mercoledì 31 ottobre 2012

Il peso delle idee in un mondo di numeri


Oggi ci serebbero tantissimi spunti per approfondire la crisi del giornalismo italiano, uno su tutti il caso job24. Ricordo più di un prestigioso redattore economico che nel 2004 si rifiutava di considerare l'e-mail come canale di comunicazione diretto, preferendo il fax. Esperienza diretta, non sentito dire. E ora hanno la loro bella faccina sorridente su Twitter. Ma rinuncio alla tentazione (è dura e si capisce) e parlo di altro.

Viviamo in un'epoca dove "il numero" sta prendendo un'importanza predominante, quasi esclusiva nel pianificare e gestire le attività di comunicazione. Certo, ci sono solide e nobili ragioni (vedi qui) ma riportare ogni cosa alla quantità di follower, ai dati di Google Analytics, agli obiettivi misurabili e al calcolo del ROI può essere limitante. Le aziende non sono solo dati e business, sono soprattutto persone che lavorano insieme per crescere insieme. Anticipo la domanda: no, non sto facendo filosofia. La qualità di un contatto con un potenziale cliente, l'empatia che si crea durante una riunione per motivazioni diverse e imprevedibili, la firma su un piccolo progetto considerata improbabile fino alla settimana prima sono tutte cose non quantificabili. Ma è anche grazie alla somma di questi fattori che le aziende crescono in Italia.

Pensiamo al ROI. Se un potenziale imprenditore dovesse calcolare il ROI legato alla creazione di una nuova impresa in Italia, obiettivamente dovrebbe lasciar perdere. E invece ci sono pazzi che nonostante un carico fiscale incredibile, una burocrazia illogica e l'impossibilità di assumere qualcuno nel breve periodo, ci provano. Cosa li spinge? Passione, convinzione, competenza, fiducia, visione, tutte cose non "pesabili", non oggettive. E spesso riescono nel miracolo. Come il calabrone, che ha le ali troppo piccole per volare ma, non sapendolo, vola lo stesso (vedi qui un bell'articolo su questo paradosso aeronautico).

Io ho lavorato spesso, e lo faccio tuttora, con imprenditori che hanno iniziato da una passione che, col tempo, si è trasformata in lavoro. Quasi tutti non avevano percepito l'importanza di comunicarla adeguatamente, loro stessi non la consideravano un fattore rilevante. Per questo, al di là di progetti infarciti di numeri da raggiungere e di dati da ottenere, noi addetti ai lavori dobbiamo ricordarci cosa fa andare avanti un'azienda nei nostri progetti di comunicazione: un insieme di idee, entusiasmo e fiducia in noi stessi. Quanto pesa, nessuno ve lo può dire.

(Photo credits: http://www.johnelkington.com/activities/ideas.asp)

giovedì 25 ottobre 2012

A lezione di idee per scrivere


Avete presente quando cercate nuovi spunti per approfondire il tema "come posso scrivere contenuti migliori per il Web e non solo"? Lasciate in pace Google per un giorno, chiedetegli solo dove Luisa Carrada farà il suo prossimo intervento, nelle prossime settimane.

Io l'ho vista in azione ieri a Ravenna Future Lessons 2012 (complimenti a Lidia Marongiu e all'organizzazione), per la prima volta dal vivo. Parlava insieme ad altri ottimi professionisti, una su tutti Alessandra Farabegoli (di cui ho già scritto molte volte). Ho avuto spunti per scrivere una decina di post, e per sviluppare una ventina di idee per la mia azienda, in soli 45 minuti di keynote. Mi capita raramente, giuro. Andate a vedervi il blog, io l'ho citato spesso nel mio libro, è una miniera d'oro di consigli. Ma vederla dal vivo, giuro, offre un ulteriore valore aggiunto. E non trascurabile.

