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venerdì 19 giugno 2015

Juventus, un problema d'immagine (non solo suo)

Immagini, calcio e polemiche. No, non è la solita storia di tifoserie e di violenze ingiustificate, qui si tratta di un problema di immagine, anzi di un'immagine. La Juventus ha dato inizio alla propria campagna abbonamenti con una campagna di comunicazione (sì, è tutta campagna). Questa è incentrata su una foto ad effetto, quella che si vede qui sopra. Bene, é venuto fuori che la stessa immagine, o quasi, era stata usata da una squadra spagnola di terza divisione circa due mesi fa. E son partite le polemiche su plagio e affini. Spiega tutto molto bene Michele Boroni qui: la foto, la stessa, è stata presa legittimamente da entrambe le società (o dai loro partner) da un portale specializzato (Shutterstock). Infatti il Badajoz, la squadra spagnola, l'ha presa benissimo.
Qual è allora la questione? Le foto spiegano più di mille parole, si dice, ed è verissimo. Il problema è che fare belle foto, quelle che "parlano" da sole, non è affatto facile. E un fotografo costa. Ci sono portali che hanno migliaia di immagini a portata di mano, per pochi euro. Problema risolto e tutto a posto quindi? Non proprio.

Il problema è che spesso quelle foto sono belle e "parlano" ma non nella nostra lingua e con la nostra voce aziendale. Quante foto della stessa modella vediamo sul catalogo di prodotti di un'impresa e, allo stesso tempo, su un sito di incontri? Quante riunioni di manager 30enni di ogni etnia vediamo in centinaia di siti di Pmi nostrane (fossero verosimili sarei contentissimo, sia chiaro)? Tante, troppe. Foto che parlano ma non comunicano niente della nostra unicità, anzi.

Shutterstock non fa nulla di male, soddisfa una necessità. Il problema sta in chi compra, in chi non spende tempo e risorse per provare a parlare davvero ai propri clienti. L'alta qualità delle foto è un limite, ma per provare basta una Reflex o un iPhone. La vera questione è questa: non si sa cosa dire, allora si fa come gli altri. Non si perde due ore a sperimentare. Non si coinvolge un fotografo freelance per vedere l'effetto che fa. Perché no?

Care aziende, sperimentate! Shutterstock e i suoi simili sono sempre lì. Al massimo si rischia di dover giocare un'amichevole con una squadra di terza serie spagnola. Avere rispetto dei nostri utenti e dei nostri clienti, di chi ci guarda e ci legge, quello sì che è difficile.

P. S. Nell'azienda dove lavoro, le foto sono tutte nostre, senza alcuna eccezione. L'ispirazione l'abbiamo presa da altri, certo, però l'esecuzione è tutta nostra, con i difetti e le imperfezioni. Noi siamo quelli lì.

venerdì 14 febbraio 2014

I minori sui media: cinque riflessioni quotidiane


Leggo un bell'articolo di Wired sulla scelta di una mamma di non pubblicare le foto di sua figlia su Facebook, Twitter o altri luoghi. Se mi leggete un po', sapete che la questione delle immagini dei minori è un mio pallino da un po' (vedete qui). Ritengo che ognuno con le sue foto ci fa quello che vuole, e questo vale anche per quelle dei figli, di cui i genitori tutelano i diritti. Proprio per quest'ultimo motivo, non voglio dare consigli, solo qualche spunto di riflessione con cinque semplici domande:

  • Siamo sicuri di conoscere bene le nostre impostazioni di privacy sui vari social network?
  • Sappiamo che le foto che pubblichiamo su Facebook appartengono a Facebook che può farci, più o meno, quello che gli pare?
  • Siamo sicuri che i nostri figli approveranno, quando capiranno cosa vuol dire, la nostra scelta di pubblicare online le loro foto in modo massivo e in totale buona fede?
  • Siamo sicuri di essere così diversi dagli adolescenti che talvolta critichiamo per il fatto che "mettono tutto online"?
  • Siamo sicuri di essere consapevoli del nostro ruolo di produttori di contenuti e di informazioni di cui abbiamo la responsabilità?
Se le risposte sono tutte affermative, c'è già stata una bella riflessione a monte, che è quello che serve davvero. Se non sono tutte affermative, meglio pensarci su due minuti. Non costa quasi nulla. Io cerco di farlo tutti i giorni.

giovedì 28 novembre 2013

Meno tweet, più qualità: mi do una regolata

Sostengo da sempre l'idea che la facilità di pubblicazione di qualsiasi cosa sui social media possa essere controproducente nel lungo periodo. La definirei "la sindrome di whatsapp": è gratuito, semplice da usare e veloce, troppo facile abusarne (come sa il mio povero telefono costretto a vibrare tantissimo alcune sere). Questo può andare a discapito della qualità delle informazioni che si veicolano verso chi ci segue. Ma c'è un altro aspetto: questa abbondanza di aggiornamenti eterogenei e diversificati può dare una percezione fuorviante di quello che siamo e quello che vogliamo dire verso l'esterno. Me l'ha fatto notare una persona che stimo: tutte quelle news davano l'idea che pubblicassi, pur in buona fede, tutto quello che mi passava in mente, senza filtri critici né riflessioni sufficientemente approfondite. Non era così, mi sono detto di getto. Pensandoci su, rileggendomi a freddo e leggendo altre riflessioni, non ho potuto non dargli ragione.

