computed, impersonal, scattered. 
4. Maybe the Yahoo she (Marissa Mayer) sees in the logo is the Yahoo she wants to build. A bizarro Yahoo, the opposite of what it is, a Yahoo that we have yet to see. It is not impossible, but highly improbable. Maybe, again, it’s all just bullshit. She is not describing Yahoo, she is just describing what the logo should convey. 
5. I am not writing about brand design, but about brand management. This is about a simple rule: Brand design follows brand management, not the other way around.
6. For a brand like Yahoo there is something more important than spacing, kerning, colors, serifs, or making designers angry at this point. No, it’s not getting attention. It’s gaining trust. Ironically, for that you need a reflective, clear, and consistent brand identity. A different logo powered by bullshit doesn’t convey identity and trustworthiness. It conveys desperation. 
Ho voluto lasciare il testo originale per mantenere inalterato lo spirito di quel post, una critica disperatamente costruttiva. Se fossi Marissa Mayer, mi sarei appeso la stampa di questo testo in ufficio ma lei è CEO di Yahoo, sa certamente cosa fare. Io, nel mio piccolo, riassumo queste sei piccole lezioni con parole mie:

  1. Cambiare la strategia di comunicazione di un'azienda non si fa in un weekend, neanche in una settimana. A meno che non ci si voglia prendere in giro da soli.
  2. Bisogna partire da quello che l'azienda è e da cosa vuole, poi si cambia il marchio. Fare l'opposto non serve a niente, si perde solo tempo con la grafica e i colori.
  3. L'identità di un'azienda si esprime in base a cosa si dice e e perché, non da come si decide di apparire. Ci sono bellissimi loghi che sono morti e sepolti, non è un caso, semplicemente non avevano nulla da dire.
  4. Bisogna esprimere quello che l'azienda è (mission), non cosa vuole diventare (vision). Una questione di rispetto nei confronti dei clienti, innanzitutto.
  5. Il design del marchio segue la strategia di comunicazione del marchio stesso. Ne è solo una parte, per quanto importante. Puoi avere un motore potentissimo ma senza pneumatici, freni, trasmissione e cambio non vai da nessuna parte.
  6. L'obiettivo non è ottenere attenzione dai tuoi potenziali clienti, è guadagnarsi la loro fiducia. Molto, molto, molto più difficile ma solo così ottieni risultati. Ci vuole un progetto, obiettivi definiti, una strategia e tante altre cose. Insomma, ci vuole molto più di un weekend.
Aggiornamento: ho scoperto ora che anche Bing ha fatto il restyling del logo. Vedendo anche il video di presentazione, non ho dubbi su quale sia il loro obiettivo: fare come Google (il logo ricorda anche a voi Google Drive?). Mica facile.

(Photo credits: http://www.itespresso.it/)


giovedì 30 maggio 2013

Una storia di loghi e di caffè a New York


Per gli americani, si sa, la comunicazione, il marketing e il brand sono cose serissime. Non è che queste cose le abbiano inventate loro (come sottolineo in questo post e ampiamente nel libro Promuoversi Mediante Internet) ma bisogna dare loro atto che le hanno strutturate e organizzate a dovere in quest'ultimo secolo. Si potrebbe dire che hanno fatto "Marketing marketing", ma sto andando fuori tema. Insomma, la comunicazione è una cosa talmente seria che va in prima pagina sul New York Times una banale, ma non troppo, questione di logo.

La faccio breve: avete presente il famoso slogan/marchio "I ♥ NY" con il cuore rosso di Milton Glazer? Una piccola catena di negozi di caffè della città ne aveva preso spunto per farne uno suo, mettendo una tazzina da caffè al posto del cuore. Idea nata da un tatuaggio fatto dal proprietario sulla sua mano nel 2009. Bene, il Dipartimento per lo sviluppo economico di New York ha reagito, mandando una lettera legata alla violazione del trademark e intimando al proprietario di toglierlo dai negozi. A malincuore, i proprietari hanno deciso di ascoltare la richiesta: il loro blog ora è così. Non è stato sufficiente: l'avvocato dell'agenzia deputata alla protezione di "I ♥ NY" (che pare abbia molto lavoro in questo senso in questi anni) ha chiesto loro di pagare una penale sui proventi avuti da questa violazione oppure acquisire i diritti di utilizzo del logo ufficiale (cioè milioni di dollari).

