venerdì 30 novembre 2012

Alibaba e i 3 miliardi di dollari


Se cercate "alibaba" sui risultati di Google in italiano, trovate molte informazioni sul povero taglialegna, su un caverna che si apre con "apriti, sesamo" e su quaranta ladroni. Tutto giusto, no? Invece no, c'è un altro lato della medaglia, o meglio della storia, assolutamente non trascurabile. Si tratta di un portale di e-commerce, di tipo B2C ma soprattutto B2B, che l'11 novembre ha fatto registrare un giro d'affari di 3 miliardi di dollari, il doppio del tanto pubblicizzato Black Friday americano.Ma chi sono questi, da dove vengono? Alibaba nasce in Cina nel 1999, quindi secolo scorso, sull'idea di un 35enne ex insegnante d'inglese, Jack Ma, che guida un gruppo di 18 persone. Una start-up che diventa un colosso: una perfetta storia americana se non fosse cinese. Ora questo portale ha 79 milioni di clienti in 240 Paesi (vedi qui). Ci hanno fatto pure un film, che ha una pagina Facebook. Al che, uno si chiede: come mai in Italia non ne parla quasi nessuno?

Io alibaba.com l'ho conosciuto due anni fa, quando un mio cliente B2B che più B2B di così non si può, molto distrattamente, mi ha fatto vedere questo portale. La categoria dei prodotti che vendeva, vibratori industriali (molto diversi dai prodotti che immaginate), erano acquistabili e vendibili su un portale di e-commerce online. Così, semplicemente. La struttura grafica del portale era, e rimane, molto spartana e decisamente poco attraente dal punto di vista del design. Tuttavia la user interface è buona, si accede a quello che si vuole in poco tempo e con facilità. Un sito che rispecchia esattamente i valori di un'azienda B2B: poca attenzione ai fronzoli, molto alla velocità di accesso alle informazioni e alla sostanza.

Il portale cinese dimostra anche elevate capacità a livello di marketing. Lo sconto proposto in contemporanea con il black friday americano era stato pensato oltre un anno fa e ci si aveva lavorato per mesi per promuovere la cosa a dovere. Hanno organizzato un luogo online facilmente accessibile e usabile per quei milioni di aziende B2B, specialmente le PMI, legate a vecchi schemi che ora hanno a disposizione, attraverso Internet in inglese, quello che cercano, che sia un prodotto, un partner o un fornitore. Una nicchia gigante. Ritorniamo alla domanda iniziale: perché in Italia non ne parla quasi nessuno (tranne Franco Battiato, vedi sotto)? Perché le piccole e medie imprese, come quella del mio cliente, lo usano e basta. A loro la pubblicità (di tanti guru e influencer) non serve. Badano al sodo. Apriti, sesamo.


mercoledì 28 novembre 2012

Aziende e comunicatori: ci conosciamo meglio?


Ieri ho partecipato a un evento su social media e dintorni presso la CNA di Modena. Grande protagonista della serata il professore, e amico, Stefano Epifani, una garanzia in questo senso. Al di là dei temi trattati, dei casi di successo e dei consigli, è emerso in modo netto e chiaro il divario culturale esistente tra i responsabili delle aziende e i comunicatori. Si parlano lingue differenti, non ci sono punti di contatto continuativi per aumentare la qualità della relazione e la conoscenza specifica. Se un responsabile di una PMI chiede "ma quanti tweet si dovrebbero fare al giorno?", non ci si può soffermare sull'apparente banalità della domanda perché banale non è. Se un addetto ai lavori ha difficoltà a capire quanto 3.500 euro (il valore ipotetico di un progetto per realizzare una strategia di content management, ad esempio) impattino sulle  risorse di una piccola impresa, la questione si fa difficile. Ma non è solo questione di soldi. Si tratta di cultura.

Gli eventi come quello di ieri sono molto utili da questo punto di vista perché il problema si vede a occhio nudo. Non servono statistiche, survey o interviste. Da una parte ci sono sguardi perplessi nel sentire parole come "bounce rate" o "klout". Dall'altra occhi allibiti perché non risulta universalmente chiaro che il progetto per realizzare un sito Web o per migliorare il posizionamento di un'impresa su Google (in ottica SEO/SEM) non può costare 300 Euro. Bene che queste cose si vedano chiare perché è la realtà. Non esiste una cultura comune e condivisa su quello che vuol dire fare comunicazione d'impresa perché non ci sono spazi di incontro comuni e condivisi. In parte, il mio libro è nato anche per quello: per spiegare che prima di tutto ci si deve ascoltare a vicenda, ci si deve fidare.