Per questo motivo, visto che parlo spesso dell'importanza delle policy per le aziende nella comunicazione, mi do io una policy, un'autoregolamentazione sulla mia attività sui social media. Voglio dare più qualità nelle cose che dico, scrivo e comunico, quello che ho sempre cercato di fare sul blog (i post esigono tempo, una notizia concreta e più di una riflessione). Per questo, mi do queste semplici regole:

  • Limitare i miei aggiornamenti di stato, selezionando accuratamente le cose che scrivo e dandomi un limite massimo giornaliero (al massimo 5 tweet e 2 aggiornamenti di stato su Facebook e Google+, se in alcuni giorni non ho niente da dire va bene così).
  • Prendermi un tempo minimo di riflessione: pubblicare la mattina presto dopo aver riflettuto la sera oppure pubblicare la sera dopo averci pensato durante la giornata, davanti a un caffè o in un momento di pausa dal lavoro.
  • Puntare alla massima qualità: ogni cosa che scrivo deve essere potenzialmente utile per chi mi legge, ogni foto che pubblico deve avere un livello accettabile di creatività.
Essere online è una parte della mia vita attuale e non ritengo obiettivamente di averla vissuta male o di averne abusato. Però è giusto, ogni tanto, esaminarsi un pochino dall'esterno e provare a giudicarsi senza filtri né facili autoassoluzioni. Io ci provo e vediamo come va. Scommetto da sempre sulla qualità delle informazioni che comunico e non sulla quantità. Continuerò a farlo, con ancora più consapevolezza.  

mercoledì 30 ottobre 2013

Cose che contano e che non possono essere contate


I numeri non sono tutto, anzi diventano pericolosi se diventano l'unica cosa alla quale si corre dietro. Si rischia di essere attratti da sistemi e scorciatoie che permettono di avere numeri gonfiati ma del tutto inutili se si guarda alla sostanza. Gli obiettivi professionali e aziendali non possono limitarsi a un numero, perché questo conta ma non è tutto. Come la pesi la qualità di un'informazione, di un prodotto, di una persona? I fattori sono tanti, alcuni non sono numerabili esattamente. Correre dietro a profitti, follower, amici, articoli pubblicati, mentions e tante altre cose è utile se fatto con professionalità, serietà e buon senso. Come le pesi queste cose? Si tratta di un'analisi lunga, con parametri oggettivi e soggettivi, non si scappa.

"La fabbrica non può guardare solo all'indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia" diceva Adriano Olivetti, di cui ho guardato la serie sulla RAI e della cui vita approfondirò molte cose perché finora, semplicemente, non l'ho fatto. Sostituite "fabbrica" con "professionista" e ottenete lo stesso risultato. Guardando solo ai profitti o ai numeri, si scelgono inevitabilmente le vie che sembrano e ripeto sembrano, più facili per ottenere risultati di breve, brevissimo periodo. Si investe poco sulla qualità e su tante altre cose meno tangibili ma altrettanto importanti. Ora viviamo una specie di ideologia legata ai numeri semplicemente perché li abbiamo lì', tanti, facili, ci pensano le macchine a fare il lavoro sporco. E, ripeto, è facile esserne affascinati e convincersi che possono darci tutte le risposte. Non è così. Ci dicono tanto (vedi anche qui), non tutto.

Per ottenere certi risultati servono anche cose come empatia, intuito (vedi qui), fiducia, sicurezza nei propri mezzi e sincerità nei confronti di chi ci guarda, ci legge, ci valuta. Cose non pesabili ma che contano e contano tanto.

martedì 24 settembre 2013

Guerrieri


Oggi un post veloce veloce (parecchio lavoro incombe e poi ogni tanto bisogna sintetizzare, no?). Con un piccolo esperimento. Aprite Twitter, se avete un profilo, e cercate l'hashtag #guerrieri. Io l'ho fatto per capirne di più di questo progetto di comunicazione di Enel e mi sono trovato davanti un risultato molto particolare, bianco e nero, senza grigi:
  • Chi ne ha una percezione molto positiva: gente collegata a Enel o che ci lavora, testate giornalistiche, illustri guru del marketing online che mettono parecchi punti esclamativi, persone che scrivono le loro storie personali in modo bello e spontaneo.
  • Chi ne ha una percezione molto negativa: tutti gli altri.
A quanto sembra, non esiste via di mezzo. Lasciamo tempo al tempo e vediamo se la campagna produrrà qualche frutto. Nel mio piccolo, mi limito a sottolineare una cosa: se in Italia fai le bollette tra le più care d'Europa, anche se la situazione è in lento miglioramento, è dura mettersi così, all'improvviso, dalla parte delle persone che quelle bollette fanno una fatica boia a pagare. Una semplice campagna di comunicazione non basta se dietro non c'è qualcosa di concreto, oltre a dare uno spazio online e a spingere a fare storytelling. Si rischia che la gente si senta presa in giro. Rischio grosso. "Il guerriero non è chi combatte, è chi sacrifica se stesso per il bene degli altri" diceva Toro Seduto. 


(Photo credits: http://northdakotacowboy.com)

giovedì 29 agosto 2013

La sottile linea che unisce le conversazioni


Qualche giorno fa ho avuto una bella discussione su Google+ (sì, avvengono anche lì, la trovate qui) sulle conversazioni e su come alcuni social network, che teoricamente dovrebbero facilitarle, di fatto non le rendono così semplici da iniziare e seguire. Un esempio significativo di questo era Twitter: ottimo per fare tante cose ma non per conversare, con botta e risposta slegati tra loro e difficili da seguire sulla propria timeline. Bene, Twitter ha ascoltato noi e tanti altri e ha annunciato un update molto importante sia delle app mobili che di Twitter.com proprio per semplificare la vita agli utenti e permettere loro di "vedere" le conversazioni che fanno loro e le persone che seguono. Il tutto è già operativo: se aprite Twitter trovate una sottile linea colorata (rossa, grigia o altro, le differenze cromatiche sono uno dei misteri non risolti) che collega, anche visivamente, vari tweet.

Era ora, come dice Massimo Cavazzini (aka Max Kava) e altri. Devono avere lavorato un bel po' dentro Twitter per trovare questa soluzione, il che è positivo perché dimostra che ascoltano i loro utenti su questioni non secondarie. I mercati sono conversazioni dice un vecchio e sempre attuale mantra e questi devono essere alimentati. Certo, come sottolinea bene Vincenzo Cosenza questo porterà anche delle conseguenze piuttosto complesse: saranno molto più visibili anche le conversazioni che includono critiche o segnalazioni non proprio positive. Penso sia uno stimolo in più a conoscere meglio lo strumento da parte di chi lo usa per motivi di business, penso a nuove policy definite e a tempistiche di risposta certe. E non sono cattive notizie.