Il gran finale? Ancora non è scritto ma i proprietari della catena hanno deciso di cambiare logo, pur sottolineando di non essere convinti di infrangere la legge. Cosa ne penso io? Che probabilmente il dipartimento di NY ha esagerato, in fondo il proprietario promuoveva il suo caffè sottolineando, allo stesso tempo, l'amore per la sua città. Tuttavia, dimostra quanto attenti siano a queste cose, a una corretta comunicazione, alla tutela dei loro marchi, che non sono affatto cose negative. Certo, dal post si capisce bene quanto mi piaccia la reazione automatica di un avvocato su questi temi, io sono sempre per le soluzioni diplomatiche e in grado di portare benefici a entrambi, non solo a uno. Certo, sono in prima pagina del NY Times, non è poi così male. Io andrei da loro a prendere un caffè e a vedere quel tatuaggio se fossi lì. E voi?

Un ultimo particolare, non secondario. L'articolo prevede una correzione, segnalata in fondo, una rettifica di pochissimo conto: il tatuaggio è successivo all'apertura del primo bar della catena. Il NY Times, il più autorevole quotidiano del pianeta, lo fa di prassi. Io amo il NYT (lo dico in italiano e non prendo spunto da altri loghi, capirete anche voi il perché).

(Photo Credits: According2G e Banksy)

mercoledì 22 maggio 2013

Il caso Nutella e tre lezioni sul non aver paura


Scopro solo ora, con notevole ritardo, il caso di Sara Rosso (che ho personalmente conosciuto al KnowCamp di due anni fa), del World Nutella Day e dell'inspiegabile reazione della Ferrero a un'iniziativa che portava solo benefici all'azienda tranne per il fatto che non era un'iniziativa gestita dall'azienda stessa. La storia la spiega tutta e bene un altro amico, Sean Carlos, in questo post, io la riassumo velocemente: Sara organizza dal 2007 il World Nutella Day per celebrare un prodotto che ama, come altri milioni di esseri umani nel mondo, e qualche anno dopo la società produttrice le intima di oscurare blog, sito e presenza sui social media per tutelare la sua immagine, non essendo lei autorizzata a promuovere quel marchio ufficialmente. Dopo una forte reazione dei fan dell'iniziativa, la Ferrero capisce l'errore e fa marcia indietro, ringraziando allo stesso tempo Sara per la sua intraprendenza e la sua passione per la Nutella.

Tre piccole lezioni da questa storia a lieto fine:

  • Non aver paura di comunicare le proprie passioni. In questo caso si vede come Sara abbia passato delle brutte giornate dopo aver ricevuto la lettera degli avvocati della Ferrero ma, non avendo fatto niente di male, ha ricevuto il supporto di un sacco di persone che condividono la sua passione e che magari non la conoscono neanche. La Rete offre queste possibilità e non è poco.
  • Non aver paura di ammettere un errore. La Ferrero ha dimostrato di essere un'azienda seria. Ha fatto un errore, se ne è resa conto e ha fatto una veloce e decisa marcia indietro. Una "routine brand defence", come la definiscono loro su Facebook, non è mai una buona idea. Ogni caso fa storia a sé, le procedure automatiche arrivano solo fino a un certo punto poi deve entrare in gioco il team di esseri umani che ne cura la comunicazione. La Ferrero lo ammette (pur senza scuse dirette a Sara, sottolinea Maurizio Pesce su Wired) ed è un'altra buona notizia.
  • Non avere paura della Rete. Senza Internet, io di Sara Rosso e di Sean Carlos probabilmente non saprei nulla, così come di altri altri bravissimi professionisti che vivono e lavorano in Italia. In più, Sara e Sean sono americani ma vivono da noi e sono contentissimi di questo. In tre righe ho provato a sfatare qualche luogo comune tanto di moda ora. Piccolo contributo, lo so, ma sono piuttosto insistente.
Stamattina mi sono mangiato una brioche con la Nutella, senza sapere nulla di questi accadimenti. Domani lo rifarò, con una consapevolezza e un sorriso in più.