Riscoprendo Aldo Manuzio
Alcuni spunti li voglio condividere qui e ora, altri ne troverete sparsi in altri post, nelle prossime settimane:
  • "Non siamo nati per leggere". Si tratta dell'incipit del libro "Proust e il calamaro", citato nell'intervento. Scrivere e leggere sono un'invenzione, non sono doti umane innate. Invece siamo nati per guardare le cose, con curiosità, cercando di andare oltre. Questi concetti possono essere utilissimi per capire che alle persone dobbiamo insegnare come leggere i nostri testi aziendali, dobbiamo accompagnarle in un percorso che includa testi, immagini e video fatti per incuriosire. Una strada che renda il cammino chiaro e semplice da fare.
  • "Il rapporto tra immagini e testo non è una cosa nata con i grafici e con Internet, l'ha inventata Aldo Manuzio, il primo vero editore della storia, il papà di tutti i grafici". Questa persona da il nome alle scuole medie che ho frequentato da piccolo ma posso dire di averlo scoperto davvero solo ieri. Si è inventato un modo di mettere insieme immagini e testi, dove le parole si frammentavano in piccoli gruppi per creare equilibrio con i disegni. Il papà dei blocchetti modulari che ho fatto per realizzare le brochure di prodotto della mia azienda. E non lo sapevo.
  • "La parola non è più sola, dobbiamo avere attenzione verso tutto quello che sta intorno alla parola e verso quali ambienti le nostre parole andranno ad abitare". Si tratta di un modo semplice e diretto di spiegare tutta la filosofia che sta dietro alla creazione di contenuti per la comunicazione aziendale. Si scrive per chi legge, non per noi e meno che mai per autoincensarci. 
  • "Etimologia della parola testo: significa tessuto. Fili combinati da tessere insieme. Abbiamo testi lunghi e testi brevi da tessere insieme, che sappiamo soddisfare sia la lettura esplorativa che la lettura profonda". Non c'è conflitto tra testi brevi, incisivi e d'effetto, e testi lunghi, approfonditi e precisi. Uno serve all'altro. I primi possono, e devono, portare ai secondi, lasciando la libertà di decidere a chi legge. E non c'è alcun conflitto neanche tra parole e immagini.
  • "Insieme ai testi si possono tessere anche colori e forme, ma senza esagerare". Ecco, neanche Luisa ama le infografiche. Un'ottima conferma delle mie opinioni a riguardo.
  • "Le parole devono essere precise, per far contenti sia i lettori che i motori. Dobbiamo declamarle a voce alta per capire le parole chiave, le parole giuste, le parole vere. Quelle vicine alla vita, come diceva Italo Calvino". Un'altra conferma dell'approccio che ho sempre utilizzato: partire sempre da me e dalla mia azienda per descriverla, non da quello che va di moda o da inglesismi che spesso sono falsi amici.
Ripeto, sono solo alcuni spunti di riflessione. Non cito la storia di Enrico Fermi in 50 tweet (#fermitutti). Non cito "Just my type" di Simon Garfield. Ci sarà tempo. Intanto se vi interessa la gestione dei contenuti e molto altro, cercate di essere al prossimo speech di Luisa. Non ve ne pentirete. E magari mi offrirete un caffé per il consiglio.

giovedì 18 ottobre 2012

The all-digital future


In un vecchio post (2 anni son tanti per un post), scrivevo che in quei tempi probabilmente si stava progettando quello che doveva essere "il Facebook dell'editoria". Il modello l'avevo riassunto in tre parole: semplice da leggere, gratuito (almeno per la grande maggioranza dei contenuti) e personalizzato (ognuno deve decidere i contenuti che gli interessano). Invece, ad oggi, non ce l'abbiamo ancora e non si vede neanche all'orizzonte.

Tuttavia, quel post mi è venuto in mente dopo aver letto oggi che il glorioso Newsweek andrà "all-digital" dal 1° gennaio 2013. Seguirà un modello di business di cui si sa ancora poco ma che è più o meno questo: contenuti tutti a pagamento, anche per mobile e tablet, affiancati ad articoli gratuiti disponibili su Daily Beast (megablog di cui da noi si parla pochissimo rispetto all'Huffington Post e non solo perché quest'ultimo ha la versione italiana). Tenendo conto che online l'unico modello di "poco gratis e molto a pagamento" che sembra funzionare è quello del "paywall" del New York Times, e non so quanto sia replicabile, questa è davvero una notizia.

Se il progetto Newsweek porterà risultati lo vedremo tra non molto. Quello che traspare ora è un'idea molto coraggiosa: le rotative ci costano troppo, andiamo solo online subito con un modello di business molto, molto semplice. Una scommessa in tutto e per tutto, vediamo l'effetto che fa. Visto che la quasi totalità degli editori contano ancora sui ricavi della carta (sul Giornalaio trovi tutto, ma anche su Wired) e anche quelli che hanno sposato la filosofia "digital first" non la abbandoneranno (El Pais, uno su tutti), questo salto assume un fascino analogo a quello di Felix Baumgartner. Certo, non sono folli come sottolinea bene Ezekiel su Twitter, ma dei coraggiosi sicuramente. Visto che nel futuro dell'editoria ci stiamo vivendo, in bocca al lupo a Tina Brown e ai suoi. E se il modello che funziona non sarà gratuito per gli utenti, pazienza. Felice di essermi sbagliato.