Non esprimo pareri sommari, voglio vedere come mi trovo con questa nuova modalità. Però una cosa mi fa piacere: quando si replica ad un tweet, la conversazione viene spinta in alto nella timeline. Una soluzione che alimenta naturalmente lo scambio dialettico e che era una delle prerogative principali di un vecchio social network il cui sistema è servito a sviluppare Facebook. Tra il serio e il faceto, sostengo da tempo che possa essere un possibile modello di riferimento per i social network del futuro. Una piccola conferma c'è, nella forma di una sottile linea rossa (o grigia). 



martedì 28 maggio 2013

I minori sui media, social e non: iniziamo a rifletterci su


Leggo oggi un bel post di Massimo Melica sulla sempre troppo poco trattata relazione tra minori e giornalismo/comunicazione. Come gestire correttamente una notizia, di quelle brutte della cronaca ma non solo, che riguarda un minore? I giornalisti hanno regole piuttosto precise, che talvolta non rispettano ma che ci sono e sono molto chiare (essendo giornalista, le ho studiate). Consiglio a tutti di leggersi la Carta di Treviso, un manifesto di rara sensibilità che sottolinea non solo la tutela giuridica degli under 18 ma anche le responsabilità che si assume il maggiorenne giornalista che ne scrive e li fotografa. E c'è di più. Viene tutelato il principio di "difendere l'identità, la personalità e i diritti dei minorenni vittime o colpevoli di reati, o comunque coinvolti in situazioni che potrebbero comprometterne l'armonioso sviluppo psichico".

La Carta di Treviso è del 1990, è stata successivamente rinnovata e rivista nel 1995 e nel 2006. Per adeguarla alle nuove necessità, soprattutto in termini di strumenti di comunicazione, c'è stata un'attività di promozione della stessa nel 2012 ma, come appare subito evidente, c'è un grosso limite: è riservata ai "media" tradizionali. Era il 1990 e Tim Berners-Lee avrebbe definito il protocollo HTTP, il cuore di Internet, solo un anno dopo. Ora è evidentemente inadeguata a gestire il panorama mediatico attuale, il tempo passa per tutti, anche per le buone cose. Come dimostra anche il caso citato da Massimo Melica: c'era fretta di pubblicare la notizia, si è lasciata la foto di un amico (forse un minore) che non c'entra nulla col fatto. Una scelta infelice: io, lettore, avevo intuito che era il fidanzato presunto colpevole. Non una cosa da poco se si vuole tutelare l'armonioso sviluppo del ragazzo ritratto.

Il giornalista però si pone il problema, sa le proprie responsabilità, può spiegare le motivazioni (come fa a Melica) ed è già un atto importante. Se c'ero io col mio smartphone e i miei, diciamo, 10mila follower su Twitter (ne ho 1/25, per la cronaca), mi sarei fatto dei problemi a fotografare la scena e a condividerla? E se c'erano dei bambini? E se avessi legato alle immagini giudizi affrettati e non verificati (a proposito dei giudizi sommari 2.0, leggete qui)? Il problema non è piccolo: ognuno di noi oggi è produttore di contenuti e le responsabilità sul web sono difficili da attribuire e tutelare. Lungi da me pensare alle censure ma, lo voglio sottolineare bene, la Legge vale anche su Internet. Per questo, è bene iniziare a porsi il problema di gestire le immagini online di qualcuno. Iniziando da quelle dei nostri figli, ma questo sarà per il prossimo post.

(Photo credits: l'immagine, famosissima, è di Anne Geddes, modificata da me)

mercoledì 13 febbraio 2013

Elogio di una giornalista


L'annuncio delle dimissioni del Papa ha fatto il giro del mondo ma vedere come è nata la notizia dell'anno, o del decennio vedete voi, è molto singolare. Lo scoop è stato lanciato dall'Ansa, in particolare da Giovanna Chirri, che ha compreso immediatamente la notizia, ha fatto le sue verifiche e poi ha fatto il lancio ripreso poi da mezzo mondo. Cioè un percorso del tutto tradizionale, quasi conservatore, in un'epoca di social media, citizen journalism e news in tempo reale. Ma senza voler entrare nella filosofia comunicativa, fissiamo alcuni elementi importanti:
  • Competenza: la giornalista, vaticanista, ha saputo interpretare dal latino una notizia del tutto inaspettata, provvedendo a fare, prima di tutto, le verifiche del caso. Questo dimostra professionalità e  rigore metodologico nel trattare una vera e propria notizia bomba.
  • Velocità: come sa chi mi segue, non ritengo che la velocità della trasmissione di una news sia un elemento prioritario, la ricerca a tutti i costi dello scoop genera mostri informativi, spesso tanto gonfi quanto falsi. Meglio puntare sulla qualità. Tuttavia, con una notizia del genere, darla prima di tutti era un bel valore aggiunto. Sottolineo la velocità con cui ha fatto le verifiche del caso, nei confronti di un ambiente chiuso e stranamente spiazzato come quello del Vaticano. Rapidità e qualità.
  • Presenza fisica: quante volte vediamo sui giornali delle notizie che ci sembrano veri e propri comunicati stampa, che non hanno alle spalle un'analisi dell'annuncio e della sua forza? Perché i redattori le ricevono direttamente ai loro desk via mail (o su Twitter), notizie numerose e spesso non così rilevanti per il ricevente tanto quanto lo sono per il mandante. In questo caso la giornalista era sul luogo ("eravamo in pochi"), capace di "annusare" la notizia al volo e di dare al lettore (che in questo caso è anche un giornalista, visto che parliamo di lancio Ansa) un vero valore aggiunto.
In un post di qualche tempo fa dicevo che per ritrovare il suo ruolo nel prossimo futuro il giornalista deve ritornare al passato: formazione, professionalità, competenze, controllo dei fatti e delle fonti, presenza diretta sul campo. L'obiettivo è la credibilità, l'unica cosa che pagherà in un futuro di enorme quantità e poca qualità.

