Visualizzazione post con etichetta native advertising. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta native advertising. Mostra tutti i post

giovedì 9 maggio 2019

Gli articoli sponsorizzati, due riflessioni


Gli articoli a pagamento ci sono sempre stati. Il "giornalismo di una volta, quello coi valori e i cronisti d'assalto" non è mai esistito. O almeno, non c'è mai stato solo quello. Mi spiego.

Quando iniziai il mio lavoro in ufficio stampa, gli articoli sponsorizzati si chiamavano pubbliredazionali. Nome orribile. Io poi li chiamavo "publiredazionali" poi la Crusca mi convinse che sbagliavo e aggiunsi una B. Non mi piacevano, per la mia idea nobile di "redazione". Ma il giornalismo, come imparai, è cosa complessa e gli ideali, che ci sono ancora (o almeno ci voglio credere), sono solo una parte del tutto. C'è da guadagnare e avere aziende che pagano per essere sul giornale in modo diverso dalla pubblicità tout court, in un modo più... redazionale, è sempre stato interessante per un editore.

Ne scrivo dal 2009. Ora si chiamano sponsored content. Oppure native content, se il "sponsored" non ti piace tanto. O, se poi vuoi essere davvero cool, native ads. La sostanza non cambia di una virgola, l'inglesismo non ti salva: è un contenuto che diventa qualcosa di simile al prodotto della redazione ma viene pubblicato perchè qualcuno paga e non è direttamente l'editore. Diciamolo ancora: ci sono sempre stati.

La differenza la fa sempre, e sottolineo sempre, il rispetto verso il lettore. Se io leggo una news su un'azienda, voglio capire subito se è stato pubblicato perché un giornalista ha ritenuto fosse una notizia (poi su questo si possono scrivere altri 237 post ma avete capito) oppure perché un'azienda ha pagato. Preferisco la prima ma non demonizzo la seconda. Spesso questa trasparenza non c'è e qui sta la cosa brutta. Perché se il media non mette in chiaro le cose, mi prende in giro. Senza se e senza ma.

Il Post ci ha scritto un post oggi. Loro due parole, io più umilmente ci faccio due riflessioni:

  1. Caro Post, apprezzo che tu mi rispetti come lettore e mi spieghi la tua linea editoriale e redazionale. Mi scrivi "ARTICOLO SPONSORIZZATO", come qui, e non posso che apprezzare.
  2. Caro Post, tu scrivi che è "una cosa che non avviene per gran parte degli articoli di simile natura che trovate sui quotidiani o su altri siti". Oltre a prendere posizione, potresti agire con chi dovrebbe tutelare la deontologia professionale?
I native ads vanno benissimo pare. Ma c'è da fare chiarezza.

venerdì 14 giugno 2013

Ci vuole rispetto per gli utenti: Google contro gli advertorial


Condivido tutto quanto detto da Matt Cutts di Google nel video qui sopra (trovato qui) contro gli advertorial (pagine pubblicitarie travestite da contenuti editoriali, insomma il caro vecchio pubbliredazionale), il native advertising e i link a pagamento. E non da oggi. Fa piacere essere d'accordo con loro, mica capita sempre.

Repetita iuvant. E buon weekend.

martedì 20 novembre 2012

Il lato oscuro del native advertising

Basta la bottiglia.
Il Giornalaio ha pubblicato ieri un ottimo post che parla dell'evoluzione del rapporto tra comunicazione aziendale e pubblicità alla luce della crisi epocale dell'advertising. Citando il caso del nuovo portale di Coca Cola, che si presenta di fatto come una testata, un hub informativo, più che come un sito aziendale, si approfondiscono le caratteristiche di una delle possibili strade che la comunicazione può prendere in futuro: l'impresa si trasforma da marchio a media. L'argomento è molto interessante, non lo si può esaurire in un solo post, però inizio a rifletterci su.

Di fatto, la comunicazione aziendale e la pubblicità sono sempre state due parti distinte, anche se spesso, nella testa di un'imprenditore, era una differenza non così chiara nel grande calderone del marketing. Da una vita mi batto su quel confine di distinzione: non sono un pubblicitario. Per far capire bene cosa facevo, prendevo l'esempio di un giornale, dove si potevano distinguere bene gli articoli derivati da comunicati stampa (la parte redazionale) e le pagine pubblicitarie. Su quanto le seconde abbiano sempre influito sui primi potremmo discuterne un mese ("ho visto cose..." potrei dire) ma restiamo sulla percezione del lettore, la distinzione c'era. Da una parte c'era un giornalista, dall'altra un'azienda. 

Per carità, c'è sempre stata tutta una fascia grigia, non sono né un romantico né un ingenuo. Le vedo anch'io le pagine pubblicitarie "mimetizzate" da articoli (l'edizione italiana di Wired ne ha molte e fatte molto bene), gli articoli che sembrano advertising (le cosiddette marchette) e il grande e variegato mondo dei pubbliredazionali. Però il modello almeno era chiaro. Ora le grandi aziende sembrano voler passare il Rubicone in forze e si propongono come nuovi "raccontatori di storie". Se a una valutazione preliminare può apparire una gran bella notizia, soprattutto per me che lo storytelling lo faccio per lavoro, i lati più oscuri rimangono quelli più interessanti.

Coca Cola ha come suo primo obiettivo quello di vendere, non di fare informazione. Inutile girarci intorno. Il team di Coca Cola Journey può avere una sua redazione ma rimane un'azienda privata con obiettivi privati. Bene ribadirlo, interessi del tutto legittimi. Discorso speculare vale per le testate: le storie sponsorizzate e i contenuti brandizzati, ossia il cosidetto "native advertising", vengono pubblicati perché qualcuno paga, non per una scelta legata alla qualità intrinseca di quello che viene raccontato. Se la zona grigia aumenta, diventa più difficile capire chi dice cosa e perché. Al New York Times hanno un'opinione su questo:
"It is critically important to us that advertising can be clearly distinguished from editorial and news content by our readers. For that reason, we tend not to accept native advertising”.
Sono pienamente d'accordo. La questione importante non è che il logo diventi molto piccolo o passi in secondo piano: le parole, le immagini e lo stile stesso possono essere simili a "marchi registrati" di un'azienda. La bottiglietta là sopra è un chiaro esempio (vedi qui). La questione vera è chi comunica, il soggetto. Su questo ci deve essere chiarezza. Ho sempre sostenuto che il giornalista avrà un ruolo in futuro ma che ancora non si sa quale sia, una casella vuota. Quello che so è che non potrà essere colmato da un'azienda. Anzi, lo spero.