Aggiornamento del 26 Ottobre 2012
Sulla questione Newsweek, si sono state molte riflessioni interessanti citate da Giuseppe Granieri. Quasi tutte sottolineano che è un salto nel vuoto e basta. Che il paywall non servirà, che spegnere le rotative riduce i costi ma non offre alcun modello alternativo, che è solo un modo di tenere in vita artificialmente un vecchio e glorioso giornale con un modello di business che, semplicemente, "non funzionerà". Io resto a guardare, comunque. Ah, un'ultima cosa: vedendo i numeri, anche per il paywall del New York Times non sembrano tutte rose e fiori.
 

martedì 16 ottobre 2012

Only good companies have good followers


Un giorno come tanti altri, vai a vederti il sito di un grosso brand, per cercare informazioni, per avere idee, per tanti motivi. Ti accorgi che c'è qualcosa che non va, niente di grave ma lo noti subito in un portale fatto con tutti i crismi. Il logo dell'azienda, mentre ci navigi dentro, viene tagliato. In realtà, anche alcune altre parti del sito sono strane, i caratteri diventano troppo grandi e poco "usabili". Nasce la tentazione "#epicfail": vai su Twitter, segnali la cosa ai tuoi follower e fai vedere che anche i grandi sbagliano. A me invece quell'azienda, quel brand sta simpatico, mi piace il loro modo di fare. Non ho loro prodotti, non ci ho mai lavorato insieme, non ho alcun "conflitto di interessi". Allora uso Twitter e segnalo loro il problema, semplicemente, direttamente, mettendo @nomeutente all'inizio, così la conversazione è tra me e loro. Sperando di fare cosa utile. Magari è solo un problema mio, penso.


Invece succede che poco dopo il grande brand mi risponde. Su Twitter. E mi ringrazia per aver segnalato il problema, prontamente girato al loro reparto IT e già risolto. #IEproblems, sottolineano. Eh, sì, lo so, ogni sito aziendale ha i suoi #IEproblems.


Rimango sempre sorpreso dell'estrema facilità e immediatezza con cui si può dialogare con un grosso brand: io ho segnalato loro un problema e loro mi hanno ringraziato. Penso a cosa sarebbe successo anni fa, con gli strumenti di anni fa: mando una mail, ok, a chi la mando, alla info, mah, chissà se la leggono, figurati se mi rispondono, ok lo faccio, ma devo accendere il PC, uffa... e dopo 5 minuti ti passava la voglia. Ora è bastato uno smartphone e un tweet. Ed è nata una conversazione. Poteva anche non nascere ma è mutato l'approccio.

Non è cambiato il mondo, per carità. Io probabilmente continuerò a non comprare i loro prodotti ma la prossima volta che vedrò quel marchio stampato mi ricorderò di questa conversazione, una piccola storia che finisce, ovviamente, con un Tweet: only good companies have good followers.


mercoledì 10 ottobre 2012

I limiti del fact checking

Quanto pesa una bugia nella comunicazione politica?
Il fact checking è un argomento affascinante, perché presuppone un orientamento qualitativo, e non solo quantitativo, verso la creazione di informazione (vedi qui). Allo stesso tempo, è un atto molto complesso da gestire perché ci vuole metodologia, professionalità ed equilibrio. Uno dei problemi principali è, ovviamente, l’obiettività del controllore: focalizzare la verifica su dati o fatti che si ritiene più importanti, anche in buona fede, mina il vero controllo, perché non si da al lettore una visione equilibrata del tutto. In gergo si chiama “cherry picking”: si analizzano solo i dati che confermano la propria tesi (dati oggettivi, per carità), ignorandone altri che potrebbero confutarla (pratica citata anche qui). Questo è solo uno degli aspetti più complessi, ce ne sono altri.