Leggetevi qui la cronaca di quei momenti fatta da Giovanna Chirri, raccontata da lei stessa. Trasuda passione per il proprio lavoro ed emozione. Ha sicuramente ragione Marco dal Pozzo quando dice che parlare di "scoop" oggi è un po' fuori luogo. C'è qualche bellissima eccezione, questa per esempio. E il merito va tutto a una giornalista che ha fatto la giornalista, prendendosi complimenti illustri ma mantenendo una grande umiltà. Altra dote non trascurabile in un'epoca in cui i redattori fanno, troppo spesso, solo personal branding.

mercoledì 12 dicembre 2012

L'Internet delle cose disconnesse


La piccola guerra nata tra Instagram/Facebook e Twitter, con attacco da una parte e rappresaglia dall'altra, è un sintomo dell'evoluzione che stanno prendendo i social network. Anzi, un'involuzione. Perché sono sempre meno social e prendono in considerazione solo il loro, limitato, network. Dal mio piccolo punto di vista, i risultati che ottengono sono questi:
  • Danneggiano della credibilità del proprio marchio, perché per futuli guerriglie legate a obiettivi di business piuttosto limitati, danneggiano chi li ha resi colossi, cioé gli utenti stessi. 
  • Rendono più difficile fare le cose che tecnicamente sono diventate semplici, come realizzare una foto, personalizzarla e condividerla. Nessun utente può essere contento di decisioni che complicano la sua vita online, perché si attende che questi cerchino di semplificarla, non fare l'esatto contrario.
  • Rendono meno divertente essere in quei luoghi, perché si ha la sensazione di essere meno liberi in luoghi che si stanno chiudendo intorno a noi. 
  • Ammettono di non avere una strategia di lungo periodo: i vari social network hanno avuto fortuna perché erano in grado di soddisfare esigenze specifiche e interessi diversi. Neanche Facebook, il più orizzontale, è riuscito a essere onnicomprensivo: la costosa acquisizione di Instagram e le difficoltà che incontra nell'adeguarsi alla rivoluzione mobile (vedi qui e qui) sono due esempi chiari di questo.
Insomma, stiamo vedendo l'Internet delle cose disconnesse, come si dice qui. Su Twitter ho detto frettolosamente la mia su questa guerra tra ragazzini digitali.


Bene, il risultato di tutto ciò? Ho scoperto l'esistenza e le caratteristiche di IFTTT, ossia "If This Than That". Cos'è lo spiega Alessandra Farabegoli molto meglio di me. La sostanza è: ti registri gratis, imposti una serie di regole e governi in modo automatico il flusso di molte azioni che fai online. Vuoi che i link che metti su Twitter vengano salvati anche da qualche parte? If this than that. Per carità, non sarà il nuovo colosso che avanza ma è un'idea (straordinaria) che raggiunge tre obiettivi: soddisfa una mia esigenza (molto sentita ultimamente), rende semplici le cose complicate, fa capire che Internet è, ancora, un mondo aperto.

Il padre di un amico mi disse una volta: non metto cancelli né inferiate intorno a casa mia, perché ti chiudono all'interno più che proteggerti dall'esternoSarebbe un buon consiglio da dare ai signori degli antisocial network.

venerdì 16 novembre 2012

Collaborazione vs antagonismo


Tra ieri sera e oggi mi è accaduta una cosa, che riflettendo a posteriori potrebbe essere utile per iniziare a creare un piccolo modello di collaborazione tra giornalisti e cittadini, non di sterile antagonismo che oggi non ha più senso di esistere. Il tutto in una logica di fact checking ma non solo. Spiego l'accaduto, poi la riflessione.
  • Il Corriere della sera pubblica ieri un articolo a firma di Guido Olimpio sui nuovi missili Fajr 5 che minacciano Israele. 
  • Nell'articolo originale c'è un evidente refuso: la testata del missile, si scrive, ha un peso di "907.100 chilogrammi". Non può essere, quello è il peso di un treno completo di locomotive e vagoni.
  • Io via Twitter (vedi sotto) e un lettore attraverso i commenti segnalano l'evidente errore. 
  • L'articolo viene corretto, bene così per tutti, sia per chi l'ha scritto che per chi dovrà leggerlo.

Nella sostanza, una cosa senza rilevanza particolare. Tuttavia, riflettendoci su, ho ripensato a quello che ho fatto:

  • ho segnalato l'errore su Twitter in modo da segnalare ai miei follower, e non al giornalista, che il Corriere della sera aveva preso una bella cantonata.  
  • Ci ho pensato su. Era un chiarissimo refuso (senza fantomatici secondi fini), perché non segnalarlo al redattore in modo tale da far correggere l'articolo? 
  • Il giornalista mi ha risposto. La collaborazione reciproca per un mutuo interesse, il suo di autorevolezza, il mio di corretta informazione, ha portato al risultato. Insomma "un fact checking volante".

Cosa c'è che non torna, alla fine? Che chi legge l'articolo non ha percezione di questa collaborazione, lo legge o con l'errore (prima) o senza (poi). Perché non darne visibilità? Perché le testate non devono chiedere una mano ai lettori per fare un'informazione migliore?

Un box di "fact checking" in cui si ringraziano i cittadini che hanno speso un po' del loro (prezioso) tempo per aiutare un giornalista e una testata, non per danneggiarla. Magari, segnalando nickname scelto per i commenti, per Twitter o per altre cose. Un modo intelligente per "pagare in visibilità" e incentivare la collaborazione, non l'antagonismo. I giornalisti, come tutti noi, sbagliano anche in buona fede e iniziano a voler collaborare con i propri lettori. "Una volta che è pubblicata, una storia diventa di tutti" dice Nick Petrie del The Times (citato anche qui). Per questo, meglio iniziare a collaborare. "Possiamo pretendere che comincino politici e giornalisti, ma secondo me facciamo prima se cominciamo a dare, ciascuno nel suo piccolo, il buon esempio" dice Sergio Maistrello. Appunto.

mercoledì 14 novembre 2012

Meglio aver ragione che essere autoironici

Le immagini valgono più di mille parole, questo è un mantra di questo blog (un esempio qui e qui). Bene, ora guardate le due immagini qui sotto, sono entrambi di un sito di partito democratico.