(Photo Credits: Paperblog)

martedì 15 gennaio 2013

Duecentoquindici conferme

La valanga di simboli elettorali, 215 per essere precisi, presentata al Viminale è impressionante da più punti di vista. Si possono fare analisi molteplici, principalmente politiche, e sono tentato visto quanto ho studiato nei miei anni all'università. Ma ora faccio altro, per i commenti sull'attualità politica Twitter basta e avanza. Nel mio blog, appunto, scrivo di comunicazione per cui andiamo subito al punto: volete avere un'idea chiara sull'attenzione, la cura e la professionalità con cui si gestisce la comunicazione in Italia? Date un'occhiata ai simboli dei partiti dal punto di vista grafico e dei contenuti. Un bagno di sangue. 

Ne trovate molti qui: consiglio vivamente quello della Lega (slide 4, un'accozzaglia di messaggi diversi che esprime perfettamente la confusione strategica e tattica presente nel partito nordista), quello del MIR (slide 9, "Moderati in Rivoluzione" è un perfetto ossimoro e l'apoteosi del non sense, il problema è che si prendono dannatamente sul serio) e quello dell'Udeur (slide 17, stilisticamente sembra disegnato da un bambino se non fosse che i bambini sono molto più creativi). Ma di orrori ce ne sono tantissimi: guardate la 19, la 21 (con la svastica reloaded), "Forza Roma" e "Forza Lazio", il 36 e il geniale "Forza evasori" alla 70. Immagini elementari, font improvvisate, cloni e chi più ne ha più ne metta. Si salvano in pochi. E parliamo delle elezioni politiche, il più importante evento della politica italiana e questo è quello che i candidati sono riusciti a fare. Esito molto deludente.

Non per tirar fuori sempre le solite analogie con gli Stati Uniti, ma guardare all'attenzione con cui scelgono, ad esempio, il logola font di una campagna dovrebbe essere molto istruttivo (e vedere anche le relative critiche, da una parte e dall'altra). Guardate il logo di Obama là sopra: c'è la O di Obama, un sole che nasce, stile minimal e accuratezza. Qui sta il punto: la cultura della comunicazione in America c'è, in Italia molto, molto meno. E questo si riflette per casi come questo. Non si vota un candidato perché ha un bel simbolo, ma un bel simbolo aiuta a capire perché si vota quel candidato. Perché dietro c'è professionalità, attenzione, studio e competenze, tutti valori che mi vengono trasmessi in modo intuitivo e diretto. Abbiamo grafici scarsi? Tutto il contrario, il problema che quelli bravi raramente vincono le commesse importanti. Siamo in Italia, bellezza, conta altro. Conta la tribù.

venerdì 14 dicembre 2012

Il destino è nel nome


Qualche giorno fa c'è stata una bella discussione su Facebook (promossa da Gilberto Dallan, da seguire su Twitter se già non lo fate) sul naming da dare a prodotti e/o aziende, se fosse meglio utilizzare nomi di fantasia o nomi reali. Io ho detto velocemente la mia: per i prodotti, mi sono sempre piaciuti i nomi reali, focalizzati su una caratteristica specifica del prodotto e derivanti da un bel brain storming, per le aziende invece risultava più difficile scegliere un nome reale. Sull'argomento del naming, tema sempre affascinante (vedi qui e qui), ci tornerò più spesso più avanti, anche perché ci sto riflettendo anche per motivi professionali, per l'azienda dove lavoro. Perché "il nome è un soffio divino".

Proprio riguardo al naming, sono sempre rimasto piuttosto freddo sui nomi dei prodotti dati dall'azienda che per inventiva produttiva e comunicativa è, senza dubbio, la numero uno: Apple. Concordo in pieno con quanto dice Seth Godin in uno dei suoi ultimi post su questo tema. Il nome di quei prodotti non ne esprime in pieno la qualità e le potenzialità: l'iPhone è molto più di un telefono, anzi la sua componente telefonica è senza dubbio di peso minoritario rispetto al resto. Allo stesso modo, il naming dell'iPad mi ha sempre lasciato dubbioso, scontato e poco di appeal. Però le vendite danno ragione a loro e questo basta. La cosa che fa riflettere è che questi nomi arrivino da un'azienda che ha scelto un brand con un nome semplice e reale ma che racconta una, o decine, di storie, già solo pensando alla sua genesi. Trasmette un'idea di semplicità, di pulizia, di immediatezza, di riconoscibilità che, diciamocelo, ha contribuito in modo netto al successo della società. La mela luminosa che vediamo in decine di film che lo ricorda ogni sera.