Ho letto un’interessante analisi del corrispondente di Time alla Casa Bianca sulla campagna presidenziale americana e sul cosiddetto "False Equivalence Dilemma". Detto in parole povere: scopro che Obama e Romney hanno detto, supponiamo, 10 bugie a testa, su vari temi. Chi è più ingannevole dei due? Come si fa a valutare il “peso” di quelle bugie nei confronti dei potenziali elettori? Il giornalista ne discute con esperti in materia e, alla fine, tutti concordano sul fatto che non esista una metodologia applicabile per risolvere questa controversia. Riflettendoci su, posso dire che non serve. Il “controllore dei fatti” ha già dato ai suoi lettori dei dati oggettivi da valutare e non può andare oltre, perché qui entra in campo la soggettività della persona. Per me una bugia può essere più grave di un’altra, perché dipende dai miei valori, dal mio modo di pensare, da quello che ritengo più importante. Non può esserci un dato oggettivo su questo. Anche i numeri hanno dei limiti.

Se una fonte di informazione mi dice che Obama ha detto 10 bugie e Romney pure, ha già fatto il suo lavoro. Anzi, se il livello è quello italiano, ha fatto molto di più. Un giornalista può anche dirmi chi è più bravo dei due ma su questo, alla fine, decido io, elettore. Probabilmente riflettendo su questi temi si arriveranno a sviluppare metodologie che riescano a evidenziare l’impatto di una bugia nei confronti della propria audience. Ma ci sono molti altri fattori. Lo stesso linguaggio del corpo è fondamentale per trasmetterci emozioni, prospettive, sicurezze che non possono essere pesate (prova a vedere qui). "La politica è un'arte, non una scienza esatta” disse Bismark nel 1884. Provate a confutare questa frase. Non ce la farete.

venerdì 5 ottobre 2012

Un omaggio e una lezione

Quante volte capita di dover spiegare, riassumere, chiarire come si fa una presentazione su un palco, per annunciare un'idea, un progetto o un prodotto. Non servono molte parole oggi, basta andare su YouTube, digitare "Steve Jobs 2007" e godersi la presentazione del primo iPhone.

Per molti, non si può fare meglio di così. Sono d'accordo. C'è tutto: la passione, la preparazione (regola del tre, etc.), la leadership, la semplicità di esposizione. Riguardarlo è sempre una lezione di comunicazione, gratuita e a disposizione di tutti. Non sono un Apple fan ma qui non è una questione di tifo, ma di obiettività. Steve Jobs resta un esempio, insuperato ad oggi, di come si presenta un prodotto.

Ecco la prima parte:



Qui la seconda:

lunedì 1 ottobre 2012

Passione da vendere

Il 90% del tempo speso a parlare di Social Network e marketing è un mix di filosofia, sociologia, teoria della comunicazione e sensazioni umane. Il che è molto utile per rifletterci su ma abbiamo bisogno anche di casi pratici, diretti, semplici da capire per avere nuove idee da sviluppare. E non solo quelli di colossi e multinazionali con budget enormi, spesi non sempre bene, ma anche di aziende più piccole e, a mio parere, più interessanti.

Questi casi ti arrivano quando meno te li aspetti. A un convegno di Confindustria Modena, per esempio. Una case history raccontata molto semplicemente, con linguaggio diretto, in modo chiaro. Sorprendente, no? Come ha fatto Maurizio Cutrino spiegando come hanno gestito la fiera Macef, trovate la presentazione qui sotto. In breve, ci sono numeri, strumenti e strategie. Se mettono il video, aggiorno il post.


Il caso è interessante perché è una fiera principalmente B2B, in cui i Social Network sono stati utilizzati con successo. Soprattutto per creare relazioni con resposabili aziendali esteri, va detto. L'ultima edizione, quella di settembre 2012, ha visto un leggero calo di presenze (onore a loro che lo comunicano, in un mondo di fiere che dicono di andare sempre, e dico sempre, bene anche coi padiglioni vuoti) ma con un aumento notevole della visibilità online. Inoltre, c'è qualche bella idea: date un'occhiata al Socialike.

Mi è piaciuto molto il loro modo di presentarsi. Perché? Perché ci hanno messo soprattutto passione, una cosa che non puoi comprare né vendere: o ce l'hai o non ce l'hai. Cutrino ce l'ha, glielo si legge negli occhi. E questo la platea lo vede subito e chiaramente.

Nessun blogger ha ricevuto qualsiasi tipo di compenso, in euro o beni alternativi, nella preparazione di questo postQui si scrive solo per passione e in totale libertà. :-)