 
La prima, un'immagine gioiosa ma elegante, sobria e curata, che esprime soddisfazione per un risultato importante e che ringrazia soprattutto chi sta dall'altra parte dello schermo ("grazie a voi"). Ogni protagonista guarda direzioni diverse, verso i loro elettori, con una qualità singola forte e d'impatto. Si vede ovviamente che non è una foto spontanea (su questo, ho già detto la mia) ma è stata scelta perché valida in ogni dettaglio.
 

La seconda, un'immagine che vuole giocare con l'autoironia, strizzando l'occhio alle generazioni più giovani, ma che è sostanzialmente autocelebrativa ("abbiamo vinto noi"). Non è curata dal punto di vista grafico (cosa voluta in modo evidente ma che, a mio parere, non è per nulla una scelta azzeccata) e tutti i presenti guardando verso il centro, portando l'attenzione sulla figura centrale, l'attuale segretario del partito. In più, c'è una bella marchetta nei confronti della tv che ha gestito il dibattito (per chiarire il quadro vedi qui e, soprattutto, qui).

So perfettamente che i contesti sono molto diversi ma la filosofia di fondo rispecchia nettamente una diversità di approccio davvero netta. La questione non è essere ammiratori di Obama o esterofili, è essere obiettivi nel giudicare la professionalità e le idee di chi comunica. C'è modo e modo di strizzare l'occhio ai giovani. Lo sottolinea perfettamente, e senza necessità di precisazioni, il tweet di Michele Boroni qui sotto riferito ai "Fantastici 5". Parafrasando una celebre frase, meglio aver ragione piuttosto che essere autoironici.

martedì 13 novembre 2012

Il futuro del giornalismo? Tornare al passato

Il possibile sviluppo futuro della figura del giornalista è un tema che mi interessa molto (vedi qui e qui). Una delle possibili opportunità di sopravvivenza del giornalismo è quello di far "esplodere" i fatti, interpretarli, semplificare le chiavi di lettura, al fine di essere davvero utile nei confronti dei lettori. Non potendo vincere la gara della velocità e della quantità di notizie con gli utenti dei social network (anche in ottica citizen journalism), devono ritagliarsi un ruolo importante nella qualità delle notizie, nell'approfondimento. Se la figura del giornalista ha un futuro, questa deve ripassare i requisiti di base che aveva nel passato: credibilità, competenza, fact checking, esperienza. Ossia tutte doti che l'uomo della strada, armato di smartphone e tablet, difficilmente può avere. Non deve raccogliere istantanee di presente, cercando lo scoop a tutti i costi. Al contrario, deve raccontare storie e lo deve fare con stile, semplicità e precisione.

Prendiamo un caso recente, quello di David Petraeus. Mi ha interessato da subito e, da subito, ho avuto la sensazione che ci fosse molto più da scoprire su questa storia (qui sotto il tweet che avevo scritto qualche amante fa, questo l'aggiornamento di oggi con il coinvolgimento del Generale Allen).


Allora mi sono messo a leggere qualche articolo, come questo: ditemi se ci capite qualcosa. Forse solo un esperto si soap opera ci trae qualche conclusione. Un sacco di informazioni, molte inutili ai fini della comprensione dei fatti (quanti figli ha ognuno dei protagonisti, ad esempio), nessun filo conduttore. Va bene, la storia è complessa, si intrecciano amanti e file segreti, scenari bellici e e-mail appassionate. Ma è proprio il giornalista che ha il compito di trovarci un ordine, per quanto ancora temporaneo in attesa di nuove conferme. Il suo ruolo è quello, mica farmi vedere quanto brutta è la moglie del generale. Allora cerco in rete e trovo questo, in italiano: l'amante guerriera contro la moglie da tinello, il generale Ego e l'uomo che ha ingannato l'America. Ho ancora le idee molto confuse.

Cerco su Google e trovo questo bel post di Stefano Cingolani, classe 1949, giornalista. Non spiega tutto ma molto sì, cita le fonti (il New York Times, mica l'ultimo arrivato in termini di credibilità), ci dice che casi del genere non sono rari nella diplomazia americana (vedi anche qui), ci offre la chiave di lettura della contrapposizione storica tra FBI e CIA, non entra in particolari da soap opera ma spiega come il centro della storia sia più legato alla vicenda di Bengazi che a quella delle sue amanti (vedi anche qui). Mi offre una lente per vedere meglio. Per carità, non è un caso unico, anche sul Corriere sono usciti pezzi interessanti, casualmente prima che scoppiasse la bomba delle amanti.

Ad oggi, nessuno sa la verità, però io, lettore, ho capito la situazione molto più da un singolo post che da 4 siti di quotidiani. Blog di un esperto giornalista classe 1949. Guardare al futuro tornando alle regole del passato, si diceva. Una bella conferma. 

mercoledì 7 novembre 2012

Una lezione di comunicazione, in un tweet

Barack Obama vince le elezioni e il secondo mandato come Presidente degli Stati Uniti (e io ho indovinato quasi tutto). Come lo annuncia? Su Twitter. Una foto, tre parole: four more yearsIl discorso verrà dopo, sintetizzato nel motto "the best is yet to come". Ma riguardate il tweet, c'è tutto: la felicità, l'emozione, la soddisfazione personale e professionale, la perfetta conoscenza del mezzo, uno staff fenomenale (fattore determinante per la vittoria).

Una lezione forte e semplice, al tempo stesso. Si può dire tanto con un'immagine e tre parole. Lui ha detto tutto. Chapeau.


Aggiornamento: molti post e articoli hanno sottolineato come la foto postata da Obama non fosse relativa alla notte dell'elezione ma di molto precedente (vedi qui). Addirittura, c'è chi la definisce "un falso storico". Il mio punto di vista: Obama ha vinto anche grazie a uno staff di qualità parecchio superiore rispetto a quella del suo sfidante. Alcune di quelle persone ci hanno messo anni a scegliere il font giusto da utilizzare per la campagna (il Gotham, vedi qui). Allo stesso modo, la foto della vittoria era stata già selezionata tra le migliaia di elevata qualità a disposizione, pronta all'invio. Come era già pronto il discorso della vittoria e della sconfitta. Come erano già pronte mille altre cose (compreso il sito per la vittoria di Romney andato online per sbaglio).