Sembra strano che un'azienda così avanti dal punto di vista della comunicazione non riesca a partorire nomi più brillanti e d'effetto. Ora che la qualità dei concorrenti si avvicina, penso che dovrebbero ripensare anche al naming dei prodotti. Utimamente stanno generando un po' di confusione anche nell'ordine dei prodotti (vedi qui): il Nuovo iPad (il 3) non è più quello nuovo (che è il 4, ossia "l'iPad con display Retina), l'iPhone 5 non viene dopo il 4 ma dopo il 4S (ci sarà un 5S, un 6 o cambiano?). Andate in un Apple Store e un po' di confusione vi nasce. In più, per chi lavorò, come me, alla comunicazione dell'iPaq, palmare Compaq sul quale HP non investì, i dubbi sull'origine rimangono.


In un mercato in cui i concorrenti puntano, e tanto, sul naming per far capire che la competizione si è alzata di livello, vedi la nascita del Lumia come nuovo corso di Nokia, farebbero meglio a rifletterci su. Nomen omen, il destino è nel nome.

martedì 16 ottobre 2012

Only good companies have good followers


Un giorno come tanti altri, vai a vederti il sito di un grosso brand, per cercare informazioni, per avere idee, per tanti motivi. Ti accorgi che c'è qualcosa che non va, niente di grave ma lo noti subito in un portale fatto con tutti i crismi. Il logo dell'azienda, mentre ci navigi dentro, viene tagliato. In realtà, anche alcune altre parti del sito sono strane, i caratteri diventano troppo grandi e poco "usabili". Nasce la tentazione "#epicfail": vai su Twitter, segnali la cosa ai tuoi follower e fai vedere che anche i grandi sbagliano. A me invece quell'azienda, quel brand sta simpatico, mi piace il loro modo di fare. Non ho loro prodotti, non ci ho mai lavorato insieme, non ho alcun "conflitto di interessi". Allora uso Twitter e segnalo loro il problema, semplicemente, direttamente, mettendo @nomeutente all'inizio, così la conversazione è tra me e loro. Sperando di fare cosa utile. Magari è solo un problema mio, penso.


Invece succede che poco dopo il grande brand mi risponde. Su Twitter. E mi ringrazia per aver segnalato il problema, prontamente girato al loro reparto IT e già risolto. #IEproblems, sottolineano. Eh, sì, lo so, ogni sito aziendale ha i suoi #IEproblems.


Rimango sempre sorpreso dell'estrema facilità e immediatezza con cui si può dialogare con un grosso brand: io ho segnalato loro un problema e loro mi hanno ringraziato. Penso a cosa sarebbe successo anni fa, con gli strumenti di anni fa: mando una mail, ok, a chi la mando, alla info, mah, chissà se la leggono, figurati se mi rispondono, ok lo faccio, ma devo accendere il PC, uffa... e dopo 5 minuti ti passava la voglia. Ora è bastato uno smartphone e un tweet. Ed è nata una conversazione. Poteva anche non nascere ma è mutato l'approccio.

Non è cambiato il mondo, per carità. Io probabilmente continuerò a non comprare i loro prodotti ma la prossima volta che vedrò quel marchio stampato mi ricorderò di questa conversazione, una piccola storia che finisce, ovviamente, con un Tweet: only good companies have good followers.


lunedì 7 maggio 2012

Comunicando con le stelle

Si parla tanto in questi giorni della terza stella che la Juventus vorrebbe mettersi sulle maglie, a significare la vittoria di 30 scudetti anche se, come sappiamo, i titoli ufficiali sono 28. Non è il posto giusto per essere tifosi e infatti non lo sarò, mi preme invece sottolineare un aspetto: fu una semplice ma efficace idea di marketing. Nel 1958 la Juve vinse il decimo scudetto e Umberto Agnelli ebbe l'idea di indicare con una stella questo risultato sportivo. Da allora, la consuetudine prese piede perché fu ritenuta una bella iniziativa ma, è opportuno precisarlo, questo utilizzo non è previsto esplicitamente da alcuna norma di Federazione e Lega in Italia (in Germania è diverso).