I Social Network potrebbero avere un ruolo importante nel creare questi collegamenti ma, ad oggi, non lo fanno. E non è solo un problema di relazioni sociali, il "cultural divide" (vedi qui e qui) esiste da molto più tempo. Ci sono aziende che aprono i profili Facebook senza avere un company profile o un sito decente, senza avere persone specializzate per "essere" in Rete, senza avere chiaro il perché si sta su Facebook (altro punto emerso chiarissimo ieri sera). Per questo, ieri, ho fatto una domanda a Stefano Epifani: c'è lo spazio per creare degli spazi, una sorta di marketplace ripensati e riprogettati alla luce delle potenzialità di oggi nei quali le aziende e i comunicatori possano iniziare a conoscersi meglio, per creare una cultura tecnica e comunicativa condivisa? Perché non si può andare oltre al tavolo di una riunione o alle due ore di un convegno?

Secondo Stefano Epifani, c'è troppa competizione antropologica, specialmente in Italia, e non funzionerebbe. Ci si farebbe solo una guerra tra poveri più spietata di prima: comunicatori vs comunicatori, aziende vs aziende. Se questo lo dice uno che nel 2003 scrisse un libro intitolato "Business community", c'è poco da stare allegri. Io invece sono più ottimista. Perché ora "fare rete" diventa una strada obbligata per sopravvivere alla crisi economica. Forse quei marketplace che non andavano bene prima possono funzionare oggi. Erano la soluzione giusta al momento sbagliato. "United we stand, divided we fall" lo diceva già Esopo, ben prima di John Dickinson. Davanti a una minaccia comune, si devono mettere via gli antichi rancori e le piccole rivalità. L'obiettivo è conoscersi meglio, dopotutto. Nessuna controindicazione, se non nella nostra insicurezza.

P.S.
Appena finito di scrivere il post, leggo questo. Nonostante tutto, resto ottimista. Un pochino meno, però.

giovedì 22 novembre 2012

Le primarie, un gioco e un post in costante aggiornamento

Oggi provo a fare un piccolo esperimento, un post in evoluzione, uno storify in diretta. Tanto non mi costa nulla. Un gioco, come un gioco è l'oggetto stesso del post. Facciamo una premessa: mi sono divertito molto a usare le sezioni messe a disposizione dai siti americani per predire i risultati delle elezioni USA (come questo di politico.com). Risultato: ho indovinato 49 stati su 50, ho sbagliato solo la Florida, mi sono paragonato a Nate Silver e, in definitiva, mi sono molto divertito. Quindi oggi mi sono chiesto: visto che in Italia ci sono le primarie, del PD a breve e del PDL tra qualche tempo, anche i quotidiani nostrani hanno fatto giochi simili? Non ne ho trovati. Ho chiesto un parere anche a un esperto di gamification ed editoria come il mio amico Pier Luca Santoro e qui sotto c'è la risposta.

Alla luce di questo, ho pensato: perché non buttare questa piccola idea su Twitter e chiedere lumi direttamente ai principali quotidiani italiani?


Ora sono le 12.53, vediamo se e come rispondono. Qui sotto metterò gli eventuali aggiornamenti: un post storificato, vediamo l'effetto che fa. Chiaro, se vedete giochi del genere su qualche quotidiano (non siti ad hoc, voglio vedere se qualche media risponde all'appello) fatemelo sapere. Magari l'idea è mia e chiedo una percentuale.

Aggiornamento delle 14.30

I quotidiani storici non hanno ancora risposto al mio tweet, rilancio e provo con tre fonti di informazione presenti esclusivamente online. Stiamo a vedere.

Aggiornamento delle 10 del 23/11
Nessuna risposta su Twitter alla mia piccola proposta. Non c'è problema, stiamo a vedere se qualcuno raccoglie lo spunto. Solo perché porterebbe gli utenti a riflettere in modo leggero e divertente sulla politica. Ne abbiamo tanto bisogno.