Chi pretendeva una foto in tempo reale "alla instagram" è un inguaribile romantico: in campagna elettorale, nulla è lasciato al caso o all'improvvisazione. La questione della verità e della sincerità lasciamole stare, per favore. Quella foto diceva esattamente quello che il Presidente rieletto voleva comunicare. Basta e avanza, il resto è fuffa. "Una lezione di Social Media" dice Vicenzo Cosenza nel post sul falso storico. Condivido in pieno questo, non il titolo.

martedì 16 ottobre 2012

Only good companies have good followers


Un giorno come tanti altri, vai a vederti il sito di un grosso brand, per cercare informazioni, per avere idee, per tanti motivi. Ti accorgi che c'è qualcosa che non va, niente di grave ma lo noti subito in un portale fatto con tutti i crismi. Il logo dell'azienda, mentre ci navigi dentro, viene tagliato. In realtà, anche alcune altre parti del sito sono strane, i caratteri diventano troppo grandi e poco "usabili". Nasce la tentazione "#epicfail": vai su Twitter, segnali la cosa ai tuoi follower e fai vedere che anche i grandi sbagliano. A me invece quell'azienda, quel brand sta simpatico, mi piace il loro modo di fare. Non ho loro prodotti, non ci ho mai lavorato insieme, non ho alcun "conflitto di interessi". Allora uso Twitter e segnalo loro il problema, semplicemente, direttamente, mettendo @nomeutente all'inizio, così la conversazione è tra me e loro. Sperando di fare cosa utile. Magari è solo un problema mio, penso.


Invece succede che poco dopo il grande brand mi risponde. Su Twitter. E mi ringrazia per aver segnalato il problema, prontamente girato al loro reparto IT e già risolto. #IEproblems, sottolineano. Eh, sì, lo so, ogni sito aziendale ha i suoi #IEproblems.


Rimango sempre sorpreso dell'estrema facilità e immediatezza con cui si può dialogare con un grosso brand: io ho segnalato loro un problema e loro mi hanno ringraziato. Penso a cosa sarebbe successo anni fa, con gli strumenti di anni fa: mando una mail, ok, a chi la mando, alla info, mah, chissà se la leggono, figurati se mi rispondono, ok lo faccio, ma devo accendere il PC, uffa... e dopo 5 minuti ti passava la voglia. Ora è bastato uno smartphone e un tweet. Ed è nata una conversazione. Poteva anche non nascere ma è mutato l'approccio.

Non è cambiato il mondo, per carità. Io probabilmente continuerò a non comprare i loro prodotti ma la prossima volta che vedrò quel marchio stampato mi ricorderò di questa conversazione, una piccola storia che finisce, ovviamente, con un Tweet: only good companies have good followers.


lunedì 25 giugno 2012

Una presentazione, poche parole, tanta passione


La scorsa settimana, per motivi di lavoro, ho assistito a numerose presentazioni, quasi tutte di prodotti e progetti tecnici, ma anche una bella assemblea con 500 presenti. In più, ne ho anche fatta una davvero prestigiosa, all'IBM Forum per l'evento Dominopoint Days 2012, che riunisce tutta la community che gira attorno al mondo Lotus Domino. Analizzando tutti questi input, serenamente, ho avuto una conferma: quando si presenta un'idea o un progetto, la persona fa sempre la differenza, sempre. Ho visto video e demo fatte davvero bene, che al momento mi hanno sorpreso per qualità tecniche e impatto visivo. Tuttavia, a mente fredda, quelle sensazioni si sfumano, mentre riesco a ricordare perfettamente quanto mi hanno colpito le persone, i loro gesti, le loro risposte, le loro parole.

Avevo letto tempo fa un bell'articolo su come il fattore umano possa valorizzare davvero un'azienda. Gli eventi a cui ho partecipato, anche attivamente, me l'hanno confermato. Per quanto riguarda la presentazione che dovevamo fare noi, un annuncio di un software di gestione documentale evoluta, avevamo valutato la realizzazione di una demo in diretta o di un video, come poi hanno fatto tanti altri (con alterne fortune). Ci siamo guardati in faccia: chi crea software siamo noi (cioé, io no ma avete capito), perché lasciare l'incombenza a uno strumento, per quanto efficace e innovativo, di parlare per noi? Ci siamo preparati nei giorni scorsi seduti su due sedie, senza tavolo, davanti all'azienda (che, come sapete, non è attualmente agibile), a vederci sembravamo due matti. Abbiamo cercato di esprimere le nostre convinzioni, le nostre idee, il nostro modo di essere. Una presentazione, due persone, non troppe parole e tanta passione.

All'evento è andata bene. In molti ci hanno fatto i complimenti per l'intervento, noi con le nostre polo blu con brand sul cuore (e solo lì) e le scarpe sportive. Non abbiamo fatto vedere né demo né video, per scelta e senza cercare di seguire esempi illustri. Volevamo avere una relazione diretta e semplice con chi ci ascoltava, la stessa che poi abbiamo cercato di creare nel resto della manifestazione. Penso che ci siamo riusciti. E come noi tanti altri, che hanno trasmesso le loro competenze con il suono della voce e l'espressione del viso più che con suoni e colori. Il Powerpoint ha grossi limiti e non mi riferisco al software in sé. Un film curatissimo e pieno di effetti speciali non sfonda se il protagonista non è all'altezza. Si può essere molto semplici, basta essere veri. La gente lo capisce, statene certi. Anche su Twitter.


mercoledì 20 giugno 2012

Promuoversi Mediante Internet: il mio libro

Nel bel mezzo di una settimana intensa di lavoro, tra fiere e test di prodotto, scopro che il mio libro è in libreria: Promuoversi Mediante Internet (PMI)


L'editore è FrancoAngeli, la collana Impresa Diretta. Guardate negli scaffali e ditemi se lo trovate: se volete, mandatemi foto e Tweet. Al massimo, ne ordinate la versione digitale. Ha anche un hashtag tutto suo: #pmilibro

Una soddisfazione mica da ridere in un periodo così difficile per me. Il frutto di un lavoro di oltre sei mesi, di telefonate con l'editore e di approfondimenti con la curatrice della collana, finalmente si vede su uno scaffale, su un carrello, su un tavolo, nelle mani di una persona. Ringrazio ancora una volta Cristina Mariani per questa opportunità, gli editor della FrancoAngeli per la serietà e tutti quelli con cui ho avuto modo di parlare in questi mesi. Visto che il post su come scrivere un libro è ormai il più letto di questo blog, vediamo se porta bene anche per le vendite.

giovedì 17 maggio 2012

Lezioni di Volunia, seconda e ultima parte

O si decolla o si affonda. Qualche tempo fa avevo scritto un post sul progetto Volunia, sottolineando gli aspetti negativi e quelli positivi di questa iniziativa tutta italiana, anzi padovana. La Rete aveva massacrato quel progetto, con tante ragioni e, a mio parere, qualche torto. La cosa che mi aveva più infastidito erano stati quei giudizi sommari, insindacabili, definitivi sul fallimento certo di quella idea. Il tempo però aveva dato ragione a coloro i quali quei giudizi li avevano espressi. Dai creatori di Volunia nessuna difesa, nessuna spiegazione, nessun chiarimento, solo un lunghissimo e inspiegabile silenzio. Perché? Ritengo che, a livello di comunicazione, fossero stati mal consigliati prima (presentazione in pompa magna e con aspettative troppo grosse per un progetto rivelatosi in divenire) e siano stati mal consigliati poi. Però, ripeto, si tratta di gravi errori di comunicazione non legati direttamente alla bontà del progetto Volunia. Nel frattempo, sono diventato Power User e Volunia l'ho provato. Un'altra grossa delusione.

Leggo oggi un post di Luca De Biase, che su quel progetto aveva speso molte parole, che dice che hanno imparato la lezione. Le pesanti critiche sono state prese in modo costruttivo e lo affermano direttamente dal loro neonato blog. Qualcosa si muove, forse. Sostengono che stanno facendo molte nuove cose sia a livello di motore di ricerca che di veste grafica e contenuti. Sinceramente, lo spero. Il problema è che siete in ritardo e non avrete un'altra occasione. Questa volta, come dicono gli americani, è "do or die". E non perché Volunia non sia una bella idea ma perché ora deve dimostrare di essere gestita in modo adeguato. I progetti hanno bisogno di organizzazione, di tempistiche, di obiettivi e di responsabilità ben definite. Io, come molti altri, ho deciso di continuare a fare il tifo per Volunia, nonostante tutto, soprattutto perché è un progetto italiano. Ma non avremo più la pazienza di aspettare. Siamo stufi di vedere casi come quelli di I'm watch, vogliamo vedere casi come quelli di Glancee. Purtroppo vie di mezzo non ce ne sono: o si decolla o si affonda.


martedì 8 maggio 2012

Fact Checking, un'arte difficile

Il fact checking può essere fatto dagli utenti? Questa domanda me la sono posta guardando il nuovo progetto della Fondazione Ahref (e supportato da Luca De Biase): chiunque può pubblicare una notizia e farla "votare" dalle altre persone come più o meno affidabile. L'idea è sicuramente interessante, soprattutto perché porta a riflettere su questo tema, di cui mi sono occupato molto ultimamente (qui c'è la presentazione fatta al VeneziaCamp sull'argomento). La mia grande perplessità sta nell'affidabilità e nell'efficacia che gli utenti stessi possono raggiungere. Come ho detto più volte, si tratta di un'arte difficile, che necessita di tempo, rigore metodologico e controllo incrociato. E, soprattutto, di professionalità specifica.

In Rete trovare una conferma a qualsiasi tesi, anche le più deliranti, è piuttosto semplice, basta cercare quello che si vuole trovare. Il difficile è essere obiettivi, andare oltre le proprie opinioni (il cherry picking è sempre in agguato), analizzare tutti i fatti e incrociarli. Per questo ritengo che questo compito possa essere fatto solo da persone preparate e specializzate, non da tutti. Un esempio: in un caso che ho vissuto direttamente, sarebbe stato facile prendere posizione in favore del Daily Telegraph contro Costa Crociere. Infatti, il dibattito che si è scatenato in rete era quasi totalmente contrario alla posizione della società italiana. Ripeto, analizzare i fatti in modo oggettivo e rigoroso non è facile se non hai delle basi, dell'esperienza e delle metodologie sulle quali basarti.

Per questo sostengo da sempre che i giornalisti possono, e devono, trovare proprio nel fact checking uno dei modi per ristabilire la propria credibilità e autorevolezza. Una prestigiosa e indiretta conferma arriva proprio oggi e ancora con protagonista il recidivo Daily Telegraph: il sito della testata inglese sostiene che Valentino Rossi si ritirerà a fine stagione. Notizia smentita dal fuoriclasse di Tavullia su Twitter (vedi sotto). Giustamente, i fan stanno massacrando il giornalista nei commenti, perché non c'è alcuna rettifica alla notizia a tre ore dalla smentita. Se testate di grande prestigio hanno questi problemi a controllare i fatti, dubito che possano farlo efficacemente gli utenti. In ogni caso, il progetto della Fondazione Ahref è da seguire: più si parla di fact checking e meglio è.

  

lunedì 12 marzo 2012

Blogroll, Twitter ed El Pais, tutto in un solo post

Oggi faccio un post di tipo totalmente nuovo. Perché? Ho trovato in giro due o tre begli spunti su cui scrivere, che approfondiscono tesi che mi stanno care o di cui ho già scritto in passato. Invece di fare due o tre post singoli, li aggrego, ne faccio uno solo. Le motivazioni? Di ogni tema non voglio scrivere tantissimo, voglio solo porli come tema di approfondimento o discussione. Ogni tanto mi accorgo che tendo a scrivere sempre le stesse cose (la "maturità" avanza inesorabile), per questo cerco di puntare un po' più sulla qualità e non sui numeri. Lo so, facendo tre post diversi avrei più visitatori e visualizzazioni ma, per una volta, decido di fregarmene. Se non vedrete più post di questo tipo, capirete subito il motivo.

L'utilità del blogroll, oggi
In tanti si chiedono se oggi il blogroll, ossia l'elenco di siti interessanti che affianca i blog, abbia un senso, in un'era di Social Network, informazione veloce e in tempo reale. La domanda se l'è posta PierLuca Santoro, ossia una delle mie fonti di riferimento per quanto riguarda media e dintorni.


Io rispondo chiaro: sì, a me servono. Perché quando ho dovuto cercare fonti di qualità, mediate e autorevoli sulle quali informarmi, i blogroll di alcune persone di cui mi fido in Rete sono stati utilissimi. Mi hanno fatto trovare quello che cercavo in pochissimo tempo. L'alternativa? Google o una ricerca su vari Social Media, molto più incerta e time consuming. Come sempre accade, lo strumento in sé non è mai utile, lo diventa in base al contesto e all'opera di chi lo usa. Io credo sempre più a quanto mi dicono le persone rispetto agli algoritmi. L'avevo già detto qui e qui (uno dei due è il mio post più letto di sempre).

Il caso "dell" su Twitter
Non è il solito #fail di un'azienda alle prese coi Social Media, è qualcosa di più particolare. Leggete qui. In sostanza, se cercate su Twitter cosa comunica o cosa dice l'azienda americana Dell, ed è solo un esempio, trovate un miscuglio di informazioni eterogenee e per nulla legate tra loro. Perché il sistema legge sia la parola in sé sia la preposizione, segnalando ogni news che include "Dell", "dell'appartamento" o "Dell'Utri". Un problema magari da poco oggi ma che potrebbe però minare la credibilità di questo Social Media come fonte informativa nel prossimo futuro. Un caso isolato? Leggete perché non si può cinguettare "W l'Italia". Twitter può diventare davvero un'Ansa "user generated", a patto che lavori seriamente in questo senso. In primis, deve eliminare questi problemi (non troppo difficile ma non lo stanno facendo), poi deve progettare sistemi di Social Media Fact Checking che analizzino l'autorevolezza delle fonti e la credibilità delle notizie per evitare anche problemi nelle relazioni internazionali (più difficile). Ne ho già scritto qui.

Le interazioni tra media tradizionali e digitali
El Paìs, di cui sto seguendo l'evoluzione del progetto di integrazione tra cartaceo e digitale, ha infranto una barriera simbolica: ha sbattuto l'hashtag in prima pagina.


La cosa tecnicamente non ha alcuna utilità pratica (ovviamente il cartaceo non mi permette di cercare quella parola su altri profili o fonti, ossia ) ma dimostra, ancora una volta, l'attenzione della redazione agli sviluppi neolinguistici e neocomunicativi portati dai Social Media. In più, dimostrano che non vedono alcuna divisione tra il cartaceo e il digitale, dimostrando, coi fatti, la loro volontà: siamo gli stessi, ovunque ci trovi. Come ho già scritto, loro e il Guardian stanno sperimentando il futuro, da noi nessuno si è fatto avanti seriamente.

lunedì 27 febbraio 2012

Il futuro dei media: l'esperimento spagnolo

Leggendo un post di Luca De Biase, ho scoperto un'interessante ricerca fatta dal Berkman Center di Harvard sul rapporto tra giovani e media digitali per quanto riguarda la qualità dell'informazione. La si può scaricare qui, gratis e senza alcuna registrazione.Uno degli argomenti più rilevanti è che il grande aumento di produttori di contenuti avvenuto con Internet ha comportato una rivoluzione nel mondo dell'informazione. Di per sé, questa non può non essere giudicata una notizia positiva. Tuttavia, come accade sempre per questioni complesse come questa, c'è un altro lato della medaglia: le troppe informazioni rendono più difficile la selezione, la percezione della qualità e dell'affidabilità delle stesse. Come filtrarle? Su questo tema uscirà tra qualche mese un interessante libro di Alessandra Farabegoli che uscirà a breve, ma torniamo ai giovani.

I ragazzi, come facciamo tutti, cercano le informazioni con i motori di ricerca. La quantità dei risultati, non sempre ordinati secondo criteri comprensibili e chiari, genera frustrazione e ansia. Hanno poco tempo per trovare quello che cercano e la limitata qualità media di ciò che ottengono può comportare l'abbandono della ricerca. Oppure, aggiungo io, la selezione acritica delle notizie che si aspettano di trovare. Come ho già detto, io mi sono imposto di limitare le mie ricerche su Google per ottimizzare il mio tempo di ricerca e puntare su risorse informative di cui ho testato, nel tempo, la qualità e l'affidabilità. Le persone contano più di un algoritmo, almeno per ora. Questo tuttavia vale per le questioni che conosco bene, di cui ho riferimenti chiari ed evidenti. Per tutto il resto, i motori di ricerca sono l'unica alternativa a media tradizionali in forte crisi di credibilità (e di sostenibilità economica) in questa rivoluzione dell'informazione.

Cosa si può fare? Lo scenario è incerto e in evoluzione. Tuttavia, nonostante tutto, dei media abbiamo tutti un reale bisogno. Non abbiamo né il tempo né le competenze per selezionare tutti i tweet affidabili, ad esempio, in un flusso che sta diventando sempre più copioso. Ci serve qualcuno che faccia un rigoroso e credibile controllo dei fatti per conto nostro. Resto convinto che il giornalismo possa svilupparsi grazie a Internet ma, ad oggi, non esiste un modello preciso. Le riflessioni sono molte, le possibilità pure. Però mi sbilancio e scommetto deciso sul modello El Pais spagnolo, che sta portando avanti una rivoluzione coraggiosa dove la distinzione tra cartaceo e digitale non esiste più (vedi sotto). Un giornale che diventa rete, che va verso il lettore, che non ha paura di Internet, che vuole offrire "qualità e rigore" in ogni sua espressione, con qualunque mezzo. Questo probabilmente è quello di cui abbiamo bisogno.