Le stelle ora sono presenti sulle maglie di squadre di club e nazionali (in relazione ai Mondiali vinti) di molti Paesi, a sottolineare in modo semplice e chiaro il palmares della squadra. Si tratta di un segno distintivo, non ufficiale, della storia e delle vittorie del club. Le società non sono tenute a seguire questa consuetudine (il Manchester City ha tre stelle sullo stemma ma per tutt'altre motivazioni) ma l'idea di far sentire in modo diretto il peso dei risultati ottenuti è molto efficace. Pensiamo ad altre tipologie di aziende, in altri ambiti, e questo esempio sportivo potrebbe essere utile per avere idee analoghe per promuovere il brand. Una stella per ogni decennio di attività? Un simbolo per elencare il numero di continenti nei quali si vendono i propri prodotti? Gli ambiti di applicazione potrebbero essere tantissimi.

Un logo "in fieri" l'abbiamo visto spesso ma quasi esclusivamente per segnalare i 20, 50 o 100 anni di attività. Nessun cenno ai risultati raggiunti. Perché no? Potrebbe essere un modo nuovo per differenziare i marchi italiani da quelli di altri Paesi. Pensiamo alle imprese tedesche attive nel settore automobili: quasi tutte si sono inventate un claim in tedesco, per sottolineare in modo chiaro e diretto la loro provenienza, ossia una terra percepita come il regno di efficienza, organizzazione, produttività. Il nostro marchio "made in Italy" è bello ma un po' logoro (ed è sovrastato dall'Italian Sounding), ci potremmo inventare qualcosa di diverso per fare gioco di squadra. Che siano stelle o altre idee, l'importante è far capire chi siamo e cosa abbiamo ottenuto. "Mi domando se le stelle siano illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua" disse Antoine de Saint-Exupéry. Iniziamo a cercarle, intanto.

giovedì 8 settembre 2011

Lo strano caso dell'assassino col coccodrillo verde

La protezione del proprio marchio è sempre una priorità per ogni azienda. Ma ci sono casi in cui questa attività di tutela deve gestire casi inaspettati e causati, paradossalmente, dal proprio successo. Pare che la Lacoste, notissima impresa produttrice di abbigliamento, stia cercando di difendere l'integrità del suo famosissimo coccodrillo da una potenziale crisi d'immagine (leggi qui e qui). Il logo dell'azienda, inconfondibile, appare spesso sulle polo indossate dal pazzo norvegese che ha ucciso 69 persone il 22 luglio scorso (di cui non scrivo il nome, volutamente). Per questo, l'azienda francese, a quanto pare, sta lavorando sotto traccia per fare in modo che il killer indossi abbigliamento diverso da quello prodotto da loro. Ci riusciranno? Vedremo.

Un caso sicuramente interessante a livello di comunicazione. Risulta chiaro a tutti che non ci può essere nessun legame tra la follia omicida e una polo, di qualunque marca sia, e per questo non dovrebbe rappresentare un problema. Ma la continua presenza di immagini che accostano il celebre coccodrillo verde a un efferato assassino non può certo far piacere ai vertici aziendali. Uno dei principali tabloid norvegesi, il Dagbladet, sostiene che l'assassino indossa queste polo perché sono un simbolo di "istruzione e di un carattere conservatore". Caratteristiche per nulla negative per l'azienda che le produce, se non fossero contestualizzate nel loro legame diretto con le deliranti parole di un pluriomicida. Allora la Lacoste fa bene a cercare di convincere la polizia norvegese a trovargli un guardaroba diverso?

Dico la mia: non si può pensare di evitare casi simili. Non si può impedire a qualcuno, neanche a un assassino, di vestirsi come vuole, di bere una certa birra, di usare una particolare auto. Lo stesso protagonista di American Psycho, famoso libro di Bret Easton Ellis, descrive minuziosamente tutti i marchi dell'abbigliamento che indossa lui e quelli che incontra, quasi tutti di aziende con marchi prestigiosi e affermati, spesso italiani. Non mi pare che questo abbia creato problemi nei confronti delle società stesse, anzi la definirei pubblicità gratuita. Dato che non c'è nessun legame possibile tra il marchio e il crimine, se fossi il responsabile comunicazione di Lacoste probabilmente sottolineerei che l'azienda è vittima del proprio successo commerciale. "Le nostre polo sono talmente diffuse che vengono indossate anche da un criminale efferato. Ci dispiace ma, purtroppo, non ci possiamo fare niente". Non farei pressioni, è una non notizia: se avesse magliette di H&M o di qualunque altra marca sarebbe un assassino diverso? 

Per chiudere, dal 1933 la Lacoste continua a vendere polo dove campeggia l'immagine di un "rettile squamato, carnivoro e talvolta cannibale, che vive in laghi e paludi" (che René Lacoste mi perdoni). Se l'azienda si è conquistata la fama di produttrice di abbigliamento per persone istruite e conservatrici, evidentemente i clienti hanno guardato altre cose. Voi che ne dite?

giovedì 22 luglio 2010

Elogio della giovinezza (in azienda)

"Essere giovani in Italia è uno svantaggio". Questa frase è venuta fuori durante un incontro che ho avuto con un'azienda veneta molto dinamica, efficiente e ... giovane. Sono parole che sarebbero state sorprendenti se pronunciate in uffici di aziende di molti paesi europei. In Italia, mica tanto. Ho vissuto numerose volte l'esperienza di essere guardato con un po' di sufficienza da responsabili aziendali solo perché avevo 35 anni. Come se uno in Italia non potesse avere 10 o più anni di esperienza nel settore a questa età. Come se si fosse poco più di ragazzini neolaureati. In numerose aziende estere, tanti 35enni hanno ruoli manageriali di alto livello. Non perché queste società amino il rischio più di noi ma perché, contrariamente a noi, investono sul proprio futuro. L'esempio delle nazionali di calcio di Spagna e Germania ai mondiali 2010 esce dalle linee di gioco dello sport. E' un esempio di cultura. 

Quella frase è stata detta mentre consigliavo all'azienda in questione di continuare a dare visibilità al proprio staff, di età compresa tra i 28 e i 40 anni, a livello di comunicazione. Le scelta di inserire numerose foto dei loro giovani professionisti nella loro documentazione aziendale offriva un impatto notevole, perché esprimeva visivamente la fiducia che la società ripone in loro. Una scelta, paradossalmente, quasi rivoluzionaria. Basta guardare brochure aziendali, siti Web, corporate magazine nostrani: gli under 40 sono più rari dei panda. Ma è una scelta sbagliata. Probabilmente perché in Italia c'è un "effetto bamboccione" e non si vuole rischiare di sminuire l'immagine aziendale. O perché in Italia è difficile che qualche 30enne arrivi a contare qualcosa in aziende dominate da imprenditori geniali ma rigorosamente over 60. Ma i tempi sono cambiati. Secondo Chris Anderson, direttore di Wired USA, stiamo attraversando la terza rivoluzione industriale. E questa rivoluzione ha bisogno di persone che hanno l'attitudine, le capacità e l'entusiasmo non solo per cavalcarla ma anche per capirla. Risorse che hanno meno di 40 anni. E che vogliono responsabilità, non fare gli stagisti. 

martedì 2 marzo 2010

Perdere il controllo ... gradualmente

Come sempre, molto interessante. La mappa del controllo della reputazione realizzata da Gianluca Diegoli sul suo blog mi ha fatto riflettere su recenti incontri che ho fatto con nuovi potenziali clienti. Si inizia inesorabilmente col parlare di nuove idee per "sfruttare le potenzialità del Web" per poi finire, altrettanto inesorabilmente, col discutere se fare un blog (dopo opportuna spiegazione di cos'è, quali pregi ha e anche quali difetti) o un nuovo sito. Non si va oltre perché l'interesse dell'interlocutore si focalizza sempre su cosa si pubblica, su chi lo controlla e su chi lo verifica. Si pensa al nuovo con un'impostazione vecchia, appunto con il mito del controllo. Si continua a vedere Internet come a una vetrina (io ti espongo la cosa, tu la guardi e ti fai un'idea) non come a un posto in cui creare relazioni. E poi si finisce spesso con un'analisi sul brand, con l'implicita sicurezza che questo dipenda dalla forma, dai colori e dai contenuti offerti dall'azienda. Questa certezza è crollata da tempo, come ci diciamo tra noi "addetti ai lavori". Ma il resto del mondo cosa ne pensa?

Non so se sia un problema di cultura generazionale. O magari di una generica paura dell'ignoto, di un'interlocutore che sta al di là dello schermo, di cui non ho biglietto da visita né colophon da controllare. So solo che spesso avverto l'esigenza di avere uno strumento pratico, facile e "tranquillizzante" da tirare fuori per  far capire a chi mi sta di fronte che "perdere il controllo" non è sempre una cosa negativa. Che l'azienda si può aprire all'esterno senza paura di essere criticata per un prodotto non troppo "innovativo" perché l'importante è creare una relazione diretta con le persone che poi lo dovranno usare. Non sono così pessimista: se si inizia a parlare di blog (quando cinque anni fa si faceva fatica a parlare di Web), forse una strada c'è. Ma c'è bisogno di passaggi progressivi, comprensibili e tranquillizzanti. 

Un esempio personale. In 10 anni non sono ancora riuscito a far capire completamente a mio padre cosa faccio per vivere. Bello, pensando che lavoro nella comunicazione. Recentemente gli ho fatto vedere i contenuti che ho realizzato per un sito Internet e si è fatto un'idea molto più chiara. In mezz'ora e senza bisogno di tante spiegazioni. Ne ha intuito subito l'utilità. La [mini]mappa è molto chiara per uno come me ma non credo sia adatta per i miei soliti interlocutori. Per questo, sto pensando a quale strumento poter utilizzare a questo scopo: una presentazione su Slideshare? Una nuova sezione del blog? Un virale su YouTube (magari molto simpatico, come quello qui sotto)? La mia è una domanda aperta. Spero arrivino suggerimenti, meglio se incontrollati.

lunedì 22 febbraio 2010

Rebranding: il primo passo è guardarsi allo specchio


"Il rebranding è quel processo con cui un prodotto o un servizio sviluppato e distribuito con un nome, un marchio o sotto il nome di una ditta, viene reimmesso nel mercato sotto un altro nome o una diversa identità" (Wikipedia). E' un ambito molto interessante della comunicazione aziendale, pensiamo solo al caso di Philip Morris che si trasforma in Altria Group per rilanciarsi e ritrovare una certa verginità (almeno temporaneamente). Ma anche in Italia i casi sono numerosi, specialmente in caso di acquisizioni. Il settore multiutility ne contiene numerosi, dalla lombarda A2A (nata dalla fusione della milanese Aem e di Asm Brescia) alla veneziana Veritas (creata dall'unione di Vesta, Asp e Acm). Ma se si cerca un approfondimento per comprendere bene questo processo, molto complesso e delicato al tempo stesso, si trova pochissima bibliografia, quasi tutta statunitense.

Un ottimo punto di riferimento per avere informazioni e, soprattutto, casi di successo è il portale www.rebrand.com. Questo mi è stato molto utile per iniziare a valutare come gestire un processo di questo tipo, anche perché ce ne sono numerosi, dall'evoluzione del marchio per scelta aziendale al cambiamento del brand dell'azienda o di un prodotto a seguito di acquisizioni. In un mondo sempre più "relazionale", il brand non è più un messaggio unidirezionale che viene dall’azienda ma è quello che la gente, gli utenti, i clienti pensano dell’impresa stessa. E' un processo di affermazione che si traduce in un nuovo approccio a 360 gradi, non solo in un nuovo logo. Ci vuole una strategia che consenta di:
  • Comprendere a fondo la situazione reale, analizzando soprattutto come un marchio sia percepito dall'esterno;
  • Realizzare un progetto specifico e personalizzato di rebranding;
  • Organizzare un gruppo di lavoro (che può includere professionisti interni ed esterni alla società) preposto per portare avanti questo progetto;
  • Mantenere il progetto in costante evoluzione (il rebranding si trasforma in brand management).
Il rebranding è un processo complesso perché porta l'azienda e il suo management a doversi analizzare in modo obiettivo e concreto, evidenziando quello che va e, soprattutto, quello che non va. E questa è una strada difficile, specialmente per la grande maggioranza delle aziende italiane. "Noi acquisiamo loro per cui tutto quello che facciamo noi è migliore" o "da noi si è sempre fatto così, non si può cambiare" sono concetti insiti nel DNA di molte imprese nostrane. Ma per portare avanti un nuovo brand, si deve prima sapere "chi siamo" per poi valutare "chi vogliamo diventare". E questo si fa coinvolgendo numerosi responsabili interni (che hanno il polso reale della situazione) ed esterni (che hanno una valutazione più obiettiva sulla percezione del brand), senza temere la "lesa maestà". Il primo passo per un progetto di rebranding è molto chiaro: un'autocritica costruttiva.