Aggiornamento del 27/11
Primo turno fatto, Bersani e Renzi al ballottaggio e ora si apre un bel testa a testa, più semplice da gestire anche in ottica gioco. Si potrebbe prendere questo esempio, usando le regioni italiane, e vedere chi vince. Non ci sono i grandi elettori ma potrebbe essere utile valutare i dati del primo turno, regione per regione, e far fare agli utenti una previsione: il Corriere fa vedere che le capacità ci sarebbero. Per ora nei media italiani non si va oltre a qualche banale sondaggio (La Stampa), si potrebbe fare molto di più. Stiamo a vedere.

martedì 20 novembre 2012

Il lato oscuro del native advertising

Basta la bottiglia.
Il Giornalaio ha pubblicato ieri un ottimo post che parla dell'evoluzione del rapporto tra comunicazione aziendale e pubblicità alla luce della crisi epocale dell'advertising. Citando il caso del nuovo portale di Coca Cola, che si presenta di fatto come una testata, un hub informativo, più che come un sito aziendale, si approfondiscono le caratteristiche di una delle possibili strade che la comunicazione può prendere in futuro: l'impresa si trasforma da marchio a media. L'argomento è molto interessante, non lo si può esaurire in un solo post, però inizio a rifletterci su.

Di fatto, la comunicazione aziendale e la pubblicità sono sempre state due parti distinte, anche se spesso, nella testa di un'imprenditore, era una differenza non così chiara nel grande calderone del marketing. Da una vita mi batto su quel confine di distinzione: non sono un pubblicitario. Per far capire bene cosa facevo, prendevo l'esempio di un giornale, dove si potevano distinguere bene gli articoli derivati da comunicati stampa (la parte redazionale) e le pagine pubblicitarie. Su quanto le seconde abbiano sempre influito sui primi potremmo discuterne un mese ("ho visto cose..." potrei dire) ma restiamo sulla percezione del lettore, la distinzione c'era. Da una parte c'era un giornalista, dall'altra un'azienda. 

Per carità, c'è sempre stata tutta una fascia grigia, non sono né un romantico né un ingenuo. Le vedo anch'io le pagine pubblicitarie "mimetizzate" da articoli (l'edizione italiana di Wired ne ha molte e fatte molto bene), gli articoli che sembrano advertising (le cosiddette marchette) e il grande e variegato mondo dei pubbliredazionali. Però il modello almeno era chiaro. Ora le grandi aziende sembrano voler passare il Rubicone in forze e si propongono come nuovi "raccontatori di storie". Se a una valutazione preliminare può apparire una gran bella notizia, soprattutto per me che lo storytelling lo faccio per lavoro, i lati più oscuri rimangono quelli più interessanti.

Coca Cola ha come suo primo obiettivo quello di vendere, non di fare informazione. Inutile girarci intorno. Il team di Coca Cola Journey può avere una sua redazione ma rimane un'azienda privata con obiettivi privati. Bene ribadirlo, interessi del tutto legittimi. Discorso speculare vale per le testate: le storie sponsorizzate e i contenuti brandizzati, ossia il cosidetto "native advertising", vengono pubblicati perché qualcuno paga, non per una scelta legata alla qualità intrinseca di quello che viene raccontato. Se la zona grigia aumenta, diventa più difficile capire chi dice cosa e perché. Al New York Times hanno un'opinione su questo:
"It is critically important to us that advertising can be clearly distinguished from editorial and news content by our readers. For that reason, we tend not to accept native advertising”.
Sono pienamente d'accordo. La questione importante non è che il logo diventi molto piccolo o passi in secondo piano: le parole, le immagini e lo stile stesso possono essere simili a "marchi registrati" di un'azienda. La bottiglietta là sopra è un chiaro esempio (vedi qui). La questione vera è chi comunica, il soggetto. Su questo ci deve essere chiarezza. Ho sempre sostenuto che il giornalista avrà un ruolo in futuro ma che ancora non si sa quale sia, una casella vuota. Quello che so è che non potrà essere colmato da un'azienda. Anzi, lo spero.

venerdì 16 novembre 2012

Collaborazione vs antagonismo


Tra ieri sera e oggi mi è accaduta una cosa, che riflettendo a posteriori potrebbe essere utile per iniziare a creare un piccolo modello di collaborazione tra giornalisti e cittadini, non di sterile antagonismo che oggi non ha più senso di esistere. Il tutto in una logica di fact checking ma non solo. Spiego l'accaduto, poi la riflessione.
  • Il Corriere della sera pubblica ieri un articolo a firma di Guido Olimpio sui nuovi missili Fajr 5 che minacciano Israele. 
  • Nell'articolo originale c'è un evidente refuso: la testata del missile, si scrive, ha un peso di "907.100 chilogrammi". Non può essere, quello è il peso di un treno completo di locomotive e vagoni.
  • Io via Twitter (vedi sotto) e un lettore attraverso i commenti segnalano l'evidente errore. 
  • L'articolo viene corretto, bene così per tutti, sia per chi l'ha scritto che per chi dovrà leggerlo.

Nella sostanza, una cosa senza rilevanza particolare. Tuttavia, riflettendoci su, ho ripensato a quello che ho fatto:

  • ho segnalato l'errore su Twitter in modo da segnalare ai miei follower, e non al giornalista, che il Corriere della sera aveva preso una bella cantonata.  
  • Ci ho pensato su. Era un chiarissimo refuso (senza fantomatici secondi fini), perché non segnalarlo al redattore in modo tale da far correggere l'articolo? 
  • Il giornalista mi ha risposto. La collaborazione reciproca per un mutuo interesse, il suo di autorevolezza, il mio di corretta informazione, ha portato al risultato. Insomma "un fact checking volante".

Cosa c'è che non torna, alla fine? Che chi legge l'articolo non ha percezione di questa collaborazione, lo legge o con l'errore (prima) o senza (poi). Perché non darne visibilità? Perché le testate non devono chiedere una mano ai lettori per fare un'informazione migliore?

Un box di "fact checking" in cui si ringraziano i cittadini che hanno speso un po' del loro (prezioso) tempo per aiutare un giornalista e una testata, non per danneggiarla. Magari, segnalando nickname scelto per i commenti, per Twitter o per altre cose. Un modo intelligente per "pagare in visibilità" e incentivare la collaborazione, non l'antagonismo. I giornalisti, come tutti noi, sbagliano anche in buona fede e iniziano a voler collaborare con i propri lettori. "Una volta che è pubblicata, una storia diventa di tutti" dice Nick Petrie del The Times (citato anche qui). Per questo, meglio iniziare a collaborare. "Possiamo pretendere che comincino politici e giornalisti, ma secondo me facciamo prima se cominciamo a dare, ciascuno nel suo piccolo, il buon esempio" dice Sergio Maistrello. Appunto.

mercoledì 14 novembre 2012

Meglio aver ragione che essere autoironici

Le immagini valgono più di mille parole, questo è un mantra di questo blog (un esempio qui e qui). Bene, ora guardate le due immagini qui sotto, sono entrambi di un sito di partito democratico.

 
La prima, un'immagine gioiosa ma elegante, sobria e curata, che esprime soddisfazione per un risultato importante e che ringrazia soprattutto chi sta dall'altra parte dello schermo ("grazie a voi"). Ogni protagonista guarda direzioni diverse, verso i loro elettori, con una qualità singola forte e d'impatto. Si vede ovviamente che non è una foto spontanea (su questo, ho già detto la mia) ma è stata scelta perché valida in ogni dettaglio.
 

La seconda, un'immagine che vuole giocare con l'autoironia, strizzando l'occhio alle generazioni più giovani, ma che è sostanzialmente autocelebrativa ("abbiamo vinto noi"). Non è curata dal punto di vista grafico (cosa voluta in modo evidente ma che, a mio parere, non è per nulla una scelta azzeccata) e tutti i presenti guardando verso il centro, portando l'attenzione sulla figura centrale, l'attuale segretario del partito. In più, c'è una bella marchetta nei confronti della tv che ha gestito il dibattito (per chiarire il quadro vedi qui e, soprattutto, qui).

So perfettamente che i contesti sono molto diversi ma la filosofia di fondo rispecchia nettamente una diversità di approccio davvero netta. La questione non è essere ammiratori di Obama o esterofili, è essere obiettivi nel giudicare la professionalità e le idee di chi comunica. C'è modo e modo di strizzare l'occhio ai giovani. Lo sottolinea perfettamente, e senza necessità di precisazioni, il tweet di Michele Boroni qui sotto riferito ai "Fantastici 5". Parafrasando una celebre frase, meglio aver ragione piuttosto che essere autoironici.

martedì 13 novembre 2012

Il futuro del giornalismo? Tornare al passato

Il possibile sviluppo futuro della figura del giornalista è un tema che mi interessa molto (vedi qui e qui). Una delle possibili opportunità di sopravvivenza del giornalismo è quello di far "esplodere" i fatti, interpretarli, semplificare le chiavi di lettura, al fine di essere davvero utile nei confronti dei lettori. Non potendo vincere la gara della velocità e della quantità di notizie con gli utenti dei social network (anche in ottica citizen journalism), devono ritagliarsi un ruolo importante nella qualità delle notizie, nell'approfondimento. Se la figura del giornalista ha un futuro, questa deve ripassare i requisiti di base che aveva nel passato: credibilità, competenza, fact checking, esperienza. Ossia tutte doti che l'uomo della strada, armato di smartphone e tablet, difficilmente può avere. Non deve raccogliere istantanee di presente, cercando lo scoop a tutti i costi. Al contrario, deve raccontare storie e lo deve fare con stile, semplicità e precisione.

Prendiamo un caso recente, quello di David Petraeus. Mi ha interessato da subito e, da subito, ho avuto la sensazione che ci fosse molto più da scoprire su questa storia (qui sotto il tweet che avevo scritto qualche amante fa, questo l'aggiornamento di oggi con il coinvolgimento del Generale Allen).


Allora mi sono messo a leggere qualche articolo, come questo: ditemi se ci capite qualcosa. Forse solo un esperto si soap opera ci trae qualche conclusione. Un sacco di informazioni, molte inutili ai fini della comprensione dei fatti (quanti figli ha ognuno dei protagonisti, ad esempio), nessun filo conduttore. Va bene, la storia è complessa, si intrecciano amanti e file segreti, scenari bellici e e-mail appassionate. Ma è proprio il giornalista che ha il compito di trovarci un ordine, per quanto ancora temporaneo in attesa di nuove conferme. Il suo ruolo è quello, mica farmi vedere quanto brutta è la moglie del generale. Allora cerco in rete e trovo questo, in italiano: l'amante guerriera contro la moglie da tinello, il generale Ego e l'uomo che ha ingannato l'America. Ho ancora le idee molto confuse.

Cerco su Google e trovo questo bel post di Stefano Cingolani, classe 1949, giornalista. Non spiega tutto ma molto sì, cita le fonti (il New York Times, mica l'ultimo arrivato in termini di credibilità), ci dice che casi del genere non sono rari nella diplomazia americana (vedi anche qui), ci offre la chiave di lettura della contrapposizione storica tra FBI e CIA, non entra in particolari da soap opera ma spiega come il centro della storia sia più legato alla vicenda di Bengazi che a quella delle sue amanti (vedi anche qui). Mi offre una lente per vedere meglio. Per carità, non è un caso unico, anche sul Corriere sono usciti pezzi interessanti, casualmente prima che scoppiasse la bomba delle amanti.

Ad oggi, nessuno sa la verità, però io, lettore, ho capito la situazione molto più da un singolo post che da 4 siti di quotidiani. Blog di un esperto giornalista classe 1949. Guardare al futuro tornando alle regole del passato, si diceva. Una bella conferma. 

mercoledì 7 novembre 2012

Una lezione di comunicazione, in un tweet

Barack Obama vince le elezioni e il secondo mandato come Presidente degli Stati Uniti (e io ho indovinato quasi tutto). Come lo annuncia? Su Twitter. Una foto, tre parole: four more yearsIl discorso verrà dopo, sintetizzato nel motto "the best is yet to come". Ma riguardate il tweet, c'è tutto: la felicità, l'emozione, la soddisfazione personale e professionale, la perfetta conoscenza del mezzo, uno staff fenomenale (fattore determinante per la vittoria).

Una lezione forte e semplice, al tempo stesso. Si può dire tanto con un'immagine e tre parole. Lui ha detto tutto. Chapeau.


Aggiornamento: molti post e articoli hanno sottolineato come la foto postata da Obama non fosse relativa alla notte dell'elezione ma di molto precedente (vedi qui). Addirittura, c'è chi la definisce "un falso storico". Il mio punto di vista: Obama ha vinto anche grazie a uno staff di qualità parecchio superiore rispetto a quella del suo sfidante. Alcune di quelle persone ci hanno messo anni a scegliere il font giusto da utilizzare per la campagna (il Gotham, vedi qui). Allo stesso modo, la foto della vittoria era stata già selezionata tra le migliaia di elevata qualità a disposizione, pronta all'invio. Come era già pronto il discorso della vittoria e della sconfitta. Come erano già pronte mille altre cose (compreso il sito per la vittoria di Romney andato online per sbaglio).

Chi pretendeva una foto in tempo reale "alla instagram" è un inguaribile romantico: in campagna elettorale, nulla è lasciato al caso o all'improvvisazione. La questione della verità e della sincerità lasciamole stare, per favore. Quella foto diceva esattamente quello che il Presidente rieletto voleva comunicare. Basta e avanza, il resto è fuffa. "Una lezione di Social Media" dice Vicenzo Cosenza nel post sul falso storico. Condivido in pieno questo, non il titolo.

lunedì 5 novembre 2012

Un buon giornale è una nazione che parla a se stessa


Volete un semplice esempio per sapere come funziona (male) l’informazione in Italia? Le elezioni americane. L'argomento mi appassiona dal 1988, da Bush padre che massacra Dukakis dopo 8 anni di Reagan. Non dall’era Obama. Se vogliamo approfondire la cosa sui media, oggi, vediamo un sacco di fumo e pochissimo arrosto. Partiamo da una domanda chiara e semplice: nelle elezioni americane vince chi prende più voti popolari? No. Diventa Presidente chi ottiene più voti dei “grandi elettori”, i quali vengono eletti, in numero predefinito, in ogni Stato. La differenza non è lieve. Al Gore nel 2000 ottenne più voti popolari di George W. Bush ma, perdendo la Florida di 537 voti (e vedi qui se e come la perse), perse la Casa Bianca. Insomma, un Risiko: si vincono gli Stati e, facendo la somma dei Grandi Elettori, si ottiene il Presidente degli Stati Uniti. Trovate tutto, ovviamente, su Wikipedia.
Quale informazione invece danno i nostri media? Sondaggi sulle tendenze di voto delle donne single. O di latinos, afroamericani, gente del midwest e chi più ne ha più ne metta. Tanta fuffa, pochissima sostanza. Oppure tutte le luci accese sui dibattiti dei candidati, che sembra che spostino centinaia di migliaia divoti. Kennedy nel 1960 distrusse Nixon in tutti i dibattiti e vinse, certo, ma di 112mila voti, appena lo 0,2%, un record ancora non superato. In termini di Grandi elettori invece? 303 a 210. Che sembra un massacro, no? Se andate sul sito www.politico.com, nella sezione degli Swing States (gli stati in bilico), potete fare le vostre previsioni, capendo esattamente come funziona la partita. Ogni stato ha un peso: la California ha 55 Grandi Elettori, l’Alaska 3. Un sistema spiegato in modo chiaro, semplice, efficace. Da noi? Un esempio.
Il sistema americano è giusto? Non lo so, quel che è certo è che funziona (quasi) sempre. Perché non ci viene spiegato bene? Si parla tanto di Ohio e Florida come Stati decisivi senza evidenziare, in modo comprensibile a molti e senza ammiccamenti da addetti ai lavori, perché dovrebbero essere decisivi. Qui sta il succo della crisi dell’informazione: tanta quantità e analisi, poca qualità e chiarezza. Belle eccezioni in questo scenario mediocre ne esistono, un esempio qui e un altro qui (partendo da West Wing, serie favolosa): tanti fatti, poche parole, una specie di infografica utile (mica sono tante). Poi ci sono progetti e idee interessanti (come questo, segnalatomi da Michele D’Alena) ma qui si entra più sul gioco che sull’informazione.

Come disse Arthur Miller, “un buon giornale è una nazione che parla a se stessa”. A noi, oltre a un modello sostenibile per l’editoria del futuro (sempre che possa esistere), ci mancano i buoni giornali. E una nazione di persone che, finalmente, impari a scegliere cosa ascoltare.

Chi vincerà? Io la mia previsione su www.politico.com l'ho fatta, è qui sotto. Stiamo a